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L’ultima spiaggia dell’Occidente neoliberista
di Francesco Piccioni
Uno spettro si aggira per le capitali dell’Occidente: la crisi del potere politico. Ci perdonerete il “furto” dell’incipit più famoso della letteratura rivoluzionaria, ma in effetti ci troviamo in difficoltà nel dover sintetizzare quanto sta avvenendo nelle principali cancellerie dell’Occidente neoliberista.
Sarà bene andare con ordine, ossia per singolo paese, e poi vedere se c’è un trait d’union tra le diverse crisi.
Gran Bretagna
E’ il primo “caduto” ai vertici della Nato, e uno dei guerrafondai più estremisti. Boris Johnson, come sapete, è stato alla fine costretto alle dimissioni. Anzi, all’annuncio delle dimissioni.
Sfiduciato dai suoi stessi ministri e sottosegretari (oltre 50) e dal partito che guidava – i conservatori – alla fine si è deciso ad uscire dal portone di Downing Street per recitare la parte che ormai tutto il paese gli chiedeva.
L’ha fatto a suo modo, insultando chi lo ha costretto a (quasi) scendere dal piedistallo: “la forza del gregge a Westminster è potente: quando il gregge si muove, tutti si muovono”. Che un leader politico – anche se clownesco, Johnson lo è stato – consideri poco più che “pecore” la classe politica che ha diretto fino ad un minuto prima è forse l’ammissione più “autorevole” sull’autonomia e la “statura” di un’intera generazione di parlamentari.
Johnson, peraltro, nel rinviare l’uscita effettiva soltanto ad ottobre – ha lasciato la carica di presidente dei conservatori, ma mantiene quella di primo ministro fin quando i conservatori non avranno eletto un nuovo “capo politico” – fa capire di voler condizionare al massimo le future scelte del “gregge”, contando su sempre possibili capriole della maggioranza interna.
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Capitalismo e ambientalismo. La transizione (non) ecologica
di Giovanna Cracco
Dall’estrazione delle materie prime al riciclaggio finale, le omissioni nella narrazione green: distruzione ambientale, spreco d’acqua, inquinamento, sfruttamento, consumo energetico di Big Tech. L’ultima rivoluzione tecnologica capitalistica che nulla ha a che fare con l’ambientalismo
“Prendiamo il caso delle pale eoliche: la crescita di questo mercato esigerà, da qui al 2050, 3.200 milioni di tonnellate di acciaio, 310 milioni di tonnellate di alluminio e 40 milioni di tonnellate di rame, poiché le pale eoliche inghiottiranno più materie prime rispetto alle precedenti tecnologie. A pari capacita [di produzione elettrica], le infrastrutture eoliche avranno bisogno fino a quindici volte in più di cemento, novanta volte in più di alluminio e cinquanta volte in più di ferro, rame e vetro rispetto alle istallazioni che utilizzano combustibili tradizionali.”
O. Vidal, B. Goffe e N. Arndt, Metals for a Low-Carbon Society, Nature Geoscience, vol. 6, novembre 2013
“Il rapporto mostra chiaramente che le tecnologie che si presume popoleranno il cambiamento all’energia pulita - eolico, solare, idrogeno ed elettrico - richiedono significativamente più risorse materiali per la loro composizione rispetto agli attuali sistemi tradizionali di approvvigionamento energetico basati sui combustibili fossili.”
World Bank,
The Growing Role of Minerals and Metals for a Low Carbon Future, giugno 2017
“Vanno purificate 8,5 tonnellate di roccia per produrre un chilo di vanadio, 16 tonnellate per un chilo di cerio, 50 tonnellate per l’equivalente di gallio, e la cifra sbalorditiva di 200 tonnellate per un misero chilo di un metallo ancora più raro, il lutezio.” Guillaume Pitron,
La guerra dei metalli rari, Luiss Press, 2019
Transizione ecologica e digitale: una locuzione che è divenuta un imperativo, una parola d’ordine che nessuno più mette in discussione. Rare volte si è assistito a un cambio di paradigma con tale velocità: dall’essere argomento appannaggio di gruppi minoritari, pensiero carsico che riusciva ad affiorare solo legato a eventi contingenti per poi tornare a sotterrarsi, in pochi mesi l’ambientalismo si è trasformato in pensiero dominante.
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Operazione Z
di Stefano Zecchinelli*
Una manovra militare difensiva che segna la fine dell’unilateralismo Usa
Il conflitto in Ucraina ha rilanciato la dottrina messa a punto, dopo l’11 settembre 2001 (11/9), dai neoconservatori statunitensi chiamata “guerra senza fine”. Il Pentagono, con cinismo e nella più totale indifferenza, ha pianificato la distruzione d’una porzione del pianeta: le grandi nazioni imperialiste (USA, Gran Bretagna, Germania, Canada e Israele) avrebbero pauperizzato il mondo non globalizzato, deprivato – nei disegni neocons – delle proprie infrastrutture statali. I cables declassificati dal gruppo editoriale Wikileaks hanno rivelato che le guerre nel nuovo millennio non vengono combattute per essere vinte, bensì per gettare nel caos intere aeree geografiche attraverso conflitti che, nella letteratura militare del Pentagono, prendono il nome di “guerra eterna”. Il conflitto fra socialismo e capitalismo è stato affiancato all’ostilità perpetua dell’imperialismo nord-americano verso il diritto di autodecisione dei popoli, diritto inalienabile che in circostanze estreme contempla anche la Resistenza armata: es. Donbass e Palestina. Col colpo di stato neonazista di Piazza Maidan (Kiev 2014), gli Stati Uniti hanno esteso l’applicazione di questa dottrina alla Federazione Russa, mettendo a repentaglio la stessa vita degli europei del centro e dell’ovest.
Alcune caratteristiche dell’imperialismo del ventunesimo secolo
Le guerre del ventunesimo secolo, o guerre multidimensionali e “di quarta generazione”, differiscono dalla guerra convenzionale del secolo scorso, perché oltre alla politica economica/militare s’estendono sul piano ideologico e della manipolazione massiva attraverso la privatizzazione dei mezzi di comunicazione. Vediamo – seppur in sintesi – quali sono gli elementi costitutivi dell’imperialismo del ventunesimo secolo:
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La ricchezza improduttiva, l'"economia di carta" e la teoria del valore
di Andrea Pannone
Premessa
In un articolo su Bollettino Culturale del 2021 ho affrontato il problema della forma valore in Marx in modo esplicitamente non convenzionale rispetto a come il tema è stato affrontato nella letteratura economica marxista. La non convenzionalità, per essere chiari, è stata quella di raggiungere in modo formalmente rigoroso le stesse conclusioni raggiunte da Marx nel primo libro del Capitale - prima di tutto quella di ricondurre l’origine del profitto al pluslavoro, ossia a un rapporto di sfruttamento – facendo riferimento, però, a una rappresentazione dell’economia capitalistica piuttosto diversa da quella adottata dal filosofo di Treviri, almeno per ciò che attiene al modo di produrre e all’organizzazione dei mercati. Questi due aspetti, infatti, sono stati rappresentati nel nostro schema teorico in modo estremamente coerente ad un sistema economico moderno, anche ricorrendo, seppur solo parzialmente, ad alcune idee di autori molto distanti dal pensiero di Marx (in primo luogo Keynes).
In questo scritto integrerò le assunzioni portanti del suddetto schema teorico con il meccanismo di circolazione monetaria proposto da Marx nel terzo libro del Capitale (vedi Marx 1894), opportunamente modificato per essere maggiormente coerente con la realtà de sistemi economici e finanziari moderni. Lo scopo è quello di spiegare – in modo fortemente compatibile con l’approccio da me seguito nel mio primo articolo su Bollettino - il fenomeno dell’enorme espansione dei guadagni (earnings) derivanti dal possesso di asset non riproducibili (come ad esempio titoli, azioni, beni immobili ecc.), che sta caratterizzando le economie capitalistiche da almeno 25 anni.
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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente. 3: A caccia di mostri
di Fabio Ciabatti
Qui e qui le puntate precedenti
I periodi bellici non sembrano adatti al tentativo approfondire l’analisi. La propaganda non va tanto per il sottile. I nemici diventano mostri, il male assoluto. Parlando di nemico come lato oscuro si potrebbe dare l’impressione che stiamo menando il can per l’aia di fronte alla domanda pressante che viene rivolta a tutti noi: tu da che parte stai? Ma è proprio a questa domanda che bisogna sottrarsi. Perché, comunque si sviluppi nel breve periodo, il conflitto è destinato a far emergere i fondamenti mostruosi del nostro mondo. Un modo per provare a disertare il campo di battaglia è proprio quello di riconoscere che il nemico non rappresenta un’alterità incommensurabile rispetto alla nostra identità (stiamo parlando di una diserzione ideale ben consapevoli che quella reale cosa assai diversa). In questo modo possiamo mettere in questione la logica assoluta dell’“amico-nemico” che ci viene imposta e contrastare gli slanci bellicamente eroici che essa porta con sé. Si tratta certamente di un primo passo necessario perché ci consente di capire che, al di là delle manifeste differenze, esiste un sostrato comune tra i contendenti.1
Adesso, però, è venuto il momento di chiederci se questo passo sia anche sufficiente. La suggestione del lato oscuro l’abbiamo ripresa da uno dei manuali di sceneggiatura più diffusi di Hollywood, Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler. Qui l’antagonista è considerato come l’“insieme degli aspetti negativi dell’Eroe stesso”, come la “dimora dei mostri che reprimiamo dentro di noi”. Il nemico non è altro che l’eroe al rovescio, il suo lato oscuro, appunto. In questo contesto, la sconfitta dell’antagonista deve passare necessariamente per una trasformazione dell’eroe, perché la vittoria contro il male che è rappresentato esteriormente dal nemico significa anche la sconfitta del male che si cela in profondità nel protagonista stesso. La domanda da porsi a questo punto è la seguente: a partire da questa dinamica si può immaginare che la trasformazione dell’eroe possa produrre qualcosa di realmente nuovo?
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La Nato mondiale e la prospettiva multilaterale
di Alberto Bradanini
Al vertice Nato di Madrid del 30 giugno scorso, Il presidente turco ha ufficialmente ritirato l’obiezione di Ankara all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato. I tre paesi hanno firmato un apposito memorandum trilaterale[1]. Erdoğan ha così lasciato cadere la sua riserva dopo aver ottenuto significative concessioni da parte delle due nazioni nordiche, ormai campioni di tutela dei diritti umani solo sulla carta (basti ricordare la sudditanza a Washington/Londra di governo/magistratura svedesi sulla vicenda di Julian Assange).
A pagare le conseguenze di ciò saranno i curdi, che combattono una battaglia storica per la sopravvivenza. A tale riguardo, si constata curiosamente che non è mancato qualche transitorio prurito di preoccupazione per i combattenti curdi, i quali secondo le bizzarrie di alcuni osservatori verrebbero protetti dalle truppe americane/mercenari – che occupano da anni e illegalmente le terre siriane dove si produce petrolio – quando invece sono stati utilizzati come carne da cannone, insieme a Isis, Al Qaeda etc. per spodestare Bashar Al Assad, nemico di Israele. Quella pur esteriore preoccupazione a favore dei curdi, subito caduta davanti alle superiori esigenze di incorporamento dei due paesi nordici nella Nato, resta tuttavia meritevole di apprezzamento.
Se l’aspirazione del popolo curdo all’autodeterminazione merita il massimo rispetto – sebbene nel diritto internazionale essa debba fare dialetticamente i conti con il principio contrario di intangibilità delle frontiere – ciò che fa difetto nella narrativa dominante è l’assenza di analoga sensibilità verso altre popolazioni, in Europa e altrove, nei confronti delle quali l’aspirazione ad autodeterminarsi viene platealmente ignorata per le esigenze del dominus atlantista.
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Diritto e metodo marxista in Pashukanis*
di Carlo Di Mascio
Il pensiero come tale non può implicare mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso.
Karl Marx, Grundrisse
1. Il diritto quale costruzione storicamente determinata dalle condizioni della produzione capitalistico-borghese
L’eccezionale radicalità della critica marxista di Pashukanis, risiede principalmente nella tesi secondo cui quando si procede allo studio del diritto, prima di catturare il suo contenuto politico, occorre interrogarsi rispetto alla sua forma, e ciò in quanto, per il giurista sovietico, il diritto e il suo formalismo rappresentano il fondamento strutturale, e non meramente sovrastrutturale, del dominio dell’economico, nonché della sua assunzione a giustificazione universale della società moderna. Ora, interrogarsi sulla forma del diritto, come «disciplina teoretica autonoma»1 e non come prodotto ideologico, significa affermare che il diritto è un’astrazione che tuttavia non altera la verità concreta, per cui non va affatto confuso con un semplice meccanismo con il quale il dominante inganna il dominato, bensì identificato con «un principio realmente operante nella società borghese [che si fonda sulla merce] un processo reale di giuridicizzazione dei rapporti umani, che accompagna lo sviluppo dell’economia mercantile-monetaria (e, nella storia europea, lo sviluppo dell’economia capitalistica)»2. Questa premessa conduce Pashukanis ad assegnare al diritto, piuttosto che lo status di una mera categoria dell’ideologia borghese, quello di un vero e proprio «fenomeno sociale oggettivo»3 che opera concretamente nella società, indipendentemente da una volontà di classe, e comunque non con immediati obiettivi di falsificazione. Esso, contrariamente a come appare immediatamente, con le sue generalità e astrattezze, con i suoi principi eterni ed immutabili, non comanda se non all’interno di una relazione, che altro non è che una relazione di mercato tra possessori di merce, tra chi compra e chi vende, tra chi detiene i mezzi di produzione e chi solo la merce «forza-lavoro».
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L’attuale modello socio-economico occidentale: due tesi a confronto
di Luca Dinelli
Nell’interessante dibattito avviato nelle riunioni della Direzione Nazionale di Liberiamo l’Italia e ripreso in alcuni interventi all’Assemblea Nazionale, si sono delineate due tesi: la prima secondo la quale il profitto deve essere ancora considerato come il motore primo che determina l’azione dei soggetti economici e informa la società occidentale, la seconda che vede il ruolo del profitto ridimensionato alla stregua di mero indicatore al pari di altri, di fatto scavalcato dal reale obiettivo rappresentato ormai dal controllo delle vite dei cittadini; faccio notare che questa seconda ipotesi implica il superamento del capitalismo e l’ingresso in una nuova epoca, caratterizzata da un totalitarismo in atto, ma del tutto nuova rispetto al passato.
La prima obiezione che muovo ai sostenitori della seconda tesi, è che eliminando il primato rivestito del profitto nel modello socio-economico del mondo occidentale, la lettura dei meccanismi che muovono la società ne risulta estremamente complicata. Non si capiscono gli appelli alla necessità per gli Stati di diventare appetibili per attrarre investimenti stranieri; non si dà una spiegazione razionale dell’attacco ai pilastri storici del welfare, costituiti dalla previdenza, dalla scuola e dalla sanità pubbliche; non si vede perché questo è stato abilmente perseguito negli ultimi trent’anni attraverso la ricerca spasmodica del controllo dell’inflazione, assurto a principio fondativo dell’Unione Europea. Tutti questi aspetti dovrebbero essere letti come strumenti intermedi per la ricerca del fine ultimo, coincidente col controllo delle vite altrui; da qui, il probabile approdo a spiegazioni irrazionali sulle motivazioni recondite dei signori del mondo che sarebbero stati inquinati inequivocabilmente dal tocco della Bestia.
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«L’altra metà del cielo» e la questione dell’aborto oggi
di Michele Castaldo
Lo diciamo per i nati degli ultimi decenni e che non hanno conosciuto la fascinazione per il maoismo come per alcune generazioni precedenti: “l’altra metà del cielo” per indicare l’universo femminile, era l’espressione del presidente della Repubblica popolare cinese Mao Zedong o Mao Tse-tung.
Che succede negli Usa, ma anche nel resto dell’Occidente e in Oriente sul problema della maternità? E cosa sta succedendo di riflesso sulla questione specifica del problema dell’aborto? « Si infiamma la protesta negli Usa dopo la sentenza con cui la Corte suprema ha riconosciuto il diritto di vietare l’aborto, mentre si profila uno scontro tra poteri, legislativo ed esecutivo da una parte e giudiziario dall’altra » tuonano gran parte delle testate giornalistiche e dei mezzi di informazione.
Discutiamo di una questione molto delicata, in una fase molto complessa, dove si intrecciano troppe e complicate questioni, sicché sbrogliare la matassa richiede una pazienza certosina e l’ancoraggio a un punto di vista rigorosamente materialistico. La protesta non è scoppiata in un paesino di provincia, ma nel paese della massima espressione del liberismo e della cosiddetta autodeterminazione individuale della persona, il capofila dell’Occidente. Insomma qualcosa di grosso sta veramente sconvolgendo gli Usa per un diritto ritenuto ormai acquisito da 1973 e che viene messo in discussione dalla Corte suprema per alcuni Stati prevalentemente conservatori. Dunque con una spaccatura del paese inimmaginabile fino a qualche giorno fa.
Gloria Feldt, una delle voci storiche del femminismo americano dice « non c’è diritto più importante per le donne che decidere cosa fare con il proprio corpo », in netto contrasto col principio che regola la questione dell’aborto, ovvero con quel « “ diritto alla riservatezza” che protegge la libertà di una donna incinta di abortire il suo feto … e che deve essere bilanciato con l’interesse del governo ».
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Quanto durerà la guerra in Ucraina?
l'AntiDiplomatico intervista il Generale Fabio Mini
Nella prima intervista del marzo scorso, con un successo di letture e critica straordinario, il generale Mini aveva offerto al pubblico de l’AntiDiplomatico uno spaccato completo di quello che sarebbe accaduto per la miopia dell’approccio Ue e Nato nel conflitto ucraino. La lettura è altamente consigliata anche oggi.
A quattro mesi di distanza torniamo a sollecitare le riflessioni del Generale Mini, in una fase che appare drammaticamente decisiva per il futuro degli interessi strategici nazionali e più in generale per la tenuta delle relazioni internazionali.
* * * *
Generale nella precedente intervista a l’AntiDiplomatico del 10 marzo lei dichiarava che per uscire dall’impasse l’Italia, cito testualmente, avrebbe dovuto: “Negoziare, finirla con il pensiero unico e la propaganda, aiutare l’Ucraina a ritrovare la ragione e la Russia ad uscire dal tunnel della sindrome da accerchiamento non con le chiacchiere ma con atti concreti. E quando la crisi sarà superata, sperando di essere ancora vivi, Italia ed Europa dovranno impegnarsi seriamente a conquistare quella autonomia, dignità e indipendenza strategica che garantisca la sicurezza europea a prescindere dagli interessi altrui.” 4 mesi dopo che cosa si sente di aggiungere a questa affermazione?
Soltanto una constatazione: il superamento della crisi si allontana ogni giorno di più. Le iniziative di pace sono sempre di meno e mentre la via per il disastro sta diventando un’autostrada, quella per la fine del conflitto non solo è un sentiero di montagna, ma è anche bloccato da un masso enorme fatto d’interessi contrastanti e cinismo.
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"Ipocrisia"
di Carlo Rovelli
Poche volte mi sono sentito come in questo periodo, così lontano da tutto quanto leggo sui giornali e vedo alla televisione riguardo alla guerra ora in corso in Europa orientale.
Poche volte mi sono sentito così in dissidio con i discorsi dominanti. Forse era dai tempi della mia adolescenza inquieta che non mi sentivo così ferito e offeso dal discorso pubblico intorno a me.
Mi sono chiesto perché. In fondo, sono spesso in disaccordo con le scelte politiche e ideologiche dei paesi in cui vivo, ma questo è normale — siamo in tanti e abbiamo opinioni diverse, letture del mondo diverse. Anche del mio pacifismo, poi, sono poi così sicuro? Ho dubbi, come tutti.
Allora perché mi sento così turbato, ferito, spaventato, da quanto leggo su tutti i giornali, e sento ripetere all’infinito alla televisione, nei continui discorsi sulla guerra?
Oggi l’ho capito. L’ho capito proprio ritornando col pensiero al periodo della mia prima adolescenza, quando tanti anni fa la gioventù di tanti paesi del mondo cominciava a ribellarsi a uno stato di cose che le sembrava sbagliato. Cos’era stata quella prima spinta al cambiamento? Non era l’ingiustizia sociale, non erano i popoli massacrati dal Napalm come i Vietnamiti, non era il perbenismo, la bigotteria, l’autoritarismo sciocco delle università e delle scuole, c’era qualcosa di più semplice, immediato, viscerale che ha ferito l’adolescenza di mezzo secolo fa e ha innescato le rivolte di tanti ragazzi di allora: l’ipocrisia del mondo adulto.
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Attacco alla democrazia e neocretinismo parlamentare
di Raffaele Gorpia*
«Questi disgraziati poveri di spirito per tutto il corso delle loro esistenze generalmente molto oscure […] dal principio della loro carriera legislativa erano stati più di qualsiasi altra frazione dell’Assemblea contaminati dalla incurabile malattia del cretinismo parlamentare, infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l’onore di annoverarli tra i suoi membri e che qualsiasi cosa accada fuori delle pareti di questo edificio […] non conta nulla in confronto con gli eventi incommensurabili legati all’importante questione, qualunque essa sia, che in quel momento occupa l’attenzione dell’onorevole loro assemblea».
Nel luglio del 1852, Friedrich Engels scriveva a proposito dei deputati della sinistra nell’Assemblea legislativa.
In tempi di riduzione del numero dei parlamentari è ampiamente prevedibile l’accanimento alla corsa al seggio parlamentare da parte di vecchi e nuovi parlamentari, vecchi e nuovi politicanti dediti alla coltivazione delle proprie clientele per poter conservare la propria peculiare e sottile forma di parassitismo sociale.
L’ottuso populismo grillino, oggi in declino, ha sancito la fine del residuo di democrazia esistente nel nostro Paese con l’affermazione del sì al recente referendum costituzionale confermativo della riforma che riduce il numero di parlamentari e senatori a partire dalla prossima legislatura. In soldoni, le piccole formazioni politiche, ammesso che riuscissero a superare le soglie di sbarramento previste per entrare in Parlamento, saranno diffusamente assenti sul territorio nazionale in quanto a rappresentanza parlamentare in tutte le regioni di piccole e medie dimensioni, al contrario verrà favorito e consolidato praticamente senza concorrenza tutto il notabilato locale che già controlla sul territorio, con le buone e con le cattive, consistenti pacchetti di voti.
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L'ignoranza è speranza
di Il Pedante
Nel cosmo immaginario de Il Signore degli anelli, il capolavoro narrativo di John R. R. Tolkien pubblicato tra il 1954 e il 1955, i palantíri sono sfere di cristallo fabbricate dagli Elfi di Valinor «in giorni così lontani che il tempo non può misurarsi in anni» per osservare e comunicare a distanza. Le sfere potevano collegarsi tra di loro (esisteva anche un «server» centrale che le controllava tutte, il palantír custodito nella Cupola di Stelle, a Osgiliath) e persino mostrare eventi lontani nello spazio e nel tempo, da cui il loro appellativo di «Pietre Veggenti». Dei molti esemplari realizzati e poi perduti o distrutti nel corso dei secoli, all’epoca in cui si svolgono i fatti narrati ne risultavano attivi soltanto tre, rispettivamente al servizio di Sauron, lo spirito malvagio che minaccia i popoli liberi della Terra di Mezzo, lo stregone Saruman e l’umano Denethor, sovrintendente del regno di Gondor. Tra gli oggetti magici che appaiono nel racconto, i palantíri occupano un ruolo preminente nello sviluppo narrativo. È proprio dopo avere scrutato in una di queste pietre che il saggio Saruman si allea con l’Oscuro Signore e il valente Denethor rinuncia a combattere contro le truppe del male, finendo suicida.
Il palantír è anche letteralmente una televisione. In Quenya, la lingua elfica immaginaria di cui Tolkien ha composto una grammatica e un vocabolario, palan significa «lontano» (come il greco τῆλε) e tír «guardare» (come il latino vīsĭo). Per la sua versatilità può anche apparentarsi con le più moderne webcam, i videotelefoni e le altre applicazioni della rete internet che permettono appunto di «vedere lontano e trasmettersi i pensieri» da distanze inaccessibili ai sensi. Le sue stesse presunte proprietà divinatorie anticipano l’ambizione di prevedere gli eventi raccogliendo e analizzando in tempi rapidi enormi quantità di dati messi a disposizione dalle reti informatiche.
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I falsi miti della transizione energetica e la pace necessaria
di Giorgio Ferrari*
La questione energetica è divenuta l’argomento prioritario dell’agenda politica mondiale, ma il modo in cui viene affrontata in sede internazionale pone seri interrogativi sull’esito finale che ne potrà risultare.
Più volte ho espresso il mio disaccordo sulle aspettative riposte, anche da buona parte del mondo ambientalista, nella transizione energetica, la quale altro non è che una surrogazione di fonti di energia nell’ambito del modello di sviluppo consolidato che, secondo gli auspici di tutte le istituzioni nazionali ed internazionali, è atteso incrementare il consumo delle risorse naturali della Terra, sia per l’avvento della IV rivoluzione industriale, sia perché il passaggio dal ciclo dei combustibili fossili a quello delle energie rinnovabili comporterà un aumento considerevole dell’estrazione di materie prime. Quest’ultimo aspetto, inoltre, si presenta come un vero e proprio “detonatore planetario” in grado di scatenare nuove guerre, per il fatto che molti minerali (le Terre Rare, ma non solo) assolutamente indispensabili alla produzione delle rinnovabili e dell’idrogeno, sono concentrate in paesi come Cina, Russia e Vietnam, in cui la Cina detiene anche il monopolio mondiale della raffinazione (Terre Rare).
Questa situazione, già prima dell’apertura del conflitto ucraino, aveva determinato ritardi ed aumento dei costi nella produzione di auto elettriche con effetti analoghi nel settore delle turbine eoliche, sintomi non trascurabili di una generale difficoltà a realizzare nei tempi previsti gli obiettivi principali della transizione: -45% delle emissioni di CO2 entro il 2030 e zero emissioni entro il 2050. Tanto era evidente questa difficoltà che la Commissione europea, pressata da Francia e Germania, aveva introdotto nella Tassonomia UE il nucleare e il gas come “energie di transizione” e quindi finanziabili con fondi pubblici, sia pure a determinate condizioni.
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Filosofia e metafisica critica
di Salvatore Bravo
Vi sono autori trattati come “cani morti”, poiché le loro analisi permettono di svelare le contraddizioni cariche di potenzialità rivoluzionaria del proprio tempo storico. La filosofia è attività teoretica e politica mai conclusa. La riflessione sulla totalità storica in cui si è implicati consente di valutarne non solo la qualità, ma anche le contraddizioni ma anche i processi strutturali in atto. Filosofare è operazione metodologica e logica, è metodo d’indagine in quanto capacità di tessere assieme le parti ideologicamente separate dal potere, è logica in quanto il tessere le parti ideologicamente separate comporta la comprensione razionale del proprio tempo concettualizzato nella sua verità. L’ostilità e l’ostracismo colpiscono solo i veri filosofi, gli accademici e gli eruditi che si limitano alla specializzazione filosofica sono favorevolmente accolti dal potere, in quanto alla coscienza critica del proprio tempo hanno sostituito l’adattamento opportunistico e carrieristico. Massimo Bontempelli1 è stato filosofo del nostro tempo, attraverso le analisi sulla condizione della scuola dopo la caduta dell’Unione Sovietica pone in evidenza la decadenza dell’intero tessuto sociale privatizzato e saccheggiato dalle logiche privatistiche comuni alla destra e alla sinistra. L’annichilimento di un’istituzione non si può astrarre dal suo contesto storico. Massimo Bontempelli fu un pensatore hegelo-marxiano, la sua metodologia di indagine è stata concreta, ovvero metafisica nel senso alto della parola. La metafisica non è un trascendere oltre lo spazio e il tempo, ma un oltre che ricongiunge la complessità storica costituita da dati, istituzioni e modi di produzione. Per poter concettualizzare è necessario ricongiungere ciò che appare diviso per ricostruirlo nei suoi nessi storici e strutturali, sono in tal modo “l’oltre” si rivela nel “con” per dare senso alla totalità.
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La Cina, il conflitto russo-ucraino e il nuovo ordine multipolare
di Giambattista Cadoppi*
La posizione ufficiale della Cina sulla questione ucraina è a sostegno agli accordi di Minsk, che stabilivano un compromesso accettabile per le parti. Pechino non si è pronunciata esplicitamente sul riconoscimento della Crimea come parte della Russia, in quanto è portata a sostenere solo accordi bilaterali tra i contendenti e non situazioni di fatto. Il ministro della Difesa cinese ha affermato però che gli Stati Uniti sono “colpevoli dell'escalation del conflitto” in Ucraina e, dunque, della sua “sirianizzazione"
Critiche dell’azione sovversiva americana
La Cina ha criticato il colpo di stato a Kiev che ha destituito il legittimo presidente Janukovyć e il doppio standard, applicato sempre dagli americani, per cui se la Russia si lamenta quando le vengono messe basi ai suoi confini allora gli Stati indipendenti possono fare ciò che vogliono. La Cina, invece, se mette delle basi navali alle Isole Salomone oppure nella Guinea Equatoriale minaccia la sicurezza degli USA, anche se queste sono a migliaia di chilometri di distanza e a volte a decine di migliaia di chilometri.
La Cina si è astenuta dal condannare la Russia, disapprovando le sanzioni illegali che gli Stati Uniti e i suoi vassalli hanno inflitto a Mosca. Gli Stati Uniti possono rubare i soldi di altre persone o di Stati in qualsiasi momento, quando non gli piace qualcosa, come insegna anche l’Afghanistan, ma gli altri Paesi non possono opporsi.
È evidente che gli Stati Uniti hanno calcolato male le conseguenze della guerra. Le sanzioni occidentali si sono basate sulla falsa premessa che l’economia russa fosse altamente vulnerabile. I cambiamenti dell’economia russa negli ultimi anni sono stati ignorati. Gli occidentali hanno creduto in un mito creato da loro stessi. Invece di schiacciare la Russia, le loro sanzioni hanno portato a un’inflazione dilagante in casa propria e Biden è quasi certo di perdere le elezioni di medio termine. L’Europa è anche in condizioni peggiori. Il sostegno all’Ucraina sta soffocando l’Occidente con l’inflazione, come non si vedeva da anni.
Il presidente cinese Xi Jinping ha criticato le sanzioni unilaterali, definite “arbitrarie”, e le loro ricadute sui Paesi in via di sviluppo, incitando i “principali Paesi sviluppati” ad adottare politiche economiche “responsabili”.
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Guerra in Ucraina e Nuovo Ordine Mondiale
di Raffaele Picarelli
Proponiamo gli atti del seminario “Guerra in Ucraina: effetti nell’economia, nella finanza e nelle relazioni internazionali” tenuto dal dr Raffaele Picarelli al Circolo Arci di San Giuliano Terme sabato 4 giugno su iniziativa del Comitato Popolare Sangiulianese in collaborazione con le seguenti associazioni: Ita-nica di Livorno, il Laboratorio della solidarietà di Livorno, Codice Rosso e la Libera Università Popolare di Livorno.
Raffaele Picarelli, saggista ed esperto di questioni economico-finanziarie e di relazioni internazionali, ha offerto una approfondita e organica disamina a 360° dei processi in corso ormai da anni nell’economia occidentale e degli effetti provocati dalla guerra in Ucraina e, soprattutto, dalle sanzioni comminate alla Russia dai Paesi occidentali che consente di comprendere parte delle verità sottaciute dalla narrazione mediatica main stream, ma anche di avere una quadro organico delle dinamiche geopolitiche che sottostanno al conflitto.
Questo il breve abstract della prima parte della relazione che risulta estremamente utile oltre che per la comprensione degli scenari in essere, anche per fornire strumenti di analisi e di lotta politica per gli attivisti.
“La guerra in Ucraina ha amplificato e accelerato processi già in corso in Occidente, legati agli anni della pandemia ed agli effetti della crisi sistemica cominciata nel 2008.
Inflazione, primi segni di recessione, blocco o difficoltà nelle catene di approvvigionamento di materie prime, semilavorati e merci, aumento dei tassi di interesse, caduta di valore di tutti gli asset finanziari: queste tendenze risultavano già in atto a partire dal terzo trimestre del 2021.
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Fredric Jameson, Dossier Benjamin
di Luca Mozzachiodi
Fredric Jameson, Dossier Benjamin, trad. it. di F. Gasperetti, Milano, Treccani, 2022
Dossier Benjamin è il titolo del libro di Fredric Jameson edito da Treccani per la cura di Massimo Palma, che di Benjamin ha preparato in Italia diverse opere e antologie di scritti, da Scritti politici per gli Editori Internazionali Riuniti nel 2011 a Esperienza e povertà nel 2018. Il libro è stato meritoriamente tradotto con una rapidità senza precedenti rispetto alle opere di Jameson, che in generale sono arrivate in Italia con diversi anni di ritardo sugli originali e questo, oltre che alla scelta del curatore, ritengo sia da ascrivere in parte all’oggetto del libro: l’opera di Walter Benjamin, in parte alla modalità compositiva che Jameson ha adottato.
Non è questa la sede per proporre una storia della ricezione di Benjamin in Italia, naturalmente strettamente connessa con le vicende politico culturali del paese, ma gioverà ricordare che dopo la fase fondativa della traduzione da parte di Solmi di un’antologia di scritti con il titolo Angelus Novus,1 selezione di saggi dagli Schriften preparati da Adorno per Suhrkamp nel 1955 e che Jameson mette a contrasto con quella di Arendt nella disputa sull’eredità di Benjamin – presentata dal critico americano tra le righe come una storia di fraintendimenti e esplicite correzioni –, il cammino italiano dello scrittore tedesco sarà lento ma costante per tutto il secolo. Quando negli anni Settanta gli si affiancherà Cases, ciò porterà a scoprire il Benjamin critico letterario con gli scritti raccolti in Avanguardia e rivoluzione e poi con Il dramma barocco tedesco.
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La logica della crisi corrente
di Andrea Zhok
Per cercar di comprendere la situazione attuale e le sue tendenze di sviluppo è necessario alzare lo sguardo almeno all’altezza degli ultimi tre lustri, ricollegandoci alla crisi finanziaria del 2007-2008.
La crisi subprime ha mostrato, innanzitutto, nella maniera più chiara, chi detiene la sovranità effettiva nel mondo odierno. Alle origini della crisi sta la deregolamentazione del sistema finanziario americano avvenuto almeno a partire dall’abolizione dello Glass-Steagall Act (1999, presidenza Clinton), con cui si sono aperte le ultime dighe al predominio della finanza speculativa (processo iniziato sin dagli anni ’70). Quell’atto di delegificazione era stato auspicato da tempo dai principali attori finanziari statunitensi, ma solo alla soglia del 2000 le pressioni ottennero pienamente l’esito desiderato.
Da allora si è avviata una stagione di speculazione ruggente che ha prodotto un incremento costante del peso dell’economia finanziaria rispetto all’economia reale, promuovendo la creazione della pazzesca bolla immobiliare esplosa a fine 2007.
In quell’occasione per il sistema finanziario si trattava di capire una sola cosa, ovvero se, o in quale misura, gli stati avrebbero compensato per i rischi speculativi privatamente presi. Quando il governo americano decise (con molti tentennamenti) di lasciar fallire la Lehman Brothers, come "esempio" contro il "moral hazard" del sistema bancario, i vertici del sistema finanziario presero un discreto spavento. Per qualche lunghissimo giorno si percepì la possibilità di un effetto domino, di un collasso totale con il successivo fallimento del gigante AIG, che sarebbe stato incontenibile nelle conseguenze. Questa propagazione venne sventata dal governo USA all’ultimo momento, con la prima di una prodigiosa serie di “iniezioni di liquidità”.
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L’ordo-liberalismo e il «77-pensiero»
di Leo Essen
I
Per il 1978-79 Foucault aveva deciso di tenere un Corso sulla Biopolitica. Nel résumé del corso, redatto per l’Annuaire del Collège de France – i résumés sono gli unici testi riguardanti i corsi resi pubblici dallo stesso autore – Foucault dice quanto segue: In origine il tema stabilito per il corso era la Biopolitica, termine con il quale intendevo fare riferimento al modo con cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze. È noto quale spazio crescente abbiano occupato questi problemi a partire dal XIX secolo e quali poste politiche ed economiche abbiano costituito sino a oggi.
Nel Corso, contrariamente a quanto annunciato dal titolo, Foucault non si occuperà direttamente della biopolitica. E ciò in quanto, dice, mi è sembrato che la biopolitica non potesse essere dissociata dal quadro della razionalità politica entro cui sono apparsi e hanno assunto il loro rilievo, vale a dire il «liberalismo».
Il liberalismo tedesco della scuola di Friburgo, raccolto intorno alla rivista Ordo – da qui ordo-liberalismo o neo-liberalismo – e il neo-classicismo economico austriaco (soprattutto Mises e Hayek) sono al centro dell’analisi.
Foucault si avvicina a questo tema con tutta la cautela che gli è propria. Il liberalismo, dice, non è una teoria, non è un’ideologia, non è un modo di rappresentarsi, non è una rappresentazione, non è una tecnica del governo, governo inteso in quanto istituzione o momento istituzionale. Il neo-liberalismo è una pratica di governo, se si intende per pratica un modo di fare e di comportarsi, un modo di agire che non è un praticismo, che non esclude un intento teorico ma che non si riduce alla mera teoria o a una teorizzazione su una presunta pratica – è una pratica-teorica di governo delle popolazioni.
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Note sulla questione comunista in Italia
di Fausto Sorini
Credo che abbia fatto bene Marco Pondrelli, direttore del nostro sito, ad aprire con un editoriale il dibattito sulla questione comunista, con una particolare attenzione all’Italia. Perchè se è vero – come scrive – che “oggi nell’Unione europea la forza dei comunisti è marginale, … se guardiamo al caso italiano la situazione è ancora peggiore, desolante” e “di scissione in scissione oramai gli iscritti ed i militanti dei tanti partiti sono sempre meno e i gruppi dirigenti sono sempre più litigiosi e lontani dal mondo del lavoro”, privi di autentico radicamento nella società e nei luoghi del conflitto sociale.
Sappiamo bene che le ragioni più profonde di questa situazione, nel Paese che pure fu patria del partito di Gramsci, di Togliatti, di Longo, di Secchia, vengono da lontano e rimandano ai processi degenerativi insiti nella “mutazione genetica” del PCI, nella sua dissoluzione, nella incapacità dei gruppi dirigenti sorti dopo la fine del PCI di ricostruire una forza comunista anche piccola nelle sue dimensioni, ma solida ed espansiva, relativamente omogenea sul piano ideologico, della collocazione internazionale, della concezione dell’organizzazione, espressione dei settori di avanguardia del mondo del lavoro, dei giovani, degli intellettuali (cioè leninista non solo a parole).
A oltre 30 anni dalla fine del PCI – essendo pure stati alcuni di noi protagonisti di esperienze che risalgono già agli anni ’70 del secolo scorso (Interstampa nel PCI, l’Ernesto in Rifondazione, MarxXXI prima serie nel PdCI) – possiamo dire responsabilmente che tutti questi tentativi sono falliti o sono stati sconfitti: sia per limiti soggettivi interni a loro stessi, sia per una inferiorità troppo grande nei rapporti di forza con chi è sceso in campo per osteggiarli, dall’interno e dall’esterno.
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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente
di Fabio Ciabatti
Qui i capitoli 1. e 2.
3. A proposito di oligarchie
Nella saga di Star Wars, vera e propria fabbrica di moderni archetipi, l’intero universo è permeato e governato da una sorta di misterioso campo di energia, la “forza”. Questa però ha anche il suo lato scuro, che, in ultima istanza, genera il più terrificante dei nemici, l’Impero. C’è un momento di verità in questo modo di concepire il nemico. Ed è per questo che può essere utilmente applicata alla Russia di Putin che, al di là dei punti di scontro, condivide con l’Occidente l’accettazione dei principi del capitalismo neoliberista, a differenza di quanto avveniva con l’URSS che proponeva un sistema socioeconomico diverso da quello capitalistico (quanto poi fosse migliore è un’altra questione). Rimanendo all’allegoria cinematografica, possiamo considerare la forza come i flussi di valore capitalistici che oramai attraversano e plasmano l’intera realtà producendo anche il tenebroso capitalismo russo. Ovviamente il meccanismo narrativo e quello ideologico funzionano finché lo scontro tra il bene e il male è raffigurata come la lotta tra Davide e Golia. Nella realtà i rapporti di forza sono ribaltati, ammesso che la guerra attuale è uno scontro tra Usa e Russia per interposta Ucraina.
Potrebbe sembrare frivolo, di fronte alle tragedie della guerra, chiamare in causa Hollywood, ma la guerra si combatte anche sul piano dell’immaginario. Continuiamo perciò ad approfondire gli elementi che la metafora del nemico come lato oscuro ci consente di cogliere. A questo proposito un’obiezione sorge immediata: cosa c’entra un sistema statalista, oligarchico, autoritario con l’Occidente caratterizzato da mercato, concorrenza e democrazia?
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Il Grande Contraccolpo: ascesa e prospettive del neostatalismo
di Marco Duò
Recensione di Paolo Gerbaudo: Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato, Milano, Edizioni nottetempo, 2022 (ed. orig. The Great Recoil: Politics After Populism and Pandemic , Brooklyn, Verso Books, 2021)
Chi ultimamente ha prestato attenzione alla cronaca avrà forse notato uno shift notevole nel comportamento delle più grandi istituzioni economiche, finanziarie e governative incaricate di gestire la crisi attuale; la Bce, ad esempio, la cui principale prerogativa è sempre stata la solidità dell’euro e il contenimento dei prezzi, sembra oggi aver assunto un atteggiamento più che tollerante nei confronti dell’inflazione. Tale atteggiamento può lasciare perplesso chi ha sempre creduto che la Banca centrale europea fosse un baluardo delle politiche economiche ultraliberiste improntate sull’austerity. Tuttavia, le motivazioni dietro a questa scelta sono chiare: l’unico modo per far ripartire l’economia sono gli investimenti e l’accesso facilitato al credito, ma, com’è noto, questo richiede che i tassi d’interesse rimangano il più possibile vicino allo zero, il che, a sua volta, implica un aumento dell’inflazione dovuto alla crescente quantità di moneta in circolazione. Questa situazione viene a crearsi, fra le altre cose, con il ricorso al Quantitative Easing (Qe) e alla continua introduzione di spese per il sostegno della domanda e misure d’assistenza sociale, fattori che non sono di certo mancati negli ultimi mesi. Sebbene, proprio in questi giorni, la Fed abbia deciso di distaccarsi da questo indirizzo, annunciando un imminente rialzo dei tassi d’interesse, si ricorderà senza dubbio il ruolo che essa ha giocato nel finanziamento dello stimulus check trumpiano e dei recenti piani multimiliardari di Biden. Insomma, pare che di comune accordo banche e governi abbiano abbandonato le politiche di contenimento della spesa degli ultimi anni, arrivando persino a sospendere il Patto di Stabilità, il tutto in nome della ripresa postpandemica.
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Sulla guerra in Ucraina, dal punto di vista dell’internazionalismo
di Pietro Basso
Questo è il testo di un intervento che il compagno Pietro Basso (della redazione di questo blog e della rivista Il Cuneo rosso) ha tenuto a Lucca venerdì 24 giugno ad un’iniziativa sulla guerra in Ucraina, volta a denunciare il bellicismo pro-NATO che ogni giorno di più impazza in Italia, con i suoi risvolti maccartisti tra l’orrido e il grottesco. Essendo un intervento di 15-20 minuti, non poteva essere, né pretende di essere in alcun modo, esauriente – tanto per dirne solo una, non tratta delle questioni dell’autodeterminazione degli ucraini e degli abitanti del Donbass. Ma intende, questo sì, guardare alla guerra in corso dal punto di vista dell’internazionalismo militante. Ed è, perciò, del tutto fuori dai cori. Contro, anzitutto, l’assordante coro militarista e bellicista del capitale nazionale e dell’imperialismo occidentale; ma senza concessioni ai piccoli, molteplici cori campisti e simil-campisti, anch’essi soggiogati dalle logiche e dagli interessi statuali (capitalistici, cioè), e lontani, se non lontanissimi, dalla logica e dagli interessi di classe. (Red.)
* * * *
Ho da fare tre premesse. La prima, ovvia; la seconda, un po’ meno; la terza, insolita.
La prima. Quella che si sta combattendo in Ucraina non è una guerra tra Russia e Ucraina. È una guerra tra NATO/Occidente e Russia (con dietro la Cina), ed è il seguito dell’infausto 2014 di Euromaidan, lo sbocco della contesa globale cominciata nel 1991 per arraffare le smisurate ricchezze naturali e di forza-lavoro dell’Ucraina. Una contesa in cui la “nostra” squallida Italia è stata ed è in prima fila, appropriandosi della vita di 200.000 donne di ogni età e di terre fertili, impiantandovi più di 300 aziende, seminando corruzione e germi di guerra.
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La requisitoria di Sahra Wagenknecht e i suoi limiti
di Carlo Formenti
Il titolo del libro di Sahra Wagenknecht - dirigente storica della Linke, partito di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare aspettative eccessive: Contro la sinistra neoliberale (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano. Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di Hans Modrow alla Linke che abbiamo rilanciato su questa pagina https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2022/02/lettera-di-hans-modrow-alla-linke-hans.html
Viceversa il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio. Non che manchino accenti durissimi nei confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”: come vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in oggetto. A lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court; un approccio che legittima l’idea secondo cui il liberalismo di sinistra tradizionale, o liberal socialismo, non è il grembo che ha partorito l’attuale sinistra neoliberale, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra. Ma procediamo con ordine.
Il bersaglio della Wagenknecht sono coloro che non pongono più al centro della propria attenzione i problemi sociali e politico-economici bensì le tematiche relative allo stile di vita, alle abitudini di consumo e ai giudizi morali sui comportamenti.
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