Dentro il modello tedesco della censura europea: è peggio di quanto pensi
di OttolinaTV
I tedeschi proprio non ce la fanno: il richiamo della foresta è troppo forte; li lasci soli un attimo e il secondo dopo… Anche nel ventunesimo secolo, la Germania conserva quella sensibilità tutta teutonica per l’ordine, la sorveglianza e la cura fin troppo affettuosa dei cittadini; ed eccoci, così, alle porte del 2026 a fare i conti in tutta Europa con un nuovo ecosistema informativo che non sarebbe dispiaciuto ai registi della propaganda del Reich: a novembre, infatti, la Commissione Europea ha presentato uno dei progetti più ambiziosi e, allo stesso tempo, più inquietanti degli ultimi anni. Si chiama European Democracy Shield, lo scudo europeo a difesa della democraziahhh (con almeno 3 acca), una specie di ombrello istituzionale per salvare il continente dall’incontenibile assalto di fake news, troll russi, hacker iraniani
e per conservare illibata l’innocenza dei Veri Cittadini Europei – che, evidentemente, non sono considerati in grado di distinguere una notizia vera da una baggianata letta su Facebook mentre aspettano il bus.
Ursula von der Leyen ha presentato il tutto in modo molto solenne: “La democrazia”, ha affermato, “è la pietra angolare dell’Unione europea e dobbiamo difenderla ogni giorno”; con questa retorica si giustifica la costruzione di un centro operativo europeo in grado di coordinare governi, piattaforme digitali, Polizia Postale, ONG, think tank, influencer europeisti e ogni altra entità che possa essere utile a catalogare, segnalare, filtrare, correggere e neutralizzare qualunque contenuto definito rischioso.
Non falso; non illegale; non violento: rischioso. Una categoria a dir poco malleabile, ideale per infilarci dentro tutto ciò che non gli piace; lo scudo prevede inoltre la creazione di una rete europea di fact-checker certificati, cioè accreditati da chi li finanzia, che dovranno vigilare rigidamente sulla qualità dell’informazione – quando si dice chiedere all’oste se il vino è buono.
E, come se non bastasse, le piattaforme digitali vengono di fatto arruolate; non bastava il Digital Service Act: bisognava proprio trasformarle in un vero e proprio braccio operativo della propaganda, una sorta di polizia algoritmica pronta a intervenire ogniqualvolta Bruxelles identifica una fantomatica narrativa ostile. La cosa straordinaria è che tutta questa architettura viene presentata come un esercizio di trasparenza, di pluralismo, di diversità; un pluralismo molto particolare che, più o meno, coincide con le stesse cinque testate che, da quarant’anni, provano a convincerci che l’Ue è buona, giusta e misericordiosa.
Quella di Bruxelles con i media mainstream è una storia d’amore finanziaria: questi giornali perdono copie, lettori, soldi, dignità? Nessun problema: arriva l’Unione europea e li rimette in piedi a suon di milioni; così, per spirito umanitario. Tu pubblichi editoriali entusiasti sulle iniziative dell’Unione? Ed ecco che noi, come per magia, ti inseriamo in un circuito di finanziamenti che smuove letteralmente miliardi; così una mano lava l’altra e tutte e due applaudono Bruxelles. È il capitalismo dell’informazione assistita: se sul mercato non ti comprano più nemmeno i parenti stretti, keep calm; a comprarti ci pensa l’Ue. E mentre il pubblico scappa a gambe levate verso contenuti indipendenti (anche amatoriali), va bene tutto,
basta che non siano riconducibili a quelle vere e proprie fabbriche del falso che Bruxelles continua a rianimare come se fossero monumenti patrimonio UNESCO; un respiratore automatico che trasforma giornali morenti in altoparlanti stabili delle posizioni ufficiali: un vero e proprio sistema di soppressione della libera informazione.
Ma, per capirlo fino in fondo, dobbiamo fare un piccolo passo indietro. La Germania mantiene da sempre un rapporto complicato con la libertà di stampa e con il tema della censura: sulla carta risulta sempre ai primi posti nelle classifiche internazionali ; nella pratica, però, ha costruito un apparato onnicomprensivo di controllo digitale totale, un meccanismo rilevato da un recente studio di Liber-net che evidenzia l’esistenza di un inquietante “complesso industriale della censura” formato da centinaia di enti statali, ONG e aziende private sostenute da milioni e milioni di euro dei contribuenti . “La capitale tedesca è il centro europeo per la censura digitale, e la Repubblica Federale è il giocatore più impegnato all’interno dell’Ue nel vasto campo della guida dell’opinione mediatica” ha dichiarato il CEO di Liber-Net Andrew Lowenthal al Berliner Zeitung: nel network compaiono oltre 330 soggetti, una rete che cattura la quasi totalità dell’ecosistema informativo; sempre Lowenthal fa sapere che anche aziende di comunicazione private come O2, Vodafone e Telekom fanno parte di questo network – in soldoni, permettono di influenzare i loro clienti in modo mirato. La retorica contro odio online e disinformazione è diventata il passe-partout per reprimere opinioni sgradite ai vertici politici, e tutto questo costa: i fondi federali destinati alla lotta alla disinformazione sono cresciuti dai circa 5 milioni del 2020 agli oltre 27 del 2024 (un bel +450%) e, dentro questo sistema, a svolgere un ruolo da protagonista sono ovviamente le ONG. Spesso il loro nome suggerisce indipendenza, ma, in realtà, grazie ai finanziamenti pubblici operano come un vero e proprio braccio armato dello Stato.
La Fondazione Amadeu Antonio è l’esempio più noto: nata dall’attività dell’ultra-sionista ex informatrice della Stasi Anetta Kahane, non solo riceve diverse centinaia di migliaia di euro direttamente dal governo federale, ma anche dalle Big Tech come Meta. Insomma: Kahane avrà anche smesso con la Stasi, ma il vizio di schedare la gente non sembra esserle passato – anche se, invece che in nome del socialismo, adesso lo fa in nome delle oligarchie dell’impero. Dentro questo ecosistema spuntano i cosiddetti segnalatori attendibili, certificati dallo Stato per segnalare contenuti illegali, dei moderni kapo: individui ed entità con un potere notevole che usano in modo assolutamente arbitrario; tutto questo sistema è profondamente radicato nella società teutonica, dove ormai le ONG sono, di fatto, intermediari dello Stato. Tra i segnalatori attendibili spuntano REspect! e HateAid, entrambi al centro di numerose polemiche: la CEO di HateAid, Josephine Ballon, difende i “confini alla libertà di espressione” dichiarando che senza limiti “le persone avranno paura di partecipare alle discussioni politiche”. Certo! E, invece, temere di vedersi piombare le forze dell’ordine a casa per una parola fuori posto, il dibattito, notoriamente, lo stimola…
C’è anche una teoria precisa che lo spiega; la spirale del silenzio, si chiama, e a elaborarla è stata proprio una sociologa tedesca: Elisabeth Noelle-Neumann. Ha osservato che i tedeschi, se temono comporti una qualsiasi forma di isolamento sociale, tendono a nascondere le proprie opinioni
e che questo, ovviamente, accade quando percepiscono che la loro visione è contraria a quella dominante, dettata dai media; le opinioni minoritarie, così, si riducono al silenzio e rafforzano la percezione di una maggioranza che, a sua volta, incoraggia altro silenzio, in una spirale perversa – la spirale del silenzio, appunto. E non si tratta solo di percezioni: la politologa Ulrike Guérot è stata allontanata dall’Università di Bonn per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina. Ma può succedere a qualunque cittadino: alle 6 del mattino bussano; se non apri, ti sfondano la porta, entrano, controllano ogni stanza, portano via smartphone, computer, hard disk e poi ti arrestano. Tutto per un post, per un meme, per una frase sbagliata nella categoria infinita dell’incitamento all’odio.
I procedimenti sono quadruplicati: 2.411 nel 2021; 10.732 lo scorso anno. E non sappiamo nemmeno dove accada davvero: molti Länder non pubblicano dati; silenzio, statistiche dimezzate, nessuna trasparenza. L’unica eccezione è la Bassa Sassonia; lì qualcosa filtra: scopriamo che solo quella regione gestisce 3.500 casi l’anno. E’ li che lavorano tre protagonisti della macchina; il primo, il procuratore Matthäus Fink, spiega così uno dei tanti arresti: “Non pensano che sia illegale. Dicono Questa è la mia libertà di parola.
E noi rispondiamo Sì, avete la libertà di parola, ma ha anche i suoi limiti“: i sani, vecchi limiti alla libertà di parola… Lo senti l’odore delle pire di libri nell’aria? Ma accanto a lui c’è Svenja Meininghaus; lei ci ricorda che se vuoi essere arrestato non devi per forza scrivere personalmente un brutto commento: puoi anche ri-condividere quello di un altro. “Il lettore non può distinguere se l’hai appena inventato o se l’hai ripubblicato. Per noi è lo stesso“: un like, una condivisione, una frase girata e il reato è completo. A coordinare tutto è Frank-Michael Laue: supervisiona migliaia di procedimenti come questi. Laue si schiera a favore del sequestro dei mezzi di comunicazione: “E’ una specie di punizione se perdi lo smartphone.
E’ persino peggio della multa“; punizione – non la chiama misura cautelare. Intanto la società cambia: il 43% dei tedeschi dice di non sentirsi più libero di parlare; nel 1990 era il 16%. E’ la dimostrazione che censura tedesca sia più silenziosa, ma non troppo diversa da quella dei Paesi autoritari da cui l’Ue dice di voler prendere le distanze. A volte, però, la maschera cade, come nel caso di Sahra Wagenknecht, zittita in diretta da Welt TV: stava sostenendo semplicemente che l’Ucraina avrebbe dovuto accettare le condizioni proposte da Mosca a Istanbul nel 2022; il collegamento è stato chiuso all’istante e in studio si sono affrettati a definire le sue parole errate.
Le radici culturali di questo approccio sono molto profonde (e sono anche abbastanza marce), come quelle dell’Agenzia Federale Tedesca per l’Istruzione Politica: nata dalle ceneri del Ministero dell’Informazione Pubblica e della Propaganda, è stata fondata da quel simpatico guascone di Joseph Goebbels e continua a fare il suo sporco mestiere; già nel 2013, gestiva un budget di quasi 38 milioni di euro l’anno, ma, a partire dal 2016, il budget è cresciuto di 5,8 milioni l’anno e, nel 2022, è arrivato a sfiorare i 100 milioni. Le autorità giustificano tutto con il bisogno impellente di educazione politica del popolo tedesco (paparino Goebbels sarebbe fiero di loro…), perché l’agenzia per l’istruzione politica in Germania non ti educa soltanto: ti accompagna passo passo fino alla soglia dell’urna. Si chiama Wahl-O-Mat: è gestito direttamente dall’agenzia stessa ed è una specie di test di compatibilità politica; 30-40 affermazioni su tasse, migranti, clima, Welfare, esteri. I partiti devono rispondere ufficialmente con sì/no/neutrale, e pure i semplici cittadini; poi l’algoritmo confronta tutto e, alla fine, sforna una classifica dei partiti più vicini al tuo profilo: un consiglio di voto fatto sulla tua schedatura politica da un ente statale che ha come compito preciso quello di reprimere il dissenso su dossier sensibili. I numeri spiegano perché questo meccanismo conta più di tante campagne tradizionali: alle elezioni federali del 2021, il Wahl-O-Mat è stato usato quasi 20 milioni di volte.
Ma alla Germania non basta ripristinare i metodi della Gestapo in casa loro: i tedeschi ragionano sempre in grande, e il desiderio di dominare l’intero contenente non è mai venuto meno; e il Digital Services Act cade a fagiuolo. Entrato in vigore il 25 agosto 2023 per le piattaforme più grandi, nel tempo il Digital Services Act è stato esteso a tutto il resto di internet: promette di proteggere gli utenti, ma il risultato reale è una sorta di museruola. In pratica, le piattaforme devono rimuovere tutti i contenuti considerati pericolosi o dannosi – che, ovviamente, non significa niente e, alla bisogna, ci puoi fai rientrare tutto quello che ti passa per la testa: dagli avvistamenti di alieni postati da qualche sciroccato a una battuta qualsiasi che non rispecchia il galateo del politically correct. Instagram, Facebook e soci non aspettavano altro
e hanno già inserito una lunga serie di filtri automatici che eliminano qualsiasi cosa sembri sospetta: satira? Via! Sarcasmo? Vade retro! Black humour? Non ne parliamo! E, poi, ecco che arriva l’ultima chicca: si chiama European Democracy Shield, scudo democratico europeo, il maxi-piano per tenere l’influenza dei barbari lontana dal giardino ordinato; prevede la creazione di un centro europeo contro le fake news,
tipo la fake news che la Russia non sarebbe crollata nel giro di pochi mesi sotto il peso dei 19 pacchetti di sanzioni europee, o quella che vuole convincere gli ignari cittadini europei che i loro rappresentanti a Bruxelles non fanno i loro interessi, ma quelli di Washington e delle oligarchie finanziarie. Le chiamano minacce narrative: “La democrazia liberale è sotto attacco” ha affermato Kaja Kallas: “Assistiamo a campagne – anche da parte della Russia – specificamente concepite per polarizzare i nostri cittadini, minare la fiducia nelle nostre istituzioni e contaminare la politica nei nostri Paesi”; d’altronde, come altro si potrebbe giustificare la mancanza di fiducia nei confronti di istituzioni così efficienti nella difesa dei diritti di tutti i cittadini? E’ incomprensibile! Ci deve essere per forza lo zampino del Sanguinario dittatore del Cremlino, altrimenti non si spiega!
Il nuovo centro è l’ultimo tassello di apparato repressivo sempre più grande e sofisticato: reti di fact checkers, programmi che indirizzano l’agenda dei principali media europei, per non parlare di quell’European Media Freedom Act, entrato in vigore lo scorso 8 agosto, che però, nonostante il nome, più che tutelare la libertà dei media tutela il diritto dei più ricchi di avere leggi tutte per loro; secondo il provvedimento, infatti, le testate mainstream avrebbero una corsia privilegiata per aggirare la ghigliottina dei filtri automatici. E così, mentre ci assicurano che tutto serve a proteggerci dal temibile Gino il verduraio, analfabeta funzionale di Sabbiate sul Membro, che si infuria su Facebook per un post del Comune di Bugliano, tassello dopo tassello l’Europa costruisce una rete di funzionari pronti a dirci cosa possiamo pensare e cosa no; ma per rendere tutto questo minimamente credibile, bisogna dare una ripulita a un alleato ormai un po’ troppo screditato: la stampa mainstream, che non si caca più sostanzialmente nessuno e viene spesso considerata garanzia di inaffidabilità. Per salvarla, bisogna mettere mano al portafoglio: ed ecco, così, che nell’ultimo decennio Bruxelles ha distribuito circa un miliardo di euro alle grandi testate europee, una media di 100 milioni l’anno. Bandi, progetti editoriali, programmi sulla qualità dell’informazione e altre partnership; i soldi vanno sempre agli stessi: gli editori tradizionali, le tv in difficoltà, le piattaforme perfettamente allineate alla narrativa ufficiale – una flebo continua. L’informazione tradizionale sopravvive ormai più grazie a Bruxelles che per i masochisti che ancora pagano per farsi del male, e qui sta il nodo politico: se il tuo obbiettivo è quello di costruire un mega-apparato di propaganda, serve un sistema mediatico affidabile, docile e, soprattutto, dipendente.
Alimentare economicamente giornali in perdita li trasforma in un megafono a tua disposizione,
che non può fare altro che ripetere la linea ufficiale senza fare domande: è un investimento, un modo per mantenere il controllo totale sulla narrazione. A fare il pieno, ovviamente, sono anche tutti i principali gruppi italiani, da Gedi a Caltagirone; ma soprattutto l’Ansa, che è un po’ la cima della catena alimentare dell’informazione ed è, di gran lunga, l’investimento migliore.
Ma la gentilezza della von der Leyen non si limita ai paesi dell’Unione; ci si sente così generosi da finanziare anche l’informazione altrui: solo quest’anno, si sono investiti 6,6 milioni di euro solo per i media ucraini. Ufficialmente, per sostenere il pluralismo in guerra; in realtà, ovviamente, per amplificare la narrativa che ci è più congeniale. Insomma: non paghiamo solo per farci raccontare balle a casa nostra, ma anche per farle raccontare agli altri: uno dei tanti modi che abbiamo per esportare la nostra democrazia (coi nostri soldi…). Ma se siete stufi di tutto questo, della propaganda con il cartellino blu dell’Ue, dei giornali tenuti in piedi a forza di bandi e, soprattutto, di vedere i vostri soldi trasformati in becera propaganda, allora c’è una scelta semplice: spostare il peso, finanziare chi parla fuori dal coro, chi non ha padroni, come Ottolina Tv. Aiutaci a farla diventare un vero e proprio media per il 99%: metti mi piace a questo video, condividilo, ma (soprattutto) aderisci alla campagna di sottoscrizione di Ottolina Tv su GoFundMe e su PayPal.








































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