
Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Ventunesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE XI
n. «andare alle masse» e democrazia operaia
Questi militanti e quadri capivano, soprattutto, che dalla loro azione sindacale, che comprendeva sia la lotta, sia l’educazione in quella “scuola di comunismo” vera e propria, dipendeva il successo dell’intera rivoluzione fra le masse, fra i non iscritti, fra i non simpatizzanti, fra i dubbiosi, fra i renitenti, fra i disfattisti, fra tutto quel campionario di umanità che ogni giorno timbrava entrata e uscita al lavoro. Una responsabilità enorme, operativamente ben più complessa di chi dava la linea. E questo lo stesso Lenin lo aveva ben chiaro, eccome se lo aveva! Non mancava di rimarcarlo, soprattutto ai suoi, che magari di quel mondo avevano scarsa, o poca conoscenza. Tomskij aveva fatto sicuramente tesoro di tutto questo. Questa relazione, e man mano che aggiungiamo tessere al mosaico ce ne accorgiamo sempre di più, attinge a piene mani, è intrisa della lezione leninista, e non come semplice, meccanica ripetizione di slogan, bensì come traduzione ed elaborazione di una linea ben più profonda. Ecco perché continua a ribadire certi concetti, che riprende subito dopo questa doverosa, necessaria, interruzione:
Le decisioni sono giuste o sbagliate, buone o cattive. Ma non si può sempre lasciarne la responsabilità al partito. Ecco perché è necessario redistribuirla, attraverso una democrazia operaia (рабочая демократия) ben più ampia rispetto a quanto finora successo. E se oggi, in verità meno di ieri, si sentono voci perplesse che obiettano – “Ma non è terribile gettarsi nel mare delle libere elezioni senza liste predefinite?” – basti pensare a quanto recentemente accaduto nelle elezioni dei comitati di fabbrica di Mosca: lì il successo elettorale, pur in assenza di liste predefinite, è stato schiacciante. Possiamo anche guardare ad altri centinaia di esempi, dove proprio i non iscritti hanno modificato sì le liste comuniste, ma per aumentare i candidati comunisti da votare! E che dire dei casi dove, chiesta e ottenuta l’abolizione delle liste e proceduto alla presentazione individuale dei candidati, i lavoratori hanno eletto gli stessi candidati comunisti presenti nelle liste? In una situazione dove ciascun lavoratore sapeva perfettamente chi stava scegliendo in quel momento?
Tentativi di glissare su questa giusta politica ce ne sono stati e ce ne saranno. Contro di essi occorre lottare. Giacché, lo ripeto ancora, penso che più il sindacato sarà autorevole, e più aumenterà la fiducia dei lavoratori verso di esso, maggiore sarà anche l’influenza del partito – tramite la frazione comunista – sull’intera massa dei non iscritti. Pertanto, evitiamo ogni interferenza, ogni eccesso di zelo, ogni atteggiamento da primadonna da parte del Partito.
Oggi qui, davanti al Congresso, non staremo per nulla a nascondere che non tutti i nostri sindacalisti, non sempre, non dappertutto, si son messi a braccia aperte e col cuore in mano a praticare questa democrazia operaia. Penso però che siano ancora nella memoria di tutti quei tempi quando, in stato di necessità – lo ripeto! In stato di necessità – l’intero lavoro sindacale si faceva o al telefono, o tramite circolari, o ordinanze. La maggior parte dei sindacalisti durante il comunismo di guerra era al fronte, e lì non c’era tanta democrazia; in guerra non ci sono alternative agli ordini calati dall’alto. Oggi però questo non va bene.
Se noi parliamo di far rivivere i soviet, se noi parliamo di far rivivere la cooperazione, a maggior ragione è importante, a maggior ragione è indispensabile far rivivere le organizzazioni operaie più importanti: i sindacati. Ed è qui che deve essere realizzata nella maniera più completa possibile la democrazia operaia. Naturalmente, a molti non piace «andare alle masse» (пойти к массам), dimostrare la bontà, la necessità di un ordine: si fa molto prima a scrivere una circolare… e chiuso il discorso. Così come a molti non piace dare spiegazioni alle masse, perché poi potrebbero andare incontro a domande spiacevoli, e allora occorre riprendere la parola, spiegare, eccetera. Occorre anche smetterla di mettere all’indice, il che spesso accade, e l’ho anche denunciato nel corso dello scorso congresso del sindacato, chiunque nel sindacato abbia da protestare, anche vivacemente, o criticare, chiamandolo testa calda, o urlatore, o esagitato. Certo, è più facile lavorare dietro a una scrivania, non è poi così tranquillo cercare di convincere decine, centinaia, migliaia di persone che ti gridano dietro. Eppure dobbiamo qui mettere in pratica fino in fondo ciò che abbiamo tracciato come linea generale.1
Che dire della coerenza, oltre che della franchezza, di questo compagno e dirigente sindacale, del suo continuo appello a non campare su rendite di posizione, di mettersi quotidianamente in gioco, e non solo come unico approccio accettabile per quanto concerne il lavoro sindacale, ma anche come unico modo di far “rivivere” (оживить) il sindacato. E per farlo rivivere, occorre muoversi ANCHE su due binari attualmente poco praticati, poco lucidi, per tornare ai binari veri dove passa un treno ogni tanto: “democrazia operaia” (рабочая демократия) e “andare alle masse” (пойти к массам).
Sulla “democrazia operaia” il discorso è abbastanza chiaro. È la terminologia con cui, fondamentalmente, si definisce il movimento opposto al dirigismo centralistico. È la seconda parte dell’espressione “centralismo democratico”. Un movimento che, nel comunismo di guerra, era dovuto andare a senso unico, e neppure troppo alternato, anzi. Occorre quindi riequilibrare il discorso. Ovunque, non solo nel Paese dei Soviet, dove già Lenin faceva una testa ai suoi su questo ancora in tempo di guerra. Ecco allora che in tale contesto è possibile collocare pienamente la nozione di democrazia operaia e affermare, con le parole coeve di un certo Gramsci, che:
La dittatura del proletariato è espansiva, non repressiva. Un continuo movimento si verifica dal basso in alto, un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini. 2
Così scriveva, nell’articolo “Capo” a poco più di un mese dalla scomparsa di Vladimir Il’ič Lenin. A prescindere dal tono e dalla trattazione dell’articolo, queste poche righe sono estremamente preziose, ancora oggi. Ed è estremamente indicativo che a pronunciarle sia un comunista non russo, proprio in quanto segno di un comune sentire internazionale, non mera ripetizione di slogan “imparati” al Comintern, riguardo problematiche estremamente concrete.
Anche “andare alle masse”, slogan risalente al III Congresso del Comintern (1921), fu declinato dai nostri comunisti con ragionamenti analoghi a quelli sviluppati dai sovietici, anche in questo caso giungendo alle stesse conclusioni attraverso un’esperienza pratica, concreta, di lotta politica e sindacale. L’idea sviluppata nel III Congresso era stata, sostanzialmente, quella di “avvicinarsi maggiormente alle masse” (ближе к массам) sviluppando un “fronte unico” di tutti i lavoratori, iscritti, militanti, simpatizzanti e non, in grado di rilanciare a livello mondiale il processo rivoluzionario ovvero, per usare le parole di Radek: “Il compito principale che ci si pone davanti consiste nel conquistare ampie masse di proletariato all’idea comunista”3. Qualche anno più tardi, questa esperienza fu oggetto di revisione, non perché sbagliata in sé, ma perché foriera di comportamenti quantomeno “equivoci” che contribuirono alla disfatta del movimento rivoluzionario fuori dal Paese dei Soviet. Senza addentrarci nello specifico italiano, nella strategia di fronte unico a livello sindacale, ma non politico, scelta allora dal Pcd’I, notiamo come già nel 1922 Luigi Longo sottolineasse come “andare alle masse” non dovesse essere l’occasione per una grande ammucchiata e successivo annacquamento della teoria e pratica rivoluzionaria ma, al contrario, dovesse costituire il momento necessario ad “avviare le masse operaie agli sviluppi rivoluzionari del movimento”4. Anni più tardi, era ancora Gramsci a riflettere sul significato di quella linea d’azione, sostenendo come “andare alle masse” non mettesse minimamente in discussione l’impostazione generale leninistica di partito come avanguardia del proletariato:
Il Partito comunista "rappresenta" gli interessi dell'intera massa lavoratrice, ma "attua" la volontà solo di una determinata parte delle masse, della parte più avanzata, di quella parte (proletariato) che vuole rovesciare il regime esistente con mezzi rivoluzionari per fondare il comunismo5.
Pertanto, “il partito proletario non può "accodarsi" alle masse, deve precedere le masse”, perché “rappresenta non solo le masse lavoratrici, ma anche una dottrina del socialismo, e perciò lotta per unificare la volontà delle masse nel senso del socialismo, pur tenendosi sul terreno reale di ciò che esiste, ma che esiste muovendosi e sviluppandosi.”6 Pertanto, qualche giorno più tardi avrebbe osservato, in un altro articolo, che “andare alle masse” andava inteso “in senso comunista”, ovvero che
bisogna andare alle masse non per abbassare a queste la coscienza e la volontà dell'avanguardia rivoluzionaria, ma per educare esse stesse nella volontà e nello spirito del proletariato rivoluzionario7.
Se questo accadeva in un partito, quello Comunista d’Italia, profondamente indebolito da sconfitte e attraversato da lotte interne, possiamo immaginare come tale linea fosse seguita molto più rigorosamente in un partito vincente quale quello bolscevico. Infatti, Tomskij non solo non fa sconti ai suoi, ma continua affermando chiaramente che chi non ce la fa a praticare questi due punti non è adatto al ruolo di dirigente sindacale:
Chi non riesce ad adattarsi realmente a questa situazione, lo dobbiamo sostituire alle prossime elezioni con quei compagni che, per usare le parole di V. I. Lenin, conoscano a menadito le masse lavoratrici, sappiano – esattamente e senza idealizzarle – capire il loro stato d’animo attuale e godano presso di loro della necessaria autorevolezza, guadagnandosi la fiducia sia degli iscritti, che dell’ampia massa di non iscritti.
Occorre tenere a mente che, mettendoci la faccia di fronte ai lavoratori non iscritti e guadagnandosi la loro fiducia, il delegato sindacale conferma anche la loro fiducia nei confronti del partito. Se, infatti, il partito lo ha proposto in quella o in un’altra posizione, e le masse operaie, per fiducia nei confronti del partito, lo hanno votato, se lui alla fine non riesce a guadagnarsi la fiducia di queste masse di non iscritti, lui compromette anche la fiducia che loro ripongono nei confronti del partito. In questo non c’è alcuna contraddizione con la necessità di esercitare conseguentemente quel centralismo democratico su cui sono fondati i nostri sindacati.
Ci tocca tornare su argomenti già ripetuti, e non una volta. Tutte le direttive e le disposizioni dei Congressi nazionali e del VCSPS, in quanto organismo con mansioni direttive da Congresso a Congresso, oltre che operante sotto la diretta, e vigile, supervisione del CC del Partito, devono essere messe in pratica. Certo, se una certa disposizione della direzione del sindacato è considerata scorretta, o ingiusta, essa deve essere impugnata. Per esempio, quando ti dicono “ho fatto una certa cosa…” o “i soldi non li ho usati per le necessità del sindacato, ma non è colpa mia, ho dovuto seguire la direttiva del comitato locale…”, allora non c’è direzione che tenga! In quest’ultimo caso, non possiamo neppure sapere, noi degli organismi centrali, se veramente il comitato locale si è messo di mezzo o è stato soltanto un suo voler nascondersi dietro a una scusa. Anche per questo, centralismo democratico significa stabilire una gerarchia decisionale, dove a essere prevalenti sono le direttive degli organismi centrali. 8
o. la situazione internazionale, con un occhio all’oggi
L’intervento di Tomskij si avvia alla conclusione, toccando un ultimo punto. Vi ricordate quando, qualche pagina fa, auspicavo un’Internazionale sindacale in grado non solo di risolvere conflitti in seno alla classe ma riconducibili a diverse locazioni geografiche, ma anche coordinare – anche dal punto di vista sindacale – le tappe di un percorso di rivoluzione mondiale in senso socialistico? Manco a farlo apposta… pare proprio che fra gli ultimi punti del suo intervento ve ne siano di molto simili. Ecco, quindi, che le ultime pagine di questa prima parte di lavoro sui sindacati sovietici guardano all’oggi, parlano all’oggi.
Il problema è, a ben vedere, enorme. Oggi più di ieri. Ieri c’era un Paese, il Paese dei soviet, che realmente stava conducendo una transizione al socialismo, pur tra mille contraddizioni. Un Paese “terzo”, alla periferia delle grandi rotte commerciali, che attraversavano oceani e canali: il che era uno svantaggio ma, dal punto di vista tattico strategico per l’elaborazione di una teoria e di una pratica economica antagoniste (non solo alternative!) al modo di produzione dominante, costituiva un enorme vantaggio; non dover rompere bicchieri ogni volta che ci si muoveva, non avere continuamente il nemico alle porte una volta vinta la guerra e assicurati i confini, limitarsi a curare quello che ci si era dovuti portare in casa con la NEP, e nel frattempo andare avanti, proseguire, preparare il terreno con l’emulazione socialista, seminare e veder pian piano crescere i frutti di milioni e milioni di giovani militanti e quadri preparati al passaggio finale (la cosiddetta “leva leninista”).
Un Paese in grado di indicare la strada sia alla classe operaia dei Paesi più sviluppati, sia alle masse ben più barbaramente sfruttate delle colonie e semicolonie: altro vantaggio tutt’altro che trascurabile, riuscendo quindi a costituire non solo un valido trait d’union del proletariato mondiale, ma anche un punto di riferimento continuo e costante, in ogni momento. Perché?
Perché pose la Rivoluzione in un’ottica internazionale, una nuova Internazionale, la III, oltre che nazionale, al punto di mettere infrastrutture, risorse e tutte le poche competenze maturate al servizio di questo grandioso progetto, al servizio di un Partito Comunista Internazionale di cui i partiti nazionali aderenti costituivano sezione.
Dopo il secondo conflitto mondiale, per la precisione il 3 ottobre 1945, nasce a Parigi la Federazione Sindacale Mondiale (WFTU World Federation of Trade Unions è l’acronimo anglofono), ma la guerra fredda dopo solo quattro anni crea divisione anche in questo campo e logicamente, col formarsi dei cosiddetti “sindacati liberi”, anche il federarsi di questi ultimi crea un’organizzazione parallela, l’ICFTU, polarizzando così lo scontro ma, al contempo, ingabbiandone l’azione entro confini difficilmente valicabili. Pertanto, oggi la WFTU esiste ma estremamente indebolita nella propria azione, rispetto anche solo a mezzo secolo fa. Nel 1969, con 25 milioni di lavoratori cinesi che e indonesiani la avevano lasciata per vedere i loro capi finire di lì a qualche anno a giocare a ping pong (o a giochi ben peggiori…) con Nixon, contava 153 milioni e mezzo di iscritti di 97 Paesi, con dentro per l’Italia la CGIL e il globo abitato da 3 miliardi e mezzo di persone9; nel 2022 contava 105 milioni iscritti di 133 Paesi10, con dentro la stessa confederazione sindacale cinese (中华全国总工会) che se ne era andata via negli anni Sessanta (anche perché non ce ne sono altre...), e con cui organizza visite guidate al paese natale di Mao11 guardandosi bene dal toccare i fili dell’alta tensione (o la cinghia di trasmissione in movimento...), con dentro per l’Italia la USB in un globo allora abitato da 8 miliardi di persone.
In realtà, oggi, le cose non potrebbero andare molto diversamente. Oggi nessuno sta conducendo una reale transizione al socialismo, aldilà dei proclami. Oggi i Paesi se-dicenti socialisti non sono “terzi”, ma a monte del modo capitalistico di produzione e riproduzione, in tutte le sue sfere, dal capitale reale a quello fittizio, dalla miniera di metalli rari nella Repubblica democratica del Congo dove si estrae a mani nude il prezioso ingrediente dell’Industria 4.0 ai bitcoin di Stato elaborati da chi pensa di risolvere i propri problemi dando un vestito nuovo a vecchi trucchi contabili e ataviche speculazioni. Il cartello non ufficiale delle multinazionali, fino a qualche decennio fa solo occidentali, ha visto progressivamente crescere la quota delle multinazionali asiatiche, in una vera e propria scalata per il controllo globale di risorse e merci. Ma più lupi che sbranano un cervo non implicano che vi debba, per forza, essere un lupo buono e un lupo cattivo. Tutt’al più, vi potrà essere una simpatia, una temporanea sintonia, con un blocco capitalistico; magari, quello emergente; magari, quello che infila i bastoni tra le ruote e scalza quello fino ad allora detentore dell’egemonia a livello globale; magari, quello che così facendo porta a un tale rimescolamento di carte per cui, anche gli oppressi dal primo imperialismo, tirano finalmente, per un attimo, il fiato, sentendosi nuovamente, forse per la prima volta, della partita; vedendo, all’interno della loro società civile, la possibilità che emerga una vera e propria borghesia nazionale, non più semplicemente “compradora”, lacché dei padroni stranieri, spettatrice e fautrice della loro appropriazione ed esportazione, verso altri lidi, di plusvalore e ricchezza nazionale, ma protagonista del processo di appropriazione, le cui ricadute sul territorio creerebbero un effetto volano detto a volte, enfaticamente, “boom economico”. A chi è stato depredato fino a oggi, peraltro, basterebbe una semplice crescita: tutto il resto, in questa fase, sarebbe il classico “grasso che cola”.
Fermiamoci qui. Oggi nessuno indica la strada a nessuno per altri tipi di crescita economica e sociale, men che meno socialistica, men che meno “Internazionale”, per il semplice motivo che tutti sono concorrenti in un sistema di competizione globale che riconduce a un unico modo di produzione, altrettanto globalizzante e globalizzato. Altro non potrebbe essere. Che interesse, infatti, avrebbe l’unico Paese se-dicente socialista in condizione, nel promuovere la costruzione di un Partito Comunista Internazionale? Un Paese la cui dimensione internazionale è subordinata all’espansione e all’esportazione di capitale della propria borghesia nazionale?
Ecco quindi che, pur azzardando analogie a quelle di un secolo fa, per certi versi e tirandole molto per i capelli, oggi ci troviamo in un contesto decisamente peggiore. Forse, proprio per questo motivo, per una maggiore comprensione della situazione attuale, ci può venire in aiuto la nozione di “aristocrazia operaia”, che trova oggi un campo di esistenza decisamente più ampio rispetto al passato. Partiamo dalla definizione “classica”, data dalla Bol’šaja Sovetskaja Enciklopedija (BSE):
strato sociale di operai, vendutisi alla borghesia in cambio di un superprofitto generato dall’esportazione di capitale nelle colonie e semicolonie, oltre che (specialmente dopo la fine del sistema coloniale) di un superprofitto generato da una nuova ripartizione di parte del reddito nazionale oltre che dello sfruttamento dei Paesi di recente indipendenza; infine, con la rivoluzione scientifico-tecnologica in atto dalla seconda metà del XX secolo, un’altra fonte importante di risorse con cui comprare l’aristocrazia operaia è stato quel plusvalore aggiuntivo dato dall’introduzione nella produzione di tecniche avanzate a parità di prezzi di monopolio.12
Si tratta di una definizione che già comprende l’impianto tradizionale accennato da Engels, per esempio in una lettera a Marx del 7 ottobre 1858, laddove scrive che
il proletariato inglese nei fatti si sta imborghesendo sempre più in quanto questa, che è la più borghese di tutte le nazioni alla fin fine vuole – o almeno così sembra – portare le cose al punto da avere un'aristocrazia borghese e un proletariato borghese accanto alla borghesia. D’altronde questo, nella nazione che sfrutta il mondo intero, in un certo qual modo è anche comprensibile13
e in una missiva a Kautskij del 12 settembre 1882, entrambi poi citati anche da Lenin:14
Mi chiedi cosa ne pensino i lavoratori inglesi della politica coloniale. Beh, esattamente lo stesso che pensano della politica in generale: quello che pensano i borghesi. Dopo tutto, qui non c’è nessun partito operaio, ci sono solo conservatori e liberal-radicali, e gli operai si godono tranquillamente insieme a loro i frutti del monopolio inglese sul mercato mondiale e sulle colonie.
Comprende anche il portato gramsciano, la sua riflessione sull’aristocrazia operaia in un Paese, l’Italia, che aveva un percorso molto diverso dalla potenza coloniale britannica. In queste brevi righe, tratte dal suo unico intervento alla Camera nel maggio del 1925, sintetizzano molto bene il ruolo giocato dal giolittismo nel creare e valorizzare tale strato sociale in chiave antirivoluzionaria:
Conosciamo nella storia italiana degli ultimi tempi due piani politici della borghesia per risolvere la questione del governo del popolo italiano. Abbiamo avuto la pratica giolittiana, il collaborazionismo del socialismo italiano con il giolittismo, cioè il tentativo di stabilire una alleanza della borghesia industriale con una certa aristocrazia operaia settentrionale per opprimere, per soggiogare a questa formazione borghese-industriale la massa dei contadini italiani, specialmente nel Mezzogiorno. Il programma non ha avuto successo. Nell'Italia settentrionale si costituisce, difatti, una coalizione borghese-proletaria attraverso la collaborazione parlamentare e la politica dei lavori pubblici alle cooperative; nell'Italia meridionale si corrompe il ceto dirigente e si domina la massa coi mazzieri... Voi fascisti siete stati i maggiori artefici del fallimento di questo piano politico, poiché avete livellato nella stessa miseria l'aristocrazia operaia e i contadini poveri di tutta Italia.15
L’analisi gramsciana è fondamentale, perché riguarda un Paese che, nonostante il suo imperialismo straccione, non può essere assolutamente assimilato allo stesso processo di formazione del capitale, nonché produzione e riproduzione dello stesso, che avveniva nelle potenze coloniali e imperialistiche a lui coeve.
In Libia non hanno ancora scoperto il petrolio, e l’Italia esporta non capitali ma manodopera contadina in eccesso. Gramsci quindi ragiona su un altro binario. L’aristocrazia operaia c’è, ma da dove salta fuori? Da processi del tutto endogeni, ovviamente, atti a neutralizzare ogni tentativo rivoluzionario e a dividere il movimento operaio al suo interno. Se non è zuppa, se non arriva dal plusprofitto generato dall’inserimento delle colonie nel processo produttivo e riproduttivo di capitale, è pan bagnato.
In questo caso, biennio rosso e Rivoluzione d’Ottobre furono argomenti più che convincenti per far mollare al padrone qualche palanco in più per foraggiare la divisione nel campo nemico. Lo stesso accadde nel secondo dopoguerra, anche se il volano di tale processo fu il Piano Marshall, ovvero risorse esogene. Poi però si andò avanti con un colpo al cerchio (concessioni all’aristocrazia operaia) e alla botte (strategia della tensione e stragismo di stato, giusto per far capire chi comanda comunque e a prescindere).
Quello di formazione di un’aristocrazia operaia, inoltre, diviene un processo che coinvolge l’intero mondo del lavoro salariato, non esclusivamente legato alla catena di montaggio. “E del resto mia cara, di che si stupisce, anche l’operaio vuole figlio dottore”... come nella pubblicità del decennale del giornale anticomunista per eccellenza, quella Repubblica fautrice di una “sinistra” sempre meno radical e sempre più chic, il giovane squattrinato partiva in bicicletta a chiedere il primo numero del 1975 e lo si trovava dieci anni dopo, ormai giacca e cravatta, perfetto yuppi-milano-da-bere. L’ansia di rivoluzione aveva lasciato il passo all’ossessione per la mobilità sociale, l’aristocrazia operaia era diventato l’anello di congiunzione fra la tuta blu e il colletto bianco, le chitarre distorte e gli amplificatori valvolari avevano lasciato il passo alle tastiere elettroniche e ai sax, Sesto San Giovanni a Ibiza. Senza essere imperialisti e continuando a “ripudiare la guerra”, salvo quando era “umanitaria”.
Passiamo ora a Cina, India, e tigri asiatiche in generale. Nessun imperialismo, in partenza almeno. Ma una fattura in dollari. Semplifichiamo il meccanismo. Il padrone occidentale delocalizzava perché “spendeva la metà”. Io, padrone locale, gli offrivo sì come mio costo di produzione la metà, in dollari, ma il vero valore merce (costi di produzione reali più percentuale di plusvalore per tenere in vita (riproduzione funzioni vitali + contentino) i miei schiavi, pardon “collaboratori”), era un quarto. Il quarto di differenza me lo intascavo come porzione del plusprofitto del rivenditore finale, il quale si portava a casa l’altra metà al netto dei costi di trasporto e di sdoganamento più consegna e stoccaggio: il che, comunque visti i costi irrisori iniziali, contando anche il fatto che Cina, India e altre tigri asiatiche godevano pure di “Form A”, ovvero di foglio di esenzione e riduzione daziaria per i PVS, era inizialmente poca cosa.
Per il padrone occidentale, tanti soldi in più e tante rotture di scatole in meno, per sintetizzare: a partire da una classe salariata che, parafrasando il monologo di un comico, a furia di mandare i padroni a quel paese, alla fine li vide davvero andare, a quel paese, con anche la fabbrica!
Ma anche il padrone locale faceva un affare, comprava a una miseria in valuta locale (rupie, renminbi), e vendeva a più del doppio in dollari. “La storia ci racconta come finì la corsa”: a furia di far fare tutto lì, si arrivò a fare veramente tutto, lì.
Si creò una situazione di oligopolio produttivo prima e monopolio poi senza sparare un colpo… il piano perfetto. A quel punto, man mano che si tenevano per le palle i colleghi capitalisti a valle del processo produttivo, si poteva alzare la posta. Stando sempre ben attenti a dare, di quel plusprofitto, quella quota minima necessaria al padrone occidentale a non rompersele del tutto e, soprattutto, PRIMA DEL TEMPO, le palle, e tornare a produrre qui.
Questo, almeno, fino a quando l’oligopolio divenne monopolio e la dipendenza fu totale. Poi basta. A quel punto, fu il padronato cinese, a sua volta, a delocalizzare le produzioni ad alta densità di lavoro: in Laos, in Birmania, in Bangladesh, nello Sri Lanka, in Pakistan, in Etiopia… non a caso, i Paesi di quella che qui chiamano nuova ‘via della seta’ o OBOR (One Belt One Road)…
Il plusprofitto, quindi, per foraggiare la UNA NUOVA ARISTOCRAZIA OPERAIA e l’esportazione di capitale per continuare, in maniera imperialistica, ad appropriarsene anche se – per il momento! – senza sparare un colpo di cannone: limitandosi a piazzare basi militari nei punti strategici (Gibuti ultimamente va abbastanza di moda…), e da lì magari foraggiando di dollari e armamenti gruppi armati locali.
Infine, tale esportazione comporta anche investimenti in loco, tesi ad acquisire quote sempre maggiori di canali di distribuzione locali, alimentando ulteriori dinamiche e circuiti di dipendenza economica, smerciando i propri prodotti sbaragliando la concorrenza e, infine, comprando per un piffero e un paffero i padroni occidentali in fallimento, limitandosi a sfruttare i loro canali distributivi e utilizzando il loro marchio storico per vendere i propri prodotti, magari giocando pure sulla falsa concorrenza fra prodotti “autoctoni” e non.
Per inciso, nonostante i proclami altisonanti dei dirigenti di partito, questo processo, rappresenta un vulnus “difficilmente sanabile” (per usare un eufemismo!) all’interno di una realistica transizione non dico al socialismo, che sarebbe un parolone, ma anche alla semplice creazione del tanto decantato “mercato interno” all’interno dei cosiddetti “socialismi di mercato”, ovvero di ciò che dovrebbe costituire la chiave di volta all’interno di un processo di sviluppo non più sbilanciato verso l’esterno. Il motivo è abbastanza semplice: finché produco per vendere in dollari, e non in rupie o renminbi, perché il primo mi garantisce plusprofitti che il secondo si sogna, hai voglia a “sviluppare un mercato interno” che diviene, in ultima analisi, come la Siberia: tutti sanno dov’è ma nessuno ci vuole andare.
E se questa è la dinamica padronale, anche quella operaia locale non si muove su logiche tanto diverse. Aristocrazia operaia? Si. Mobilità sociale? Si. Parlavamo poc’anzi dei salari operai locali più bassi dei nostri. Quel che conta, tuttavia, non è il valore assoluto, ma quello relativo. Rispetto, per esempio al bracciante che si spacca la schiena il doppio del tempo, per guadagnare la metà di quello che loro riescono a portare a casa. Bracciante che a sua volta aspira a mettere insieme un gruzzolo e investire in un’ape cross, con cui scendere in città pieno di ortaggi e frutta di stagione e non solo recuperare la spesa dell’ape, ma aumentare il proprio reddito, magari da investire in una piccola fabbrica a bassa intensità di capitale fisso, meccanica o tessile. SI AVVIA, INEVITABILMENTE, UNA DIFFERENZIAZIONE CHE PORTERÀ alla creazione di un’aristocrazia operaia e contadina, epigoni della borghesia, compradora e non, che in parallelo si sta sviluppando. Con buona pace di chi oggi difende il capitalismo con caratteristiche cinesi, dopo l’apertura delle gabbie rappresentata dalle controriforme di Deng, l’arricchimento si è mosso su questi canali.
Questa EMULAZIONE nulla ha a che vedere con quella socialista. La lotta di classe è un retaggio di un passato morto e sepolto, per questi lavoratori, così come per tutti i lavoratori migranti interni (centinaia di milioni in Cina) in cerca di opportunità, di quella porzione di plusprofitto che sentono alla loro portata. I soldi che sono arrivati, in questi quarant’anni. Con quelle briciole, “ottocento milioni di persone”, proclama Pechino, “sono usciti dalla povertà estrema”, ovvero dalla miseria più nera (ancora un po’ meno del nostro “miracolo italiano”, ma su quella falsariga), in questo caso per fare sempre una vita grama ma potendo aspirare a un smartphone e ad altri status symbol individuati come di “moderato benessere”. Invidiando, ovviamente, e puntando a entrare non solo nell’aristocrazia operaia e contadina, ma nel club esclusivo dei super-ricchi. Finché la barca va, tutto è possibile: persino che un operaio diventi un padrone. Non demonizziamo, quindi, ciò che è (o ci illudono essere) alla nostra portata, ovvero ciò che, lavorando sodo, potremmo diventare domani noi, o i nostri figli. E che “sta dando da mangiare a tutti”.
Aggiungiamo che, in tutto questo, la potente confederazione sindacale cinese, fedele cinghia di trasmissione, nulla ha fatto, non dico per risvegliare qualche coscienza sopita, ma anche solo per salvare la faccia e fornire, per esempio, una tutela legale ai migranti interni, condannati alla precarietà dal fatto che il loro “passaporto” impedirebbe tale migrazione: mai “disturbare il manovratore”.
Tornando a noi, al nostro Tomskij, pensiamo quindi all’oggi, ma in riferimento a quanto ha da dirci, o suggerirci, senza troppi paralleli con una situazione attuale completamente diversa da quella di allora.







































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