L’illuminismo nero di Trump. Diversamente imperialista
di Antonio Cantaro
L’intervento di Antonio Cantaro tenuto a Roma martedì 9 dicembre nell’ambito dei “Laboratori di cittadinanza attiva”, promossi da Auser e dedicati al tema “La crisi della democrazia nel nuovo quadro internazionale”
La crisi della democrazia nel nuovo quadro internazionale è un tema enorme e che suscita crescenti, legittime, inquietudini. Specie oggi, a pochi giorni dalla pubblicazione di un documento – National Security Strategy of the United States of America – che chiarisce inequivocabilmente gli obiettivi della dottrina di politica internazionale dell’amministrazione Trump e, altrettanto inequivocabilmente, che una delle principali poste in gioco di questa dottrina è la liquidazione della democrazia nel mondo e in Europa per come l’abbiamo conosciuta e praticata a partire dal secondo dopoguerra. Sbagliano Carlo Rovelli e Stefano Fassina a non cogliere il significato diversamente imperialista della “nuova” dottrina dell’ amministrazione americana. La Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti è, in questo senso, un inquietante manuale di cittadinanza. Di cittadinanza passiva.
La sua lettura è, perciò, quanto mai istruttiva per chi, al contrario, si batte per una cittadinanza attiva, per chi crede ancora nella democrazia come forma di vita. Una lettura che va rigorosamente fatta a partire dalla prefazione al documento a firma di The Donald. Due paginette in cui c’è scritto tutto quello che ci rifiutiamo di capire e che, anche in questi giorni, continuiamo, con rare eccezioni, a non voler capire. Il valore ‘rivoluzionario’ e, al tempo stesso, profondamente reazionario delle due parole d’ordine della nuova destra americana. America first, Make America Great Again. “Prima L’America”, “Fare l’America Grande di Nuovo”.
Due paginette, assertive e messianiche, che vanno prese sul serio. Molto sul serio. Non si tratta di mera sovrastruttura retorica. Siamo di fronte a una vera e propria dottrina sull’Occidente. A una dottrina sul punto cui è giunta la sua storia recente, sul perché questa storia è finita, sul come può ricominciarne un’altra nel “Vecchio” Continente e nel c.d. emisfero occidentale. Non si tratta di isolazionismo: siamo di fronte alla riproposizione, in nuove forme, di un progetto imperialista sotto l’egida statunitense.
Le politiche isolazioniste in materia di economia e di immigrazione ne sono lo strumento e il fine immediato. Ma la meta finale e l’orizzonte di senso che le sostiene è quella di fare grande la nazione americana. A spese di chi? A spese di chiunque si frapponga a questo progetto. Non ci sono più alleanze, ma soltanto allineamenti con l’ex amico americano. E chiunque si rifiuterà di capire – si chiami pure Giorgia Meloni – presto lo capirà. Con le buone o con le cattive. Meglio: prima con le cattive e poi, eventualmente, con le buone, secondo quanto postula la “filosofia” di chi conosce bene le “regole” del gioco del Risiko.
«Negli ultimi nove mesi – è l’incipit della prefazione di The Donald – abbiamo riportato la nostra nazione lontano dall’orlo della catastrofe e del disastro. Dopo quattro anni di debolezza, estremismo e fallimenti mortali, la mia amministrazione si è mossa con urgenza e a una velocità storica per ristabilire la forza americana in patria e all’estero, e portare pace e stabilità nel nostro mondo. Nessuna amministrazione nella storia ha realizzato un’inversione di rotta così drastica in così poco tempo». E, subito dopo, aggiunge: «A partire dal mio primo giorno in carica, abbiamo ripristinato i confini sovrani degli Stati Uniti e dispiegato le forze armate statunitensi per fermare l’invasione del nostro Paese. Abbiamo eliminato dalle nostre Forze Armate l’ideologia radicale di genere e la follia “woke”, e abbiamo iniziato a rafforzare il nostro esercito con investimenti per 1.000 miliardi di dollari. Abbiamo ricostruito le nostre alleanze e ottenuto che i nostri alleati contribuissero di più alla nostra difesa comune – incluso uno storico impegno dei Paesi NATO ad aumentare la spesa per la difesa dal 2% al 5% del PIL. Abbiamo liberato la produzione energetica americana per riconquistare la nostra indipendenza e imposto dazi storici per riportare in patria industrie critiche».
Sin qui America first. L’elenco delle ‘strabilianti’ cose fatte e messe in cantiere per rimettere al centro l’interesse nazionale americano, per fare uscire il Paese (e il mondo aggiunge subito The Donald) dalla catastrofe e dal disastro in cui l’aveva lasciato la precedente amministrazione Biden, l’ideologia dei democratici, la follia woke. Quel tempo, rivendica The Donald è finito: la NATO non sarà più pagata con i soldi dei contribuenti americani, la sovranità energetica americana sarà ricostruita, i dazi riporteranno in patria tante industrie sofferenti. Una Patria “più bella e più superba che pria”, come nella celeberrima gag di Ettore Petrolini nei panni di Nerone rivolto al “popolo” romano.
C’è, indubbiamente, del delirio autistico nel Presidente Americano. Ma sarebbe riduttivo e superficiale fermarsi a questo. Prosegue The Donald: «Con l’Operazione Midnight Hammer, abbiamo annientato la capacità dell’Iran di arricchire uranio. Ho dichiarato i cartelli della droga e le violente bande straniere che operano nella nostra regione Organizzazioni Terroristiche Straniere. E nel corso di soli otto mesi abbiamo risolto otto conflitti feroci – inclusi quelli tra Cambogia e Thailandia, Kosovo e Serbia, RDC e Ruanda, Pakistan e India, Israele e Iran, Egitto ed Etiopia, Armenia e Azerbaigian – e abbiamo posto fine alla guerra a Gaza con il ritorno alle loro famiglie di tutti gli ostaggi vivi».
Non è proprio esattamente così. Il Presidente americano è ripetutamente smentito dalla cronaca, compresa quella di queste ore in Cambogia e Thailandia. Ma per un “rivoluzionario” si tratta di dettagli: se la realtà sbaglia peggio per Lei, la riporteremo alla ragione, alla nostra ragione. Si legga questo tutt’altro che secondario passaggio della Prefazione. È vero – dice The Donald – che “mettiamo l’America al primo posto”, ma è proprio per questo che «l’America è di nuovo forte e rispettata» ed è «per questo che stiamo portando pace in tutto il mondo».
Affermazione visivamente assecondata dalle telecamere di tutto il mondo. Proprio, infatti, nelle ore in cui la Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti veniva data alle stampe, Gianni Infantino, sul palcoscenico del Kennedy Center di Washington, si premurava di consegnare al Presidente statunitense, prima dei sorteggi per i mondiali di calcio, il «premio per la pace». “Gianni e io ne stavamo parlando”, ha risposto il Presidente americano all’ossequioso Presidente della Fifa: «abbiamo salvato milioni e milioni di vite. Il mondo è un posto più sicuro oggi». Nel frattempo un’accorta regia apriva la cerimonia con l’aria della Turandot di Puccini, Nessun dorma, cantata da Andrea Bocelli. Aria chiusa dal celeberrimo «Vincerò» finale e da un video che mostra una bandiera americana che svela la Coppa del mondo.
C’è poco da ironizzare sul trumpiano «Vincerò». Chi lo fa sottovaluta, o peggio ignora, cosa c’è dietro l’apodittico e messianico Manifesto politico-ideologico contenuto in questa – “Vincerò” – formula magica. C’è il progetto – i prossimi anni ci diranno quanto velleitario e disastroso – di un nuovo ordine internazionale che non è maturato come un fungo in un piovoso autunno americano. Per apprezzarne la portata vale la pena soffermarsi sul “discorso” di un ideologo della destra americana più radicale ed estrema, Curtis Yarvin. Un “discorso” limpido, la cui esemplarità è accresciuta dal fatto di essere stato messo nero su bianco – pensate, su un Post – prima della putiniana operazione militare speciale e della seconda Presidenza Trump.
“I cani – dice metaforicamente Yarvin – dovrebbero essere liberi di correre e giocare, non dovrebbero essere incatenati tutto il giorno. Il diritto di fare la guerra è l’attributo più fondamentale della sovranità nazionale. Non esistono stati fantoccio o paesi fittizi; ogni nazione è indipendente: esiste grazie al proprio potere. Se questo potere viene meno, scompare”. Sbrigativamente fascista si dirà, e non a torto.
E, tuttavia, non possiamo fermarci a questo. La chiave di lettura della storia di questo profeta dell’Illuminismo nero reca con sé un ‘corollario’ che è normativamente più rilevante del postulato analitico. Ciò che è prioritario – prosegue Yarvin – non è l’esercizio del potere, quanto che il potere venga conquistato ed espanso incessantemente attraverso azioni esemplari e colossali, innanzitutto in politica estera. Ottenere risultati è un obiettivo secondario. I risultati sono ‘semplicemente’ delle entrate. Il potere è il capitale. È l’azione coraggiosa e decisiva, di guerra e di pace, a plasmare il potere. Vittorie spettacolari che creano il precedente che genera altro potere.
Il “nuovo ordine internazionale” evocato e auspicato da Putin e da Trump in questi anni e in questi mesi, lungi dall’essere irregolare ed enigmatico, assomiglia molto da vicino a questo paradigma. “Se Trump – scrive Yarvin nel ricordato Post del 2022 – riuscisse ad agire su una scala che nessun presidente a memoria d’uomo ha mai osato, i suoi nemici sarebbero sconcertati e spaventati; i suoi sostenitori ne trarrebbero energia e forza; e per lui sarebbe più facile non solo ottenere risultati, ma anche acquisire ancora più potere. La vittoria genera altra vittoria”.
La vittoria in guerra, dunque, come unica fonte della legge? In realtà, gli sviluppi della guerra israelo-palestinese quanto di quella russo-ucraina, suggeriscono un quadro più articolato: la crucialità per il nuovo ordine sì della vittoria nella guerra ma anche della vittoria nella pace. Il mondo di Putin e di Trump è un mondo senza alleati, un mondo in cui tutti i cani sono “liberi di correre e di giocare” sino a quando dimostrano di poterlo fare. Se questo potere viene concretamente meno, il cane (lo Stato, la nazione) deve smettere di giocare (di fare la guerra) e se vuole sopravvivere non gli resta che cooperare (fare la pace, firmare una resa) se non vuol essere letteralmente annientato (vale per i palestinesi, vale per gli ucraini). Come in un wargame, a un certo punto, il tempo per sognare, per chi non ha potere, scade.
Sin qui il “Trump ideale” di Yarvin. Ma non molto diverso è il “Trump reale” della Prefazione alla Security Strategy of the United States of America «Quella che segue – scrive The Donald nella paginetta conclusiva – è una Strategia pensata per descrivere e consolidare gli straordinari progressi che abbiamo compiuto. Questo documento è una tabella di marcia per garantire che l’America resti la nazione più grande e di maggior successo nella storia dell’umanità, e la casa della libertà sulla Terra. Negli anni a venire continueremo a sviluppare ogni dimensione della nostra forza nazionale e renderemo l’America più sicura, più ricca, più libera, più grande e più potente che mai». Insomma, il Trump Nerone di Prezzolini.
E, così, siamo tornati al punto di partenza da cui ha preso le mosse il nostro discorso. Non c’è né nel “Trump ideale”, né nel “Trump reale”, alcuna forma di isolazionismo fondamentalista, siamo di fronte ad una nuova forma di imperialismo. Le politiche America first sono lo strumento e il fine immediato, ma la finalità ultima – l’orizzonte, la meta – è quello di Fare l’America Grande di Nuovo. È per questa ragione che il mondo di Trump e il mondo di Putin non conoscono “violenza illegittima”. In nome della ‘metafisica’ della Grande Russia e dell’America Grande tutto è lecito. A sostenere la “metafisica” c’è la “fisica”: la potenza de facto che conferma la bontà della “metafisica, assurgendo a unico ed esclusivo fondamento di legittimazione del “nuovo ordine internazionale”.
Non desta perciò meraviglia che il principio dell’eguale sovranità degli Stati, universalizzato nel secondo dopoguerra con la Carta dell’Onu, venga vissuto e dipinto come un disvalore. L’ordine della potenza è un valore in sé, anzi l’unico valore. L’ordine de facto che ne consegue è, tout court, l’ordine de jure. L’architettura della pax trumpiana per Gaza e della pax putiniana-trumpiana per l’Ucraina riassumono perfettamente questo paradigma. Senza potenza c’è solo caos e disordine. La potenza della forza economica, tecnologica, militare è l’arma decisiva per la vittoria nella guerra e per la vittoria nella pace.
Trump non attinge cortigianamente e passivamente alla dottrina Putin, ma ne condivide i postulati, considerandoli adeguati alla missione della destra americana di tornare a fare l’America grande. Se si sottovaluta questo dato politico-ideologico e questa mistica e si riduce tutto a bullismo, a mera legge della forza, ad antropologia del Padrino, non si capisce niente del programma di politica estera dell’amministrazione americana e della sua visione dell’ordine internazionale. Non si capisce niente della scelta strategica di abbondonare il multilateralismo a vantaggio del multipolarismo, della scelta altrettanto strategica per un mondo diviso in sfere di influenze, per un mondo che non conosce eterne alleanze, ma solo allineamenti che valgono sino a quando ciascuna potenza reputi conveniente che valgano.
Pacta non sunt servanda. Una forza “rivoluzionaria” – e il trumpismo a suo modo lo è – non si sottomette all’autorità di un brocardo latino e irride agli inconsolabili pianti delle vedove europee che reclamano il vincolo indissolubile del matrimonio. Il matrimonio tra Vecchio e Nuovo Mondo – l’Occidente – è finito e Trump non ha alcuna intenzione di pagare gli alimenti dell’antico partner. Ha dalla sua il fascino della missione “metafisica” che si è intestato e la forza della “fisica”: la potenza de facto di cui l’America ancora gode per quanto ammaccata da decenni di mal tollerata convivenza.
È con queste lenti che va letta la National defense strategy. È – ripeto – scritto tutto lì nero su bianco: l’abbaglio democratico e repubblicano per l’amore che fu, la nuova vita che attende l’America per la riconquistata libertà dal vincolo matrimoniale con l’Europa, il pragmatismo utilitarista cui la nuova America, single ma tutt’altro che isolazionista, ispirerà la sua condotta presente e futura. Senza l’elementare e fondamentale distinzione tra mezzi e fini non capiamo niente di The Donald. Abbandoniamo al suo modesto destino l’hegeliana notte in cui tutte le vacche sono grigie. Lasciamola, almeno per un giorno, ai talk show televisivi, a “Otto e mezzo” della Signora Gruber, a “Mezz’ora” della Signora Monica Maggioni. Un po’ meglio, la seconda, ma non ci vuole molto.








































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