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UE e politiche liberiste. Quale alternativa?
Non c’è solo il razzismo alla radice dell’insofferenza popolare nei confronti della UE e dell’euro
di Marco Elia e Andrea Fioretti
Recentemente un grande regista e attento osservatore dei mutamenti sociali ha dichiarato: “se non sei arrabbiato, che razza di persona sei?”. L’interrogativo posto da Ken Loach è di fondamentale importanza. Coglie, infatti, l’assoluta centralità della questione della diffusione tra le masse popolari dello scontento, della frustrazione e della rabbia per il progressivo peggioramento delle condizioni di vita: la generalizzazione della precarietà, la disoccupazione di massa e le devastanti politiche di austerità sono gli ingredienti della montante insoddisfazione.
Di fronte alla insoddisfazione e rabbia popolare, tuttavia, risulta evidente l’assenza nel dibattito pubblico di un’alternativa reale allo stato di cose presente. E sicuramente una prospettiva di cambiamento reale è assente proprio tra coloro che concretamente rischiano di perdere il lavoro, si ritrovano disoccupati o soffrono per la sempre minore disponibilità dei servizi pubblici essenziali. L’obiettivo di queste brevi note non è certo quello di colmare un tale vuoto di elaborazione. Piuttosto cerchiamo di porre l’attenzione – e stimolare un confronto - su alcuni nodi dell’attuale dibattito a sinistra: un utile punto di partenza ci pare essere l’interpretazione da dare al crescente rifiuto verso le istituzioni comunitarie europee. Il tema è insieme particolarmente importante, complesso e spinoso.
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Seattle, crisi e movimenti
Walden Bello
Il ruolo decisivo dell’azione collettiva nell’indebolire l’ideologia neoliberista e l’attuale potere strutturale del capitalismo. Un articolo di Walden Bello, docente alla State University di New York a Bighamton, senior research fellow al Centro Studi sul Sudest Asiatico dell’Università di Kyoto ed ex membro della Camera dei rappresentanti della Repubblica delle Filippine
Ho ricevuto molte lezioni dalla Battaglia di Seattle, e una di queste è che le poliziotte possono picchiare come un qualunque poliziotto. Sono stato picchiato duramente da una delle migliori di Seattle. Qualche giorno fa ho deciso di ripercorrere il sentiero dei miei ricordi e di visitare la scena del delitto. Ricordo di aver visto Medea Benjamin di Code Pink trattata piuttosto brutalmente e corsi verso di lei per provare a fermare la polizia. A quel punto, una poliziotta si precipitò verso di me e iniziò a picchiarmi col suo manganello, trascinandomi e buttandomi per la strada, con un calcio nel fondo schiena ben assestato come colpo di grazia. Quello non è stato il colpo più forte. Quello lo ha ricevuto il mio ego: meritavo di essere picchiato e preso a calci, ma non di essere arrestato.
Come Cesare, dividerò il mio racconto in tre parti. Innanzitutto, alcune riflessioni su ciò che Seattle significa per il cambiamento delle visioni del mondo. In secondo luogo, una discussione su come, nonostante la crisi del neoliberismo, il capitale finanziario è riuscito a mantenere un potere enorme. In terzo luogo, un appello per una nuova visione complessiva di una società desiderabile.
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La migrazione come rivolta contro il capitale
di Prabhat Panaik
Il fatto che un alto numero di rifugiati, specialmente da paesi che sono stati soggetti negli ultimi tempi alle devastazioni delle aggressioni e guerre imperialiste, stiano tentando di entrare in Europa viene visto quasi esclusivamente in termini umanitari. Per quanto una tale percezione abbia senza dubbio la propria validità, vi è un altro aspetto della questione che è sfuggito del tutto all’attenzione, ossia che per la prima volta nella storia moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al di fuori del controllo esclusivo del capitale metropolitano. Sino ad oggi i flussi migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del capitale metropolitano; ora, per la prima volta, le persone ne stanno violando i dettami, tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a dove vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza essere coscienti delle implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno effettivamente votando coi propri piedi contro l’egemonia del capitale metropolitano, il quale procede sempre sulla base del presupposto che le persone si sottometteranno docilmente ai suoi diktat, anche riguardo a dove vivere.
L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo, nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista inverosimile. Ciò nondimeno è vera.
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Brzezinski e la futurologia
Le profezie autorealizzantesi di Z. Brzezinski
di Alessandra Ciattini
L’anziano ex consigliere alla sicurezza di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski, è sempre sulla cresta dell’onda e continua ad elaborare analisi politiche, che da un lato riflettono le intenzioni dei vertici statunitensi, dall’altro indicano i percorsi da seguire per difendere il ruolo egemonico della superpotenza. In particolare, in un articolo di qualche mese fa, egli riconosce che il dominio globale degli Stati Uniti è in crisi a causa del riemergere della Russia quale attore politico nella scena mondiale e dell’espansione economica e commerciale della Cina. A suo parere, pertanto, bisogna prendere misure adeguate a contrastare tale declino e a impedire un avvicinamento dell’Europa alle potenze emergenti (leggi).
Come è noto, Brzezinski si è sempre dilettato di analisi politiche volte a delineare gli scenari internazionali futuri. In questo breve intervento, mi limiterò ad analizzare brevemente un articolo dell’ex-consigliere, pubblicato nel 1968, dal significativo titolo America in the Technetronic Age(leggi), nel quale egli indica i caratteri della società cosiddetta postindustriale o, se volete, postmoderna. E ciò perché in effetti egli coglie nel segno, anche perché descrive le linee politiche adottate dalla classe dirigente mondiale, a cui era ed è strettamente vincolato.
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Le miracolose trasformazioni della creazione del valore
Una piccola storia
di Richard Aabromeit
«La ripetizione di un atto che
non crea valore, non può mai essere
un atto creativo di valore.»
(Karl Marx, MEW 42)
«Creazione di valore in euro = costi
di produzione, meno pagamenti,
meno ammortamenti, meno imposte indirette,
più sussidi» (Teoria di Economia Aziendale)
La creazione di valore nell'economia capitalista è da circa 400 anni una grandezza fissa, ma è anche un tema ricorrente nelle discussioni di tipo economico, politico, sociale, e perfino morale. Quello che ha cominciato ad essere oggetto di studio nei libri e che ha portato sempre a nuovi libri, oggi viene trasportato e comunicato in gran parte su Internet. Ed ecco che così mi sono imbattuto alcuni mesi fa, mentre navigavo, nel concetto di "creazione di valore digitale", ovvero di "catene di creazione di valore digitale". Così, ora anche il valore, o la sua creazione, la sua produzione, sarebbe andato a finire nella digitalizzazione. Come potrebbe essere "digitalizzata" una categoria astratta? Questo non era immediatamente chiaro - perciò ho fatto una piccola ricerca, per chiarire un po' l'origine di questo neologismo - ed ecco qui la sua breve storia!
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Franco Berardi Bifo
L’epidemia
Nei primi anni del decennio ’80 vivevo nel lower east di Manhattan. Scrivevo articoli per una rivista milanese. Scrivevo della scena new wave o no wave dei locali after punk, sull’arte di strada su Keith Haring e Rammelzee e Basquiat. Nel 1977 la città di New York aveva dichiarato bancarotta: l’industria che aveva dato lavoro e identità alla città ora se ne andava. Quando arrivai a New York interi quartieri erano cimiteri abbandonati, fabbriche deserte trasferite nella Sunbelt, magazzini vuoti. Ma un sindaco lungimirante che si chiamava Ed Koch ebbe un’idea brillante: invitò gli artisti di ogni paese a venire a New York. E quelli vennero a frotte e si misero a ristrutturare quei locali abbandonati, a trasformarli in laboratori di vita indipendente. Musicisti, graffitisti, poeti, ma anche sperimentatori tecnici e sperimentatori esistenziali, affollarono la città per farne una specie di incubatrice del futuro possibile.
Poi venne l’AIDS. Le cose sono sempre più complicate di come le raccontiamo, ma credo che il nucleo più intimo della mutazione digitale stia qui: nel punto in cui la sindrome acquisita di immunodeficienza stravolse la percezione di noi stessi, sconvolse e poi dissolse la comunità che aveva attraversato due decenni di erotica amicizia egualitaria.
La depressione può essere descritta come una condizione in cui l’organismo cosciente perde la capacità di trovare senso nel mondo che lo circonda.
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[TraDueMondi] Il percorso di Vittorio Foa
Teorie ed esperienze di democrazia industriale
Bruno Settis*
Tra gli ostacoli che sbarrano la strada a una comprensione del nostro presente vi è quella visione semplificata, quando non caricaturale, del Novecento, che vediamo condivisa da retoriche diverse – anche schierate su fronti politici opposti: una visione che, in estrema sintesi, lo definisce come il secolo della grande fabbrica, della quale la società, la politica, il sindacato avrebbero riprodotto, specie nel trentennio del compromesso “keynesiano” (“età dell’oro” nello schema del Secolo breve di Hobsbawm), sia la capacità di generare prosperità che la fondamentale rigidità delle strutture. A tale presunta rigidità ci siamo abituati a sentir contrapporre – e abbiamo imparato a diffidarne – l’apparato retorico della flessibilità: del resto, osservava Vittorio Foa più di trent’anni fa, a diventare più flessibili, ideologicamente e politicamente, sono state in primo luogo le classi dominanti, e «proprio perché il nemico storico è diventato così flessibile, dobbiamo riconoscere nella sua flessibilità una serie di finalità di cui non abbiamo nemmeno l’idea.»[1]
Per tagliare questa nebbia di luoghi comuni, quale migliore chiave d’accesso che una figura come quella di Foa? Figura complessa, vasta, che si è contraddetta e ha riflettuto con lucidità su queste contraddizioni – in quello sforzo incessante di trasparenza che costituisce la caratteristica ispirazione dei suoi libri di memorie, ma anche dei suoi testi di storia – capace di contenere moltitudini («uomo plurale» s’intitolava il libro dedicatogli nel 2011 da Luigi Falossi e Paolo Giovannini) o almeno a lungo tesa a dar voce alla «classe operaia», di cui in quegli anni il sindacato e i partiti della sinistra andavano costruendo il linguaggio comune su scala nazionale, la forma organizzata di presa di parola (nei suoi testi ricorrono brani, anche lunghi, tratti dagli interventi di operai e delegati, citati accanto a Marx come vere e proprie autorità sulla vita in fabbrica).
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Manifesto sull’uso
Della necessità di congedarsi da Wittgenstein
Marco Mazzeo
Pubblichiamo un estratto dal libro di Marco Mazzeo, Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso (Quodlibet, 2016). Il tema dell’uso è al centro di un dibattito di grande rilievo filosofico ed etico-politico, che nella crisi odierna è parte di un’interrogazione sulle forme di vita e sui nuovi possibili usi della propria esistenza
«Usi quel sapere per altri fini.
[Del] primo operaismo è un tratto
fondamentale» (Mario Tronti, 2008).
Diversi sono i modi per uccidere l’uso. Mi limito a rammentarne due. Il primo riduce l’uso ad applicazione automatica. A questo modello d’impiccagione ha lavorato con zelo il più autorevole linguista vivente, Noam Chomsky. L’impiego di parole e azioni è semplice performance meccanica, equivalente delle prestazioni organiche di un tubo digerente o di un occhio sensibile a onde luminose. «Uso» significherebbe applicazione di istruzioni genetiche funzionali alla specie, perché gli altri aspetti della questione sono da consegnare al mistero. La nozione fa la figura del cadavere sul tappeto che tutti notano giusto il tempo per schivarne l’ingombro. Si prenda un recente libro-intervista del linguista americano, nonché intellettuale di esplicite simpatie anarchiche. Circa l’uso Wittgenstein avrebbe «evitato il problema»1, poiché si sarebbe concentrato «solo sul modo in cui usiamo il linguaggio [sic!]»2 e non sullo studio dei suoi fondamenti cognitivi e innati. Peccato che poche pagine dopo si affermi che, anche se si trovasse l’operazione ricorsiva fondamentale alla base d’ogni parlare, il problema rimarrebbe: il linguaggio «come viene usato?»3.
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La fine della nostra speranza
“Occidente senza utopie” di M. Cacciari e P. Prodi
Paolo Missiroli
Recensione a: Massimo Cacciari, Paolo Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna, 2016, 141 pp., € 14,00 (Scheda libro)
“Utopico” è un aggettivo oramai con valenza negativa. Qualcosa di utopico è qualcosa di non realizzabile e quindi non realista (aggettivo che ha invece una valenza assiologica positiva). Segno dei tempi? Eppure, ogni moderno ha sentito su di sé la brezza del futuro radicalmente altro, dell’avvenire che si trasforma già sotto i nostri occhi. Ogni moderno ha percepito, da una parte o dall’altra, dal reale che gli stava di fronte o dall’altrove assoluto, un vento forte che soffiava verso un altro tempo, del tutto differente dal presente. Chi non ha mai provato nulla di tutto ciò, non è mai stato moderno. Riflettere oggi sui temi della profezia e dell’utopia, come fanno Paolo Prodi e Massimo Cacciari in Occidente senza utopie, vuol dire riflettere sulla vicenda della modernità e più in generale, se si ha il coraggio di non essere così moderni da pensare quest’incredibile epoca come inrottura radicale con il prima, dell’Occidente tout court. Non vi è Occidente senza profezia, come non vi è modernità senza utopia. Il libro è diviso in due parti: nella prima, Paolo Prodi attraversa la storia dell’ebraismo e del cristianesimo intrecciandola con la storia della modernità dal punto di vista che vi svolgono la profezia e l’utopia.
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Chi ha paura di Virginia Woolf?
di Toni Negri
Che il tema dell’organizzazione sia tornato ad essere cruciale all’interno dei movimenti autonomi (e comunisti), dopo il fallimento dell’esperienza bolscevica e dell’Internazionale comunista e dopo i processi corruttivi e l’usura che hanno investito le organizzazioni socialdemocratiche, dopo la compressione corporativa dell’esperienza sindacale e la rivelazione dell’equivoca natura delle ONG – bene, che il tema dell’organizzazione sia centrale per i movimenti è fuori dubbio. Tema sicuramente di difficile approccio e impervia soluzione – eppure centrale. Anche negli anni ’60-’70, quando il dibattito fu vivacissimo, non si giunse tuttavia ad una soluzione teorica e tantomeno si realizzarono felici esperimenti risolutivi di questo problema. Non voglio qui sicuramente formulare un cervellotico che fare?: qui vorrei solo soffermarmi su un punto che mi sembra blocchi il dibattito e che val la pena di sciogliere per riaprire eventualmente la discussione sull’organizzazione con maggior scioltezza.
1. Nel dibattito politico sull’organizzazione che si è svolto nell’ultimo cinquantennio all’interno dei movimenti, è apparso sovente il timore che gli sforzi teorici ingaggiati per la soluzione del problema, si risolvessero nella fissazione di modelli inadeguati alla temporalità ciclica dei movimenti e ad interpretarne le molteplici figure, gli interessi espressi, i bisogni e i desideri mutevoli o costanti che essi rivelavano.
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Capitalismo 4.0 tra "ascesa dei robot" e maledizione salariale
di Sebastiano Isaia
«Dobbiamo avere paura dell’intelligenza artificiale?», si chiedeva giusto un anno fa Marco Morello su Panorama. La sua risposta aveva quantomeno il merito della chiarezza (ma solo quello per la verità): «Il cinema ci ha cresciuti suggerendoci che sì, dobbiamo avere paura. E tanta. Era diabolica la rete di Skynet che a ritmo esponenziale apprendeva e, presa coscienza di sé, faceva sfaceli in Terminator. Erano spietati assassini gli androidi di Io, robot, indifferenti e immuni alle sacre (per loro) leggi di Asimov. Persino nel recente Lei di Spike Jonze, favola tragica sull’amore che sboccia tra un uomo solitario e un sistema operativo, un’intelligenza artificiale genera dolore. Ferisce il cuore, la mente, oltre che il corpo. Tradisce l’ubriaco disordine dei sentimenti in nome delle logiche rigide, infinite e imperscrutabili dei bit. L’elenco di esempi, in verità, è sterminato. Tanto quanto i nessi tra grande schermo, letteratura e mondo reale sono semplicistici. Ma stavolta il dibattito non è ozioso, non si riduce a un banale esercizio di stile sulle probabili derive del futuro. D’altronde, sulle trappole dello strapotere di computer burattinai, algidi e crudeli si sono espressi negli ultimi mesi i principali artefici della tecnologia che è stata e che verrà». Tuttavia, è anche possibile che «i principali artefici della tecnologia che è stata e che verrà» leggano la realtà in modo distorto, o addirittura «a testa in giù», così da restituirci un mondo invertito, tale che lo strapotere del Capitale ci viene presentato, a noi che abbiamo una conoscenza appena superficiale della materia che essi invece maneggiano con tanta maestria (la cosiddetta Intelligenza Artificiale), come «strapotere di computer burattinai».
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Terrorismo e disagio sociale
di Federico Sollazzo
Il terrorismo è una piaga che l’Europa conosce da tanti anni. È stato ed è di diverse matrici e ha periodi di stallo e di improvvisa ripresa. Al momento stiamo vivendo un suo ritorno di fiamma che probabilmente ci accompagnerà per molto tempo, diventando una nota di cronaca della nostra quotidianità.
Per avere una chance di superamento del tipo specifico di terrorismo col quale oggi abbiamo a che fare è evidentemente necessario comprenderlo nel dettaglio, ma per comprenderlo è preliminarmente necessario porsi nella giusta prospettiva, ovvero in una prospettiva non ideologica.
A tal fine, credo sia superficiale etichettare il terrorismo come l’esito di una ideologia violenta. Pericolosamente superficiale, non solo perché questa definizione è talmente ampia da poter significare tutto e niente, ma soprattutto perché più che un tentativo di comprensione sembra un tentativo di esorcizzazione, ovvero di rimozione dal mondo occidentale di quei due elementi (l’ideologia e la violenza) che invece lo connotano a tutto tondo, attribuendoli a qualcun altro.
Naturalmente, mi riferisco qui al fatto che un’ideologia può essere basata non solo sulla religione; ferita che l’Europa ha già subito con il fondamentalismo cattolico delle crociate e dell’Inquisizione e le varie lotte in senso allo stesso mondo cattolico. Qualsiasi pensiero che parte da premesse inquestionabili, dogmi, è ideologia, e il ruolo del dogma può essere giocato tanto da un dio quanto dal capitalismo, dal consumismo o dalla tecnologia. Quindi, per cercare di vedere le cose da una prospettiva non ideologica è indispensabile partire dalla problematizzazione del nostro punto di vista, da come oggi, sempre più spesso, decifriamo i fenomeni. Possiamo provarci con degli esempi.
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Oltre l'autunno-inverno, oltre il Sì e il No
Tra Monti e la globalizzazione crepuscolare
di Quarantotto
1. Chi ci legge sa che le ragioni del "no" che prevalgono nel dibattito referendario sono in questa sede considerate "periferiche".
PoggioPoggiolini ci aveva dato lo spunto per questa precisazione che sintetizza il punto:
"Le ragioni del NO sono e rimangono un epifenomeno assolutamente equivoco sconfinante nel mainstream di pensiero del "costituzionalismo politico". Basta vedere che molti dei suoi sostenitori si abbandonano:
a) alla promessa di fare una riforma ben più "liberale" e rivoluzionaria, a cui l'attuale sarebbe di ostacolo;
b) all'idea che le oligarchie siano collocate all'interno delle nomenklature dei partiti (!), dimenticando la struttura dei rapporti di forza economica che fa di tali nomenklature solo dei più o meno efficienti esecutori dell'indirizzo politico promanante dall'ordine dei mercati €uropeo (v.dibattito con Bazaar, sopra).
2. Siccome fenomenologicamente i fatti ci danno ragione, il senatore Monti ci fornisce prontamente un'ampia conferma di questo frame, uscendosene con un discorso a favore del "no" che ci ha già dato modo di dibattere nei commenti all'ultimo post.
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Teoria radicale, lotta di classe (e terrorismo)
Wolf Woland
Eccolo, lo scritto più misconosciuto, introvabile e teoricamente rilevante sul «Maggio strisciante» italiano ed europeo. Pubblicato all'inizio degli anni ‘80 del secolo scorso, e apparso come una sorta di lunga postfazione alla ristampa dell'opuscolo Terrorismo o rivoluzione di Raoul Vaneigem, esso non ha goduto delle numerose ristampe più o meno «clandestine» toccate a quest'ultimo e, col senno di poi, si può dire che ben difficilmente poteva essere altrimenti: uscito troppo presto e condito di tesi troppo spigolose, Teoria radicale lotta di classe (e terrorismo) non poteva che risultare indigesto al pubblico al quale era indirizzato, finendo abbastanza presto nel dimenticatoio – non prima di rivelarsi intollerabile anche a colui che ne era stato l'autore.
Cionondimeno, esso resta l'unico testo apparso in Italia da quarant'anni a questa parte, che abbia realmente tentato un bilancio non politico o, peggio, «culturale», ma schiettamente teorico, del periodo 1968-’77. Certo, l'«offerta editoriale» nostrana, al riguardo, trabocca di proposte, ma è curioso constatare sino a che punto la facciano da padrone due particolari sottogeneri letterari (talvolta sconfinanti l'uno nell'altro): da un lato, la copiosa memorialistica partorita dai cosiddetti «protagonisti dell'epoca», che – al di là delle eventuali pregiudiziali in materia di pentitismo e dissociazione – il più delle volte, non fosse per la marca di autenticità (vera o presunta) delle vicende narrate, non si distinguerebbe in nulla dai tanti romanzetti di formazione sul tema: «ah, che simpatiche canaglie eravamo da giovani!»;
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Viva il nazionalismo democratico
Contro l'ideologia dello stato federale europeo
di Enrico Grazzini
Ebbene sì, lo confesso: sono un convinto nazionalista! La grande maggioranza dei politici e degli intellettuali invoca più Europa per uscire dalla crisi in cui l'Unione Europea è precipitata: chiede una Europa federale perché teme il ritorno dei nazionalismi nel vecchio continente. Per combattere il risorgere degli spettri del nazionalismo molti (soprattutto a sinistra) chiedono più UE e più federalismo. A mio parere la rottura dell'eurozona prima o poi è inevitabile e la UE dell'euro è entrata in coma politico. Occorre allora innanzitutto difendere decisamente l'interesse nazionale. E introdurre anche forme di autonomia monetaria.
La battaglia contro lo sciovinismo e la xenofobia è sacrosanta e la minaccia è purtroppo tanto reale quanto pericolosa. Credo però che siano proprio le politiche liberiste e neo-colonialiste della UE ad alimentare il peggior nazionalismo, a gettare benzina sul fuoco del populismo. E' la feroce e inutile austerità dell'euro che genera, per reazione difensiva, il nazionalismo esasperato. E quindi penso che occorra contrastare apertamente l'Unione Europea, la moneta unica per 19 diversi Paesi, e l'ideologia federalista che legittima la UE e l'eurozona, la sostiene e la promuove.
Il sogno federalista degli Stati Uniti d'Europa è condiviso in Italia da un ampio schieramento, che va dalla Confindustria ai sindacati, da settori del centro-destra al centro-sinistra e alla sinistra:
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Presidenziali USA: lo scenario peggiore
di Spartaco A. Puttini
Gli Stati Uniti si avviano alla fase terminale dell’esperienza costituita dall’Amministrazione Obama.
Questa è di per sé una buona notizia. Finalmente si assisterà alla fine del mito obamiano, dell’obamamania, che hanno imperversato sul mainstream nel tentativo di accreditare un imperialismo americano dal volto umano. Tentativo che col tempo è andato progressivamente appannandosi anche per quelle opinioni pubbliche occidentali che erano il target principale di questa vasta campagna di cosmesi politica e travisamento della realtà. Gli eventi degli ultimi mesi sottolineano che molte maschere sono cadute nel corso dei due mandati del presidente “nero”. Gli Usa hanno continuato a condurre con determinazione la corsa agli armamenti, aumentando la pressione su entrambi i fianchi del continente eurasiatico contro i loro antagonisti: Russia e Cina. Hanno legittimato il rovesciamento dei legittimi presidenti di Honduras, Paraguay e Brasile e assistito al suicidio argentino, per tacere dell’impegno profuso nella destabilizzazione del Venezuela. Tasselli che disegnano un tentativo complessivo di rimettere il guinzaglio all’America Latina. Hanno appoggiato un putsch nazista in Ucraina per lacerare i rapporti tra questo stato ex-sovietico e la Russia (e tra la Russia e l’Europa) con un’operazione molto ardita. Un bel colpo.
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Che cos’è la Decrescita
Uno sguardo disincantato su una proposta interessante
di Massimo Maggini
Questo articolo è stato scritto nel 2008, al momento dell’uscita in Italia del testo di Serge Latouche Breve trattato sulla decrescita serena. Ho pensato di riproporlo perché trovo sia ancora attuale, anzi, lo sia forse più ora di prima. Anche il libro menzionato, che può essere considerato una sorta di “pamphlet” capace, mi pare, di illustrare in maniera esauriente e chiara i capisaldi del pensiero della decrescita, è un libro tuttora utilissimo per chi sia veramente interessata/o ad un confronto “sereno” e possibilmente produttivo con questa teoria.
La decrescita, talvolta acclamata, viene più spesso ostacolata e avversata, anche e forse soprattutto a sinistra, compresa quella radicale – che dovrebbe, a mio avviso, essere invece il suo referente naturale. I motivi di questa avversione sono molti, ma possono farsi essenzialmente risalire al seguente: la decrescita sarebbe un “pensiero borghese”, o meglio un ultimo colpo di coda di questo pensiero, che prova a recuperare il malcontento e la crisi incanalandoli verso sentieri compatibili col sistema.
Con questo articolo, provo a dimostrare non solo che non è vero, ma che è di fatto impossibile. La decrescita, con il suo insistere sull’assurdità della “crescita” (“accumulazione”, in un altro linguaggio), in favore di una società egualitaria, post-consumista, conviviale, dove si riprenda un rapporto con la natura fondato sull’incanto e la co-appartenza invece che sul disincanto e sull’oggettivazione (presupposti fondamentali, questi ultimi, per la trasformazione in merce della natura in vista del suo sfruttamento economico), può invece rappresentare un efficacissimo grimaldello per mettere in discussione i fondamenti su cui poggia la spaventosa società del capitale – fondamenti che stanno comunque già crollando da soli, lasciando uno sconcerto che ha bisogno di essere compreso e affrontato con una certa urgenza.
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Guerra di oggi, guerra di domani
Una recensione a Domenico Moro
Mimmo Porcaro
Due sono i meriti maggiori del bel volume che Domenico Moro ha dedicato a quello che viene oggi presentato come conflitto tra “Occidente” e “Islam” (La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016). Il primo è quello di essere un efficace strumento per ricostruire ragioni e forme del conflitto e per iniziare a comprendere, attraverso le opportune distinzioni, quel mondo dell’islamismo che viene quasi sempre descritto come un compatto blocco di atteggiamenti conservatori e reazionari, espressione di un arretratezza economica e politica che l’Occidente è ovviamente candidato a redimere. Il secondo è quello di ribadire con nettezza l’interiorità di questo conflitto alla strategia bellicista dell’Occidente e la necessità della guerra nel mondo dominato dal capitali.
Stagnazione secolare, caduta del saggio di profitto, conseguente necessità di trovare nuovi e più remunerativi sbocchi all’esportazione di merci e (soprattutto) di capitale, sono le tendenze economiche generali che stanno alla base delle guerre oggi condotte dall’Occidente: tendenze la cui natura fa dire a Moro che ben presto le proxy wars (ossia le guerre indirette, limitate e per procura) non saranno più sufficienti a garantire quella distruzione di capitale che sarebbe necessaria a far ripartire l’accumulazione, e che quindi “soltanto una guerra dispiegata tra grandi potenze” (p.127) potrà fornire una (presunta) soluzione.
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Non solo App. Dietro le start up c’è la forza lavoro
di Roberto Ciccarelli
Le piattaforme dei servizi on-demand – la cosiddetta gig economy, l’economia dei «lavoretti» – stanno scoprendo l’esistenza dei lavoratori. Questa estate gli autisti di Uber in Inghilterra hanno portato l’azienda davanti al tribunale del lavoro, come i loro colleghi americani. I bikers di Deliveroo hanno protestato a Londra e Parigi contro il piano dell’azienda di spostarli da un pagamento a ora a un altro a consegna. Nella filiale italiana della tedesca Foodora a Torino, i fattorini in bicicletta hanno chiesto un contratto a part-time verticale, il riconoscimento di un salario minimo orario più il costo della consegna.
Come per gli autisti di Uber, anche sulle spalle dei riders grava il costo dell’attrezzatura con cui lavorano: nel primo caso le spese per la macchina e l’assicurazione sono a carico degli autisti, nel secondo i fattorini acquistano la bicicletta e pagano le spese dello smartphone. Se cadono, fanno un incidente o si ammalano, non sono coperti. Se non lavorano, non hanno un sussidio di disoccupazione. Se non rispondono a una chiamata, hanno una valutazione negativa dall’algoritmo e possono essere allontanati dalle zone dove c’è richiesta dei clienti, guadagnando ancora meno.
QUESTO MODELLO È LA FRONTIERA del cottimo digitale, un taylorismo 2.0, l’estremizzazione della prestazione job-on call: non si paga per il tempo che dai, ma per i lavori che fai.
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Noi possiamo osare
Il tempo dello sciopero sociale transnazionale è ora
Dal 21 al 23 ottobre si svolgerà a Parigi il secondo meeting della Transnational Social Strike Platform. L’incontro avrà luogo a tre settimane di distanza dallo sciopero delle donne polacche contro la proposta di riforma della legge sull’aborto e a pochi mesi dalla grande sollevazione francese contro la loi travail e il suo mondo. In entrambi i casi lo sciopero è andato ben oltre la pratica istituzionalizzata nell’iniziativa sindacale. Esso è stato politicamente più significativo della momentanea rottura di un rapporto di forza nei luoghi di lavoro. I primi grandi scioperi francesi contro la riforma si sono riversati nelle strade e nelle piazze coinvolgendo milioni di persone, rifiutando il brutale dominio sul presente e sul futuro di intere generazioni. Lo sciopero in Francia è stato sociale perché ha connesso segmenti altrimenti separati del lavoro vivo investiti dalla loi travail e dall’austerità europea. Le donne polacche hanno mostrato che la parola d’ordine dello sciopero mantiene il suo potentissimo richiamo anche al di fuori dei luoghi di lavoro. La rivendicazione della libertà di aborto non ha soltanto prodotto grandi manifestazioni di piazza e la forzatura dei limiti imposti dalla legislazione sullo sciopero. Essa ha ridefinito le posizioni individuali e messo in discussione le gerarchie sessuali e sociali, stabilendo le connessioni che hanno portato così tante donne e molti uomini a esprimersi contro un modo complessivo di governare che non riguarda solo la società polacca. Lo sciopero in Polonia non è stato sociale perché ha difeso un diritto più o meno universale, ma perché la rivolta di una parte della società ha fatto valere una differenza contro un ordine complessivo dei rapporti sociali e sessuali.
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Note su potere e resistenza
di Federico Zappino
In La vita psichica del potere, Butler scrive: “Il ricorso all’affermazione che il soggetto sia attaccato appassionatamente alla propria sottomissione [viene] invocato – spesso cinicamente – da coloro che tentano di minimizzare la portata delle rivendicazioni degli oppressi”[1]. Si tratta di un’affermazione che leggo come un modo inequivocabile di stabilire delle differenze tra i vari modi di invocare quella prospettiva secondo la quale tra il soggetto e il potere vi sarebbe una relazione di necessaria, e dialettica, dipendenza. Di per sé, infatti, potrebbe essere invocata da chiunque, per qualunque scopo, e innanzitutto per scopi di giustificazione e di normalizzazione di ogni forma di “sottomissione” degli “oppressi”.
Dirimente, al contrario, è osservare che, per poter compiere questa affermazione Butler debba innanzitutto dare per scontata 1) l’idea che il “potere” possa essere “sottomissione”, e che i “soggetti” possano essere “oppressi”; 2) che gli oppressi pongano in essere delle rivendicazioni finalizzate alla liberazione dalla sottomissione; 3) che la portata di quelle rivendicazioni di liberazione degli oppressi dalla sottomissione si trovi a essere minimizzata – “spesso cinicamente” – dalla strumentalizzazione di una teoria secondo la quale gli oppressi sarebbero necessariamente dipendenti o appassionatamente attaccati a quella sottomissione dalla quale pure vorrebbero, vanamente, liberarsi.
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Il cupo futuro del capitalismo
di Wolfgang Streeck
Diversi autori si interrogano, da diverse prospettive, sul futuro del capitalismo. Fra quelli che mantengono una posizione scettica riguardo alla sua possibile sopravvivenza oltre il 21° secolo - o perfino per i prossimi 30 o 40 anni - non si possono dimenticare István Mészáros, Immanuel Wallerstein e Robert Kurz.
Tuttavia, questo post vuole raccomandare la lettura di Wolfgang Streeck, un interessante sociologo tedesco, che pensa a partire da Karl Marx, ma, soprattutto, a partire da Karl Polanyi. La sua tesi centrale è che il neoliberismo, nello spingere verso la competizione come modo di vita, nel trasformare l'individuo in imprenditore di sé stesso, nel mercificare tutte le sfere della vita sociale, mina inesorabilmente le basi morali e sociali dell'integrazione degli esseri umani nella società. Dal momento che l'esistenza del capitalismo dipende da tali basi - ereditate dalle generazioni passate, ma ora violentemente depredate - il tentativo di salvarlo attraverso l'intensificazione neoliberista, porterà, secondo lui, alla sua progressiva disintegrazione. E questa dissoluzione potrà eventualmente essere accompagnata dalla fine dell'umanità stessa.
Si vuole fornire qui la traduzione di un testo che sintetizza un in intervento di Streeck, del 2010, nel corso dell'incontro annuale della “Society for Advancement of Socio-economics” (SASE), nel corso del quale diversi autori hanno discusso intorno alla domanda chiave: "Il capitalismo ha un futuro?"
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Il manifesto è attaccato al muro e si trova lì già da un bel po' di tempo; siamo noi che dobbiamo saperlo leggere.
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L’algoritmo della precarietà, il caso Foodora
Arianna Tassinari, Vincenzo Maccarrone
Lo sciopero dei fattorini di Foodora ricorda quanto avvenuto questa estate a Londra, dove a scioperare sono stati i lavoratori di Deliveroo e UberEats. La gig economy, tra riproposizione del “vecchio” e elementi di novità
Sabato 8 ottobre una cinquantina di lavoratori di Foodora, impresa attiva nel settore della consegna cibo tramite fattorini in bicicletta, sono scesi in piazza a Torino per protestare contro le condizioni di lavoro imposte dall’azienda. La vicenda ha avuto molto risalto mediatico e diversi quotidiani hanno parlato dell’azione dei lavoratori di Foodora come del primo sciopero in Italia della cosiddetta sharing economy.
Questa terminologia è però scorretta. Si parla solitamente di sharing economy in riferimento all’attività di aziende come Blablacar o Aibnb, che operano tramite piattaforme online che hanno essenzialmente la funzione di mettere in rete compratori di servizi e venditori che ‘condividono’ un loro bene, come la propria auto o la casa. Diverso è invece il caso di imprese come Foodora o Deliveroo: queste compagnie offrono un servizio di consegna cibo dai ristoranti agli utenti, utilizzando lavoratori che danno la propria disponibilità in precise fasce orarie tramite una applicazione per smartphone. L’unico elemento in comune tra i due tipi di attivitá é il fatto che basano le proprie operazioni su piattaforme digitali, ma la somiglianza finisce qui. L’uso di una app per intermediare la domanda e l’offerta di servizi e consumi e per gestire l’allocazione delle prestazioni lavorative accomuna dunque Foodora e Deliveroo ad altre piattaforme digitali di ‘micro-lavoro’, come Uber, MechanicalTurk o Task Rabbit, che ben poco hanno a che fare con l’idea di ‘condivisione’. In questo caso si tende perciò a parlare di gig economy, o “economia dei lavoretti” (gig).
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Siria: chi sono i criminali di guerra
di Domenico Losurdo
In questi giorni una sistematica campagna di disinformazione di cui sono protagonisti in particolare USA, Gran Bretagna e Francia, bolla quali «criminali di guerra» Assad e Putin. È la preparazione multimediale dell’ulteriore scalata dell’aggressione contro la Siria a cui mirano Obama (appoggiato e stimolato da Hillary Clinton) e gli alleati e vassalli di Washington. Per chiarire chi sono i veri criminali di guerra riporto (con nuovi sottotitoli) quello che ho scritto in miei due recenti libri (La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, 2014; Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, 2016), basandomi per altro su fonti esclusivamente occidentali. La scalata a cui si prepara l’imperialismo potrebbe avere conseguenze tragiche per la pace mondiale. È per sventare questo pericolo che occorre mobilitarsi sin d’ora (DL)
1. Guerra civile o aggressione degli USA (e di Israele)?
Prima di essere travolta dalla catastrofe che continua a infuriare mentre io scrivo, la Siria era considerata un’oasi di pace e di tolleranza religiosa in particolare dai profughi irakeni che a essa approdavano in fuga dal loro paese, investito dagli scontri e dai massacri di carattere religioso e settario nei quali era sfociata l’invasione statunitense. Cos’è avvenuto poi? È scoppiata una guerra civile per cause del tutto endogene? In realtà, prima ancora della seconda guerra del Golfo, i neoconservatori chiamavano a colpire la Siria che ai loro occhi aveva il torto di essere ostile a Israele e di appoggiare la resistenza palestinese (Lobe, Oliveri 2003, pp. 37-39).
Di questo progetto di vecchia data si sono subito ricordati gli analisti più attenti che si sono occupati dei più recenti sviluppi della situazione: già da un pezzo la Siria era stata inserita dai neoconservatori nel novero dei paesi «considerati un ostacolo alla ‘normalizzazione’» del Medio Oriente; «nell’ottica dei neoconservatori, se gli Stati Uniti fossero riusciti a provocare un cambio di regime a Baghdad, Damasco e Teheran, la regione, soggetta ormai all’egemonia congiunta degli Stati Uniti e di Israele, sarebbe stata finalmente ‘pacificata’» (Romano 2015, p. 74). Peraltro, un anno prima che la «Primavera araba» raggiungesse la Siria – ammette o si lascia sfuggire il «New York Times» – «gli USA erano riusciti a penetrare nel Web e nel sistema telefonico» del paese.
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La redistribuzione non basta, va affrontato il nodo della produzione della ricchezza
di Domenico Moro
1. Il capitale non è più fattore di crescita ma di distruzione delle forze produttive della società
Nella presente fase storica di accumulazione capitalistica la questione centrale non è più soltanto quella della redistribuzione “equa” della ricchezza prodotta, classico tema della politica socialdemocratica, e della redistribuzione del lavoro (riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario), storico cavallo di battaglia del movimento operaio. Il perseguimento di questi due importanti temi, così come quello della inclusione dei migranti nella società europea, non può prescindere dall’affrontare il tema della produzione della ricchezza e quindi dei rapporti di produzione e del rapporto sta Stato e economia, che diventano la priorità e il tema centrale della lotta politica per una sinistra che voglia essere di classe e adeguata alle condizioni della realtà.
La crisi, iniziata nel 2007/2008 e ancora in corso, è di natura e profondità diversa rispetto a quelle che si sono verificate ciclicamente dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Si tratta di una crisi che è manifestazione di una sovraccumulazione di capitale (cioè di un eccesso di investimenti di capitale sotto forma di mezzi di produzione) assoluta e senza precedenti. Tale crisi è irrisolvibile nell’ambito dell’attuale quadro di rapporti economici e politici se non mediante massicce distruzioni di capacità produttiva e capacità lavorative, che possono arrivare fino alla guerra. Come ho cercato di spiegare più ampiamente nel mio libro “Globalizzazione e decadenza industriale.
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