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machina

Combattere la macchina genocidiaria!

di Maurizio Lazzarato

Ripensare il due, la divisione, la rivoluzione

0e99dc 8d15a85be9e948548103b9af8c757a64mv2Dopo l’analisi sviluppata nel precedente articolo Potenza e impotenza contemporanee, Maurizio Lazzarato riprende la sua disamina per comprendere le ragioni per cui le mobilitazioni degli ultimi anni non sono riuscite a mettere in crisi la macchina Stato–Capitale.

Nell’articolo odierno, l’autore riflette su come vadano ripensate la rivoluzione e il «due» nell’epoca della gestione liberal-democratica e capitalistica del genocidio.

* * * *

Il neoliberismo non è mai esistito!

Il passaggio dal fordismo al cosiddetto neoliberismo avviene attraverso il dispiegarsi della «potenza del negativo», operata non da individui – come vorrebbe il liberalismo – ma da Stati, istituzioni, monopoli, gruppi sociali, partiti politici, forze militari, ecc.L’affermazione di un nuovo sistema economico-politico-militare si realizza innanzitutto attraverso la distruzione: negazione delle classi così come erano uscite dalla Seconda guerra mondiale (sia le classi rivoluzionarie del Sud del mondo, sia quelle impegnate in lotte più riformiste, ma anche le classi dominanti di ispirazione keynesiana); negazione dei dispositivi economici dei «trent’anni gloriosi» (il funzionamento della moneta, del salario, del welfare, dei servizi pubblici, ecc. secondo i principi keynesiani); negazione delle istituzioni di quell’epoca, in particolare della democrazia, giudicata incompatibile con il capitale; negazione della cultura del «compromesso» instaurata nel dopoguerra.

Riportiamo solo alcune date «simboliche» (e gli eventi che vi si collegano) di questo processo al contempo di negazione e di affermazione, descrivibile come una lunga serie di decisioni, minacce, intimidazioni, ricatti, guerre civili, imposizioni unilaterali fondate sulla forza dell’impero statunitense.

A differenza della trasformazione in corso, della rivoluzione conservatrice degli anni '70 e '80 abbiamo tutti i documenti necessari per fare un bilancio del suo svolgimento e possiamo constatare facilmente che si tratta della matrice del nostro presente.

  • 1971: lo Stato Usa dichiara la fine della convertibilità del dollaro in oro, fondamento dell’impero monetario e finanziario che fa del deficit commerciale l’arma di imposizione della propria moneta sovrana. Il Presidente americano dell’epoca, Nixon , svaluta il dollaro e impone un dazio doganale del 10% a tutto il mondo occidentale.

  • 1972: Nixon e Kissinger, ristabiliscono i rapporti politici con la Cina, momento fondamentale della strategia dello Stato, senza i quali non ci sarebbe stata la «globalizzazione» né l’accumulazione mondiale del Capitale, da cui nasce il cosiddetto «neoliberismo».

  • 1973: colpo di Stato in Cile organizzato dal Pentagono e dai militari fascisti per porre fine militarmente alla riproduzione delle “rivoluzioni” nel Sud del mondo e installare il primo governo neoliberale/golpista. Fondazione della Commissione Trilaterale.

  • 1974: accordo politico tra lo Stato Usa e Arabia Saudita affinché l’acquisto del petrolio avvenga in dollari (in pratica, la sua indicizzazione all’«oro nero»).

  • 1975: crisi fiscale dello Stato di New York (le pensioni dei funzionari vengono utilizzate per riequilibrare il bilancio) e dichiarazione della Trilaterale contro la democrazia (giudicata incompatibile con il capitalismo).

  • 1976: colpo di Stato in Argentina, che continua a spianare il terreno per l’installazione del «neoliberismo», come era avvenuto in Cile. La morte di Mao e l’arresto della «Banda dei Quattro» pongono definitivamente fine al periodo della Rivoluzione culturale (che minacciava costantemente di sfociare in guerra civile). La Cina accompagna l’instaurazione della finanziarizzazione statunitense, bloccando i salari, incorporando l’industria occidentale e inondando il mercato americano di prodotti a basso costo.

  • 1977: primo viaggio di Hayek in Cile per incontrate Pinochet e tessere le lodi dello Stato fascista, precondizione del suo mercato libero e concorrenziale. Inizia la repressione in Germania e in Italia da parte dei rispettivi Stati per spegnere gli ultimi fuochi del 1968 (o le prime anticipazioni di lotte future). Dal 1969 si dispiega in Italia una «strategia della tensione»: una serie di attentati organizzati da fascisti, dai servizi segreti italiani e americani, nel paese più combattivo d’Europa.

  • 1979: la controrivoluzione conquista lo Stato con Thatcher: nuove leggi e nuovo diritto per distruggere leggi e diritto imposte dagli stessi Usa lel dopo guerre. Volcker, espressione della nuova strategia statale, fa esplodere i tassi d’interesse per fermare l’inflazione e lanciare l’economia della finanza e del debito (a questi tassi conviene speculare piuttosto che produrre).

  • 1980: la controrivoluzione prende il controllo anche del potere statale negli Stati Uniti con Reagan che lancia politiche fiscali regressive, tagli alle imposte per i ricchi, aumento della spesa militare e attacca il sistema di protezione sociale. Sia lo Stato americano che quello inglese attaccano sistematicamente le forze sindacali e sconfiggono le classi operaie del Nord del mondo.

  • 1983: invasione di Grenada da parte dello Stato Usa per destituire i marxisti al potere e secondo viaggio di Hayek presso i fascisti cileni.

  • 1985: conclusione della prima fase della guerra civile quando lo Stato Usa impone al Giappone (la «Cina» dell’epoca) di suicidarsi economicamente per salvare l’Impero (rivalutazione della moneta giapponese, investimenti negli USA, acquisto del debito statunitense, ecc.). L’economia giapponese non si risolleverà più.

  • La diversità degli interventi (sociali, mediatici, accademici, militari, economici, geopolitici esterni, politici interni, ecc.) necessari per cambiare le modalità dell’accumulazione è impressionante, ma nessuno di essi è affidato al libero mercato concorrenziale. Ciò che riappare continuamente è l'azione dello Stato e della forza, perché è stato, ed è tuttora, il luogo dello sviluppo, della gestione e della mediazione (con altri monopoli di potere, in particolare quelli finanziari) della strategia statunitense.

La strategia di Trump è una replica di quella praticata dalle amministrazioni di Stato americane tra il 1971 e il 1985. Con l’unica differenza che allora esisteva ancora l’Unione Sovietica e non esistevano i BRICS. La grande maggioranza della produzione mondiale era frutto del «capitalismo collettivo» (USA, Europa, Giappone), mentre oggi i BRICS producono più del G7 e il Sud del mondo rifiuta di farsi sfruttare, rendendo impossibile la strategia americana.

Finita la guerra civile occidentale con una vittoria schiacciante degli Usa, esplode la narrazione neo liberale. Il neoliberismo pretende di fare dell’economia un’alternativa radicale alla sovranità e al monopolio della decisione (lo Stato) che lo hanno istituito. Il modello hobbesiano della «protezione» assicurata dal sovrano in cambio dell’ «obbedienza» dei sudditi lascia il posto al mercato, in cui nessuno decide e tutti scelgono: dalla molteplicità delle scelte individuali coordinate dalla concorrenza nasce un ordine spontaneo («Cosmos», secondo il golpista Hayek).

Le conseguenze della fede nella vittoria totale del capitalismo e nella definitiva eliminazione del negativo sono al tempo stesso drammatiche e comiche. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, mentre si impone il Washington Consensus (riconoscimento dell’egemonia unilaterale degli USA sul mercato mondiale), si stabilisce una convergenza paradossale e contro natura tra il pensiero critico e i nuovi movimenti da un lato, e il liberalismo dall’altro. La sconfitta del comunismo è celebrata come la neutralizzazione del «negativo». La scomparsa del nemico sorto con la rivoluzione sovietica apre la via all’azione «positiva» del mercato, alla democrazia esportabile nel mondo intero, alla riduzione delle guerre a fenomeni marginali, alla pace e — nientemeno — alla fine della storia, che, come tutti sanno, avanzava fino alla vittoria liberale, sempre dal lato negativo: attraverso la guerra, la distruzione, la dominazione.

Ben prima del 1991, per tutto il corso degli anni ’60 e ’70, il pensiero critico aveva concentrato i suoi sforzi teorici nel liberarsi del «negativo». La politica rivoluzionaria, fondata sulla negazione del nemico di classe e sulla distruzione delle sue istituzioni (Stato, mercato, esercito, polizia), sarebbe, secondo questa prospettiva, all’origine della propria sconfitta. La nuova politica deve essere «affermativa» (o performativa): il negativo o non esiste, o ha soltanto un’esistenza «fenomenologica»; l’essere è assolutamente positivo. Anche l’azione del potere deve essere considerata anzitutto come positiva, poiché essa produce piuttosto che vietare, accresce la potenza della vita invece di distruggerla (Foucault) — pensato e scritto mentre la controrivoluzione era giunta fino all’eliminazione fisica del nemico politico.Doppio accecamento : del pensiero liberale (che con la «guerra infinita al terrorismo» si è semplicemente sbagliato di nemico) e del pensiero critico, poiché il «due» della dominazione, dello sfruttamento, dell’imperialismo, della guerra, della guerra civile, del colonialismo e del genocidio esistono e persistono nonostante il rimosso del «negativo». Se non sono solubili nel mercato, non lo sono neppure nell’etica del rapporto con sé, nella produzione di soggettività, nel potere costituente della Moltitudine, nel divenire rivoluzionario.

 

La molteplicità e il due

Il rapporto molteplicità/dualismo è il nostro problema politico, ma, nella congiuntura teorica e politica dei movimenti contemporanei, è quasi impossibile porlo. La situazione degli ultimi cinquant’anni potrebbe essere sintetizzata in questo modo: organizzazione locale, intermittente, distribuita, versatile, multipla contro le diverse modalità di dominazione/sfruttamento (né orizzontale, né verticale afferma il compagno brasiliano Rodrigo Nunes) e disorganizzazione assoluta (fino al suo rifiuto), incapacità di costruire e imporre rapporti di forza, mancanza di teoria e pratica dell’uso della forza nello scontro con la totalità divisa (a questo proposito il compagno brasiliano è ben rappresentativo dell’impasse contemporanea). Solo il nemico di classe considera questo livello del conflitto strategico. È in questo modo che continua a vincere. Serie interrotta solo dai rivoluzionari del XX secolo che decisero di confrontarsi risolutamente con il «due» del potere, perché è per quella via che sono arrivate tutte le sconfitte del XIX secolo. Cosa fare affinché la molteplicità delle lotte manifestatesi con la Comune di Parigi non finisca con la «settimana sanguinosa», con il massacro degli insorti?

Lo sterminio è tornato sotto forma di genocidio che le democrazie liberali e il capitalismo progressista non hanno alcun problema a incitare, finanziare, armare, legittimare. Il problema si ripropone, con urgenza, in nuove condizioni. Gaza è molto più che uno dei focolai della guerra civile mondiale «a pezzi», Gaza è il nostro destino! Gli Stati Uniti distribuiscono milioni di dollari che non hanno (Milei, Israele, Ucraina, tutte le «rivoluzioni» colorate, ecc.) come se fossero noccioline, grazie a un’enorme bolla finanziaria che non si sa quando, ma sicuramente scoppierà. Allora i governi occidentali avranno a disposizione procedure, dispositivi, tecniche sperimentate nel genocidio dei palestinesi, da usare contro i poveri del Nord, perché ciò che Israele pratica è una guerra contro la popolazione. Nelle due guerre mondiali un gran numero di civili è stato ucciso, ma perché preso tra i combattimenti di due eserciti nemici. Qui i civili sono l’unico vero obiettivo dell’esercito israeliano. Cosa simile si verificherà quando il cambiamento climatico spingerà i «barbari» del Sud verso Nord in cerca disperata di condizioni per poter vivere e respirare. I signori del mondo hanno un nuovo modello di guerra civile contro i proletari del pianeta intero pronto all’uso, concepito dai sionisti.

L’imperativo categorico della nostra epoca: bisogna pensare a partire da Gaza, cioè a partire dalla violenza assoluta che la macchina Stato-Capitale non ha alcuno scrupolo a mettere in atto. Non si può limitare la critica del capitalismo alla critica del lavoro, del welfare, dello Stato regolatore o anche di polizia considerando queste istituzioni come fondamentalmente pacificate, perché il genocidio è prodotto dalle stesse imprese e dallo stesso Stato. Non si può limitare la critica del potere alla critica delle discipline, della biopolitica, delle società de controllo, della sorveglianza. Il genocidio non è l'espressione di un altro potere, ma di questi stessi dispositivi che insistiamo nel vedere funzionare senza guerra, senza guerra civile, senza la radicale ostilità di classe. Le democrazie non si oppongono alle autocrazie perché organizzano direttamente il genocidio e reprimono quelli che denunciano. Di fatto, abbiamo giudicato il nazismo come una parentesi, un'interruzione di un capitalismo e di uno Stato fondamentalmente «progressisti», anche se abbiamo affermato il contrario. In realtà non abbiamo mai pensato rigorosamente «dopo Auschwitz» e ora la nostra coscienza pusillanime e spensierata è spiazzata da Gaza, cimitero delle nostre teorie affermative, delle nostre filosofie senza il negativo, della nostra radicalità senza odio di classe, della nostra politica senza rottura rivoluzionaria con la distruzione e l'autodistruzione della macchina genocidaria Stato-Capitale.

Dopo due anni di apparente indifferenza, Gaza ha suscitato forme di mobilitazione che ripropongono le questioni alle quali avevano risposto i rivoluzionari della prima metà del XX secolo, confrontati con le guerre mondiali scatenate dalle crisi del capitalismo concorrenziale e dalla sua forma di governo, il liberalismo.

Il movimento italiano dell’inizio dell’autunno ha mostrato che la forza si crea, che la potenza si fa quando si attacca direttamente il «tutto diviso», che lo scontro produce una massificazione quando l’offensiva è diretta contro la forma più generale dell’esercizio del potere, il genocidio, la guerra civile mondiale, la guerra fra Stati. Il movimento diventa forza politica quando la molteplicità, elevandosi all’altezza della strategia del nemico, assume il due, il dualismo globale imposto dalla totalizzazione impossibile del potere.

Né diserzione, né esodo, né linea di fuga, ma rottura globale. L’esodo è stato pensato come un’alternativa alle rivoluzioni e al loro confronto/scontro diretto con il potere. Aggirare, deviare, schivare, eludere, evitare il potere, come se si avesse la forza di imporre un’altra vita, altri comportamenti, un’altra soggettività e come se tale forza, quando si è manifestata, non fosse stata il risultato di un secolo di rivoluzioni e lotte e dunque di rapporti di forza sempre reversibili (e che si sono effettivamente ribaltati!), ma una acquisizione, un potenziale ontologico. Da una dimensione spaziale, l’esodo, la sottrazione, la diserzione, si trasformano dando luogo a un ethos, a una «vita altra», a un modello etico-politico su cui converge l’insieme del pensiero critico. Sono stati opposti i conflitti di mondi ai conflitti di forze sempre nell’illusione di sfuggire al due della lotta, ma i mondi senza la forza diventano rapidamente angusti, poveri sotto ogni punto di vista, fino a spegnersi nella dominazione/sfruttamento. Anche ammettendo che la molteplicità espressasi nei movimenti sia un esodo in atto, la prova del due arriva sempre. Se non altro perché il tutto diviso e imperiale non intende in alcun modo perdere la sua egemonia. Anche la positività di un ipotetico modello etico-politico deve misurarsi con il negativo, e due volte piuttosto che una.

Innanzitutto, la forza e la potenza dell’affermazione non possono sorgere che grazie a una negazione. La storia non avanza secondo un piano predeterminato, non c’è alcuna direzione o senso inscritti in essa; essa procede secondo gli «azzardi» dei conflitti, secondo le strategie delle guerre e delle guerre civili. Ma anche in questo caso, è dal «lato negativo» delle cose che si fa la storia. Molte illusioni del pensiero critico e dei nuovi movimenti sono cadute dopo il 2008.

Come ogni affermazione, quella del movimento ha bisogno di una doppia negazione per imporsi: una preliminare al suo evento che funziona come condizione del suo emergere e una seconda, da costruire, che la consolida e la realizza pienamente attaccando la macchina capitale-Stato nel suo insieme.

Il negativo è doppiamente subordinato all’affermazione del movimento contro il genocidio, ma non può, in alcun caso, essere eliminato: una prima volta l’affermazione presuppone la negazione dell’inesistenza a cui il proletariato italiano era condannato prima del suo sollevamento (condannato all’afasia, dall’asimmetria dei rapporti di sfruttamento, dominazione, subordinazione al padrone, al maschio, all’uomo bianco) che è stata, allo stesso tempo, la negazione della politica di guerra, la negazione del sionismo genocida. Ma per durare, strutturarsi, organizzarsi servirà una seconda negazione da inventare e praticare. Dalla forza del sollevamento, il suo sviluppo nel tempo e nello spazio, dipende dalla sua capacità di negare la totalità divisa, cioè l’insieme dei dispositivi, dei valori e delle istituzioni della totalizzazione impossibile del capitalismo e del suo Stato.Questa seconda negazione è diversa da quella manifestata dall’ «insurrezione», dal tumulto, dalla rivolta: essa implica un’altra temporalità e una strategia di lunga durata. La lotta per il salario, per il Welfare, per i diritti politici e sociali è necessaria, ma non sufficiente. La lotta politica è un doppio movimento dal basso verso l’alto, ma anche l’inverso: la lotta generale contro la totalità divisa che dà forza, coerenza e prospettiva alle lotte particolari (almeno così è stato per tutto il XIX e XX secolo). La lotta radicale contro il potere globale ritorna sulla molteplicità, sul micro, sulle lotte specifiche per rafforzarle, intensificarle, renderle capaci di costruire rapporti di forza, conferendo loro al contempo una profondità storica. Questa seconda fase si amplifica se riesce a coniugare il basso e l’alto, la molteplicità e il due: è questa l’opportunità politica che occorre saper cogliere.

Dalla rottura emerge un processo di costituzione di una soggettività che, prima dell’atto del rifiuto, non esisteva, creando nuove possibilità la cui attualizzazione non è soltanto un «rapporto con sé», compiaciuto della propria mutazione, della propria differenziazione e del proprio divenire, ma organizzazione della forza da dispiegare nella lotta per distruggere la macchina della dominazione e dello sfruttamento, e l’eterno ritorno delle guerre mondiali e civili che essa è sempre pronta a scatenare.

Storicamente, questa doppia negazione dell’affermazione in politica è stata chiamata rivoluzione. Non so quale forma prenderà questo movimento italiano, se assumerà la strategia e la temporalità della seconda negazione, ma una cosa è certa: se non vuole rifluire, se rifiuta di ricadere nelle diverse modalità della dominazione servo-padrone», se non vuole tornare a essere una semplice molteplicità dispersa e frammentata, deve affrontare il problema del rapporto tra molteplicità e dualismo, deve chiedersi come disfare il «tutto diviso». E, se il caso si presenta, non deve chiudere gli occhi davanti alla questione della forza.

Se la natura della lotta è radicalmente non deterministica, tanto più necessaria è la strategia. È l’atto della rivolta che crea la forza, la rottura che crea il possibile, la rivolta che apre il processo di soggettivazione. Non esiste un proletariato «in sé» (ontologia delle forze produttive) che deve diventare «per sé» (la loro attualizzazione), come nella tradizione hegeliano-marxista, che da questo punto di vista è aristotelica.

Non so se il ciclo delle rivoluzioni sia finito, se la “1rivoluzione sia già avvenuta», se sia fallita a causa della guerra e della violenza, se al posto della rivoluzione si possa mettere un pallido e impotente «divenire rivoluzionario». Ciò che mi interessa è trovare una risposta alle domande che i rapporti di potere (e in particolare la guerra) pongono. Le rivoluzioni del XX secolo hanno dato le loro risposte.

La rivoluzione è stata una «semplificazione» capace di ritornare ai fondamenti; ha praticato un ritorno ai principi, per dirla con Machiavelli, cioè ha fatto riemergere la divisione, il dualismo di classe, proprietari e non proprietari, che fonda la società capitalista. Oggi questa semplificazione è regolarmente imposta e organizzata solo dai nostri nemici, sotto forma di guerra civile a bassa intensità o di violenza aperta.

Nella rivoluzione, il rovesciamento dei rapporti degli «uomini in rapporti tra cose» non opera più. Essa ci pone immediatamente di fronte a un nemico che non è più protetto dagli automatismi economici (moneta, mercato, ecc.). L’impersonalità dei rapporti capitalistici ridiventa «personale»: il re è nudo. La rivoluzione interviene quando il potere è in gioco e le classi dominanti sono disposte ad accumulare montagne di cadaveri pur di conservarlo.

La rivoluzione è stata una trasformazione della violenza subita in forza diretta contro il tutto diviso del potere. Si identifica la rivoluzione con la violenza, ma la violenza sociale (sessismo, razzismo, sfruttamento, dominazione) è enormemente più vasta della violenza rivoluzionaria, il cui obiettivo primario è proprio quello di circoscriverla e trasformarla in forza.

La rivoluzione è stata un enorme processo di doppia soggettivazione: soggettivazione delle organizzazioni politiche rivoluzionarie e soggettivazione del proletariato. La strategia è stata pensata a partire dal loro rapporto e dal confronto con il nemico.

Il capitalismo si ripete nella differenza, ma la differenziazione non ne elimina i principi. Al contrario. La macchina Stato-Capitale è cambiata, ma i problemi che abbiamo appena elencato a titolo di esempio, restano. Nuove risposte ai dualismi della guerra, della militarizzazione, del fascismo devono essere rapidamente ricercate, perché la forza di distruzione che la macchina Capitale-Stato dispiega nelle epoche di radicalizzazione dei rapporti di potere tra classi e tra Stati rischia di trasformarsi in autodistruzione (che già colpisce l’Europa in modo irreversibile). Questo pericolo oggi è moltiplicato dal fatto che la sovranità Usa (non solo lo Stato, ma l’insieme dei centri di potere) non ha più la possibilità di accoppiare l’azione distruttiva all’invenzione di un nuovo capitalismo. Ciò che può offrire al resto del mondo è la perpetuazione di un dominio militare-finanziario che non ha altra legittimazione se non la propria riproduzione.

Parallelamente, nel cuore dell’Impero, là dove risiedono le istituzioni monetarie e finanziarie della società dei rentiers, la parola «socialismo» – bandita, maledetta, demonizzata, riaffiora — altro sintomo dell’intensificazione dei conflitti e del loro dualismo.

È per questa ragione che interrogare la divisione di classe, la totalizzazione impossibile, il suo sfrontato, cinico, sadico uso della violenza che raggiunge il suo apice nel genocidio, e cercare di dare risposte commisurate al livello dello scontro, tenendo a mente i grandi successi e i grandi fallimenti delle rivoluzioni, è oggi estremamente urgente!


Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato (2012), Il governo dell’uomo indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024).
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