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La deriva della politica costituzionale
di Ida Dominijanni
C’è un tratto poco sottolineato della retorica renziana che consiste nel ricondurre a necessità storica, quando non a dato naturale, ciò che è invece oggetto di scelte politiche soggettive e contingenti. È un tratto importante, perché sintomatico di una contraddizione, e probabilmente di una debolezza, dell’ideologia dell’attuale classe di governo: l’appello ripetuto alla necessità urta infatti visibilmente con le pretese decisioniste del presidente del consiglio e del suo inner circle. Ed è in compenso del tutto organico – a onta della missione “rivoluzionaria” che il renzismo si attribuisce - alla razionalità neoliberale e alla naturalizzazione dell’esistente che essa sottintende e persegue.
In questo intervento vorrei cercare di mostrare come questo circolo vizioso fatto di appello alla necessità, naturalizzazione dell’esistente e retorica rivoluzionaria abbia agito e stia agendo nella propaganda della riforma costituzionale.
A un certo punto dell’iter parlamentare della legge che porta il suo nome, la ministra Boschi l’ha glorificata come la riforma che gli Italiani “aspettavano da 70 anni”: ovvero, a essere precisi, da tre anni prima che la Carta del 1948 venisse promulgata. Giova tornare sull’episodio, perché raramente una sola frase riesce a condensare una tale capacità performativa di falsificazione del passato e di manipolazione del presente e, nei programmi della ministra, del futuro.
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Il fatto che il capitale abbia dei limiti, non significa che collasserà
Agon Hamza & Frank Ruda intervistano Moishe Postone
Hamza & Ruda: Il tuo lavoro stabilisce una cruciale distinzione fra la critica del capitalismo dal punto di vista del lavoro e la critica del lavoro nel capitalismo. La prima implica una descrizione trans-storica del lavoro, mentre la seconda pone il lavoro come una categoria coerente - capace di "sintesi sociale" - del modo capitalista di produzione. Tale distinzione richiede che venga abbandonata ogni forma di descrizione ontologica del lavoro?
Moishe Postone: Dipende da cosa si intende per spiegazione ontologica del lavoro. Questo ci spinge ad abbandonare l'idea che ci sia, in maniera trans-storica, uno sviluppo progressivo dell'umanità che avviene per mezzo del lavoro, che l'interazione umana con la natura, in quanto mediata dal lavoro, sia un processo continuo che ci porta a continui cambiamenti. E che il lavoro sia, in tal senso, una categoria storica centrale.
Attualmente, questa posizione è più vicina ad Adam Smith che a Marx. Io penso che la centralità del lavoro rispetto a qualcosa che viene chiamato sviluppo storico può essere posta solamente per il capitalismo e non per qualsiasi altra forma di vita sociale umana.
D'altra parte, penso che si possa mantenere l'idea che l'interazione umana con la natura è un processo di auto-costituzione.
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Produttività del lavoro e precarietà: il circolo vizioso dell’economia italiana
di Andrea Fumagalli
Una risposta ad Alberto Alesina e a Francesco Giavazzi
Sul Corriere della Sera del 21 novembre 2016, Alesina e Giavazzi tornano a colpire per ribadire la necessità di politiche neoliberiste e per dar man forte al governo Renzi, lodando la riforma del mercato del lavoro targata Jobs Act.
Lo spunto è di estrema attualità e riguarda lo scarso trend della produttività oraria del lavoro in Italia, soprattutto se comparato a quello degli altri paesi europei e Usa.
Come scrivono i due autori: “In un ventennio la produttività oraria nelle aziende italiane è cresciuta in tutto del 5 per cento. Negli Stati Uniti, nel medesimo periodo, otto volte di più: 40 per cento. In Francia, Gran Bretagna e Germania sei volte di più. Anche Spagna e Portogallo hanno fatto meglio: + 15 per cento in Spagna, tre volte più che noi, e + 25 per cento in Portogallo, cinque volte di più”.
Alesina e Giavazzi forniscono spiegazioni per tale deludente risultato. Un risultato che di per sé, dal momento che la produttività oraria, se riferita al solo fattore produttivo lavoro, è un indicatore del tasso di sfruttamento, non sarebbe del tutto negativo, se fosse derivato da un rallentamento dei ritmi e da migliori condizioni lavorative. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che non è così. Anzi, in Italia negli ultimi anni, lo sfruttamento è aumentato, sino a diventare più pervasivo e ad avvolgere parti crescenti del tempo di vita e non solo quello di lavoro.
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L’euro e il rischio Trump nell’Unione
Antonio Lettieri
Prima la Brexit, poi l'elezione di Trump ci dicono che l'"imprevedibile" può verificarsi, specie quando dilaga lo scontento per politiche economiche a vantaggio solo di pochi. Nel 2017 voteranno due (e forse anche noi) paesi importanti, e tutto può accadere. La crisi dell'euro merita una riflessione laica, aperta a diversi scenari possibili
Dopo la vittoria di Donald Trump non solo ci si deve interrogare sulle ragioni del suo imprevisto successo in America, ma anche su quale lezione se ne possa trarre per l’Unione europea. Si tratta evidentemente di situazioni politiche non sovrapponibili. Eppure, non ostante tutte le differenze, gli scenari presentano intriganti punti in comune. Innanzitutto, la crisi economica che in modi diversi ha toccato le due sponde dell’Atlantico; poi la crisi dei tradizionali assetti politici.
Gli stati Uniti e l’Europa sono stati entrambi colpiti dalla Grande recessione. Con una differenza fondamentale. L’America di Barack Obama ha ripreso a crescere in tempi relativamente rapidi e già nel 2014 il reddito nazionale aveva superato quello antecedente alla crisi. La disoccupazione giunta al 10 per cento al culmine della crisi è stata ridotta al 4,9 per cento. Il contrario si è verificato nell’Unione europea e, in particolare, nell’eurozona dove la crisi ha avuto effetti devastanti.
Il confronto fra le politiche adottate per rispondere alla crisi mostra tutta l’assurdità della combinazione di austerità e riforme strutturali adottate nell’Unione europea sotto l’egida della Commissione europea con la complicità degli stati membri dell’eurozona. L’austerità ha bloccato la crescita, portato a livelli esplosivi la disoccupazione e accresciuto il debito pubblico che era finalizzata a ridurre. Le riforme strutturali hanno aggredito le conquiste sociali che avevano caratterizzato la democrazia europea del vituperato Novecento: una politica reazionaria definita, con un’ipocrita torsione del linguaggio politico,“riformista”.
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Referendum, spread, crisi bancaria, OMT, Memorandum e... la grande tranvata
di Quarantotto
1. Ooops! Fanno una scoperta...
ALLARMISTI PER IL SÌ - Ft: "Se vince il No, Italia fuori da euro". Confindustria: "Si fermano investimenti". Ma per Nyt il problema è un altro
Naturalmente non spiegano bene perché il referendum si colleghi all'uscita dall'euro dell'Italia.
Anzi, dicono che per il New York Times "il problema sarebbe un'altro" (come vedremo): non il referendum in sé, ma le sofferenze creditizie in Italia, cioè, l'Unione bancaria che, (ma si ostinano a non voler unire i puntini), coincide con l'euro.
E ciò in quanto l'Unione bancaria è il meccanismo assicurativo dei Paesi creditori all'interno di un sistema in cui le insolvenze diffuse sono la conseguenza degli strumenti di correzione degli squilibri commerciali determinati dalle svalutazioni competitive tedesche, poste in essere in violazione dei trattati, ma tollerate dalle istituzioni €uropee...
E tollerate, anzi avallate, in quanto soggette all'indirizzo politico imposto dal paese che ha vinto la guerra commerciale che l'euro era programmato ad innescare: secondo la previsione della "economia sociale di mercato fortemente competitiva".
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I confini del populismo
Su Laclau e le ambivalenze di un significante vuoto
Francesco Festa
1. Una cosa appare certa. Comunque si fissino i confini del populismo, sta di fatto che le sue manifestazioni si vanno particolarmente moltiplicando. Come quel mito che tagliata una testa ne appare un’altra, e un’altra ancora; oppure come tutti gli incubi della borghesia, quel fantasma che non si riesce ad acciuffare e si aggira terrorizzando la pace sociale. Metafore a parte, di populismo e di partiti populisti, in realtà, si è ricominciato a parlare all’incirca un trentennio fa, anche se è con il cronicizzarsi della crisi e con l’indebolimento dell’Unione Europea che si è imposto come termine più attentamente monitorato dai media e tema più aspramente dibattuto dagli studiosi di scienza politica. E la sua origine e la sua definizione restano tuttavia un rompicapo irrisolto: se non ricorrendo a spiegazioni che non ne sciolgono la questione dei confini. Tanto è vero che l’etichetta populista viene usata per il Front National di Le Pen, l’UK Independence Party di Farage e la Lega di Salvini; un po’ meno per il Movimento Cinque Stelle, mentre, in altro versante, viene utilizzata per i movimenti anti-austerity come Podemos o Syriza.
Quali sono, dunque, i confini del populismo? Che essi siano a geometria variabile, in base al posizionamento, si muovono comunque all’interno di un piano costituzionale.
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Questioni di confine: l'umano e la macchina, il postumanesimo e il conflitto sociale
Adriana Perrotta Rabissi e Franco Romanò
Questo articolo è composto da due parti, la prima che riguarda il tema del confine tra umano e macchina, di Adriana Perrotta Rabissi, la seconda che riguarda postumanesimo e conflitto sociale di Franco Romanò
I parte
Nei tre saggi che compongono il Manifesto Cyborg Donna Haraway indaga il rapporto tra scienza tecnologia e identità di genere. In contrasto con le posizioni essenzialiste di parte del femminismo adotta la metafora del Cyborg come figura in grado di sovvertire l’ordine del discorso patriarcale e mettere in crisi l’epistemologia maschile.
In the three essays composing the Cyborg Manifesto Donna Haraway investigates the relationship between science technology and gender identity. In opposition to the essentialist positions taken by part of the feminist movement,she takes cyborg metaphor as a figure able to subvert the order of speech and consequently putting in crisis male epistemology.
* * * *
Preferisco essere cyborg che dea (Donna Haraway)
di Adriana Perrotta Rabissi
Negli anni Novanta del secolo scorso Donna Haraway, filosofa e biologa statunitense, che si dichiara socialista e femminista, si è interrogata sul rapporto scienza, tecnologie e identità di genere e ha scritto tre saggi pubblicati in italiano nel libro, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie, e biopolitiche del corpo, Introduzione di Rosi Braidotti, Feltrinelli, Milano, 1995.1
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Trump, risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione
di Domenico Moro
1. Populismo o alternanza nella democrazia oligarchica?
La vittoria di Trump è stata vissuta come uno shock in tutto lo spettro politico. La stragrande maggioranza delle interpretazioni aderiscono alla medesima visione: Trump sarebbe l’espressione statunitense della ventata populista che sta imperversando nei Paesi avanzati e di cui sono esempio anche Brexit e l’affermazione elettorale di partiti e movimenti populisti in tutta Europa. Si va dalle posizioni che paventano l’affermazione di un nuovo fascismo a quelle che vedono nella vittoria di Trump un segno anti-establishment. Secondo questa visione, Trump ha vinto perché avrebbe raccolto il voto degli esclusi mentre la Clinton ha perso perché rappresentante del capitale globalizzato e di Wall Stret.
In primo luogo, va precisato che Trump ha vinto solo in virtù del sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sul sistema dei grandi elettori e in un contesto in cui vota poco più della metà degli aventi diritto. La Clinton, secondo gli ultimi conteggi, avrebbe un vantaggio, in termini di voto popolare, di oltre 2 milioni di voti1. In secondo luogo, per essere una ipotesi che terrorizzava Wall Street e per essere Clinton la beniamina dei mercati finanziari, come titolava il Sole24ore2, la Borsa di New York ha reagito in modo ben strano alla vittoria di Trump.
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Referenzum: Costituzione e interessi di classe
di Italo Nobile
La questione del referendum del 4 Dicembre andrà affrontata sotto diversi aspetti: da un punto di vista del contenuto più strettamente giuridico, da un punto di vista più complessivamente politico e dal punto di vista del rapporto con l’analisi di classe propria dei comunisti.
Una prima operazione di carattere più generale sarà quella di liquidare una serie di luoghi comuni retorici al riguardo, ovvero che il paese aspettava una riforma da trent’anni, che la costituzione va adeguata ai tempi, che opporsi ad essa significhi essere conservatori. Ebbene a questi luoghi comuni ha risposto anche il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, ma credo che basti contro di essi un solo argomento. Quantunque sia vero che ci sia bisogno di una riforma (e anche questo andrebbe argomentato), il problema è che la riforma necessaria potrebbe non essere questa. Dunque la discussione dovrebbe riguardare proprio questo punto e perciò gli argomenti di questo tipo senza una discussione del genere non hanno senso.
Una seconda operazione di carattere preliminare riguarda la tendenza propria di noi comunisti a dire che quella italiana non sia “la costituzione più bella del mondo” e che essa ha comunque permesso la legislazione antisociale degli ultimi anni per cui non vale la pena soffermarsi sulla riforma in sé ma sul contesto politico in cui essa è inserita.
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Omaggio a Fidel
di Lia De Feo
Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo.
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Hasta siempre Comandante!
Intervista a Luciano Vasapollo
A poche ora dalla morte del Comandante Fidel Castro, rivolgiamo alcune domande a Luciano Vasapollo, dirigente della Rete dei Comunisti e da molti anni responsabile del lavoro di solidarietà con i popoli dell'America Latina e delle relazioni politiche e scientifiche con i governi e le forze rivoluzionarie di 'Nuestramerica'.
* * * *
Rdc – Come potremmo definire in poche parole il Comandante Fidel Castro?
LV – Fidel Castro è una figura che ha fatto la Storia, con la S maiuscola, dell'autodeterminazione dei popoli, combattendo sempre contro quelli che pensavano di poter fare del mondo un loro enorme impero economico.
Grazie alla sua fiducia profonda nella democrazia socialista, Fidel Castro è stato capace di gestire il governo popolare per tutti e 57 gli anni successivi al trionfo della Rivoluzione a Cuba.
Dall'inizio della Rivoluzione, della creazione dello Stato Socialista a Cuba l'isola ha vissuto importanti conquiste rivoluzionarie: la riforma agraria, la redistribuzione delle terre; la nazionalizzazione dei settori strategici come quello della canna da zucchero e delle raffinerie; la riforma culturale a favore dell'istruzione popolare.
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La matrice che ci imprigiona
di Alberto Micalizzi
Siamo imprigionati all’interno di un quasi-mercato manipolato ed etero-diretto da conglomerate ed istituzioni finanziarie il cui obiettivo di fondo è di appropriarsi di risorse dell’economia reale, attualmente di proprietà degli Stati, delle famiglie e delle imprese (vedi mio articolo “Da modelli di sviluppo a meccanismi di appropriazione”).
Ma chi tira le fila di questo sistema? Chi sono i burattinai?
L’architrave del sistema poggia su poche grandi conglomerate definibili come “super-entità” per la forza d’urto, per la trasversalità settoriale e la transnazionalità della sfera d’azione. Tra queste, vale la pena citarne almeno quattro.
• BlackRock, posseduta principalmente da Merrill Lynch (al 49,8%), a sua volta posseduta da Barclays, State Street Corporation, Axa, Vanguard Group e altri. BlackRock gestisce direttamente oltre $5.000 miliardi di capitali, pari a quasi la metà del PIL di tutta l’Eurozona (!).
• The Vanguard Group Inc., posseduta per l’86% da hedge funds tra cui Price Associates, BlackRock e Credit Suisse, con $3.000 miliardi di capitali in gestione (il doppio del PIL italiano).
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Il rischio del "frontismo" e una svolta nella comunicazione politica
Intervista a Carlo Formenti sul voto Usa
Abbiamo intervistato Carlo Formenti, sociologo, giornalista, scrittore e militante della sinistra radicale, sulle prospettive che derivano dalle recenti elezioni presidenziali USA, soffermandoci su alcune delle particolari tematiche emerse durante il processo elettorale: dai cambiamenti nel rapporto tra comunicazione e comportamento elettorale, alla questione del populismo in salsa Trump, passando per la fase di messa in discussione dell'appeal del concetto di "stabilità" e della divaricazione tra democrazia e capitalismo sempre più affermata a livello sociale nel mondo occidentale. Buona lettura.
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Infoaut: Si è ormai tutti d'accordo nel descrivere le recenti elezioni Usa come contraddistinte da un voto di classe, espresso all'interno di una campagna elettorale dove Clinton e Trump hanno di fatto giocato il ruolo di portavoce delle classi avvantaggiate e svantaggiate dalla globalizzazione. Il giudizio sui costi e i benefici di quest'ultima ha quindi giocato un ruolo decisivo per l'esito del voto. Quanto però secondo te questo voto è stato percepito anche in relazione ad una specifica forma di globalizzazione, quella neoliberista attuale, e ai suoi effetti di lungo periodo sulla popolazione scaturiti negli ultimi quarant'anni?
Per quanto ci siano state diverse analisi sui dati, basate sui numeri relativi oppure sui numeri assoluti, con le valutazioni che possono essere molteplici a seconda dei diversi criteri usati, io credo che se guardato nella sua articolazione per Stati ci sia un dato incontestabile.
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La variante rivoluzionaria
di Gigi Roggero
Recensione a La variante populista di Carlo Formenti
Qualche mese fa Franceschini, degno rappresentante della mediocrità politica del suo partito, ha detto che oggi lo scontro oggi non è più tra destra e sinistra, ma tra sistemisti e populisti. Se perfino un dirigente del PD arriva a cogliere qualche elemento di realtà, vuol dire che esso dovrebbe essere piuttosto lampante. Così non è, se guardiamo al dibattito che ha preceduto e seguito le elezioni americane dentro le sinistre conventicole dell’opinione pubblica nostrana, infarcita di paura per il fascismo che avanza e stretto attorno al simulacro democratico che arriva addirittura ad assumere il mostruoso volto di Hillary Clinton. Un merito indiscutibile dell’ultimo libro di Carlo Formenti, La variante populista (DeriveApprodi, uscito in ottobre), è di prendere di petto il tema, senza timore delle accuse e dei latrati che si alzano dalle rancorose e marginali fila del frontismo neo-dem. La tesi del volume è infatti nitida: oggi la lotta di classe nel neoliberismo avviene innanzitutto sul terreno disegnato dal populismo. Secondo l’autore bisogna quindi accettarne la sfida, collocarsi su quel terreno, lì costruire egemonia in senso gramsciano.
Formenti arriva a sviluppare la sua tesi attraverso un confronto selezionato con autori e posizioni che, come sempre nei suoi testi, vengono sintetizzati in forma estremamente chiara e utile.
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Gli Stati Uniti tra "isolazionismo" e "internazionalismo”
di Sebastiano Isaia
1.
Ho trovato molto interessante l’articolo di Dario Fabbri pubblicato da Limes che analizza il voto americano ponendolo in rapporto con l’orientamento geopolitico strategico degli Stati Uniti. Il solo punto debole dell’articolo mi è parso di coglierlo nella definizione che l’autore dà della globalizzazione come «pax americana sotto pseudonimo», cosa che mi sembra quantomeno riduttiva. Infatti, anche Paesi come la Germania, la Cina e il Giappone, per non allungare troppo l’elenco e fermarmi al vertice della piramide capitalistica mondiale, hanno partecipato e partecipano a pieno titolo alla «globalizzazione», concetto che d’altra parte sintetizza, almeno nella mia “declinazione”, la naturale tendenza del Capitale ad annettersi non solo l’intero pianeta (realizzando la Società-Mondo), come aveva capito l’anticapitalista di Treviri in anticipo sui tempi, ma anche l’intera esistenza degli individui, come hanno dimostrato la psicoanalisi e la medicina orientata in senso psicosomatico. La definizione di cui sopra sembra fatta apposta per eccitare l’anima “antiamericana” di buona parte dei cosiddetti “antimperialisti”.
Ho sempre considerato un grave errore di prospettiva, fondato soprattutto sul pregiudizio antiamericano che da molto tempo (diciamo pure da un secolo) alberga in una larga parte dell’intellighentia europea (tanto di “destra” quanto di “sinistra”), spiegare la dinamica della competizione interimperialistica del Secondo dopoguerra ricorrendo esclusivamente, e comunque essenzialmente, al confronto politico-ideologico-militare Stati Uniti-Unione Sovietica.
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Crisi della democrazia moderna, conflitto politico-sociale e ricomposizione di un blocco di resistenza nazionale-popolare nell’epoca delle rivolte “populiste”
Intervista a Stefano G. Azzarà*
Domande a cura di Aldo Scorrano, Fabio Di Lenola e Christian Dalenz
Lei ha affermato che «la storia della democrazia è la storia della capacità delle classi subalterne di fare conflitto, di lottare, di riequilibrare i rapporti di forza presenti nella società». Queste classi lo avrebbero fatto unendosi tra loro sulla base di idee, di interessi comuni e di piattaforme politiche avanzate. Questa unione oggi manca ed è ciò che si dovrebbe ricreare, soprattutto nel mondo del lavoro. In buona sostanza bisognerebbe «unire ciò che è stato diviso». Ma come mettere in moto questo processo e con quali modalità?
La risposta a questa domanda non esiste. E se qualcuno pretende di averla in tasca per via di qualche formula alla moda – “populismo” e “politiche del comune” sono oggi quelle più reiterate nelle diverse e contrapposte anime della sinistra, ma in passato i nomi erano diversi - ha capito ben poco dei processi storici, per i quali non esistono leggi simili a quelle che ipotizziamo nel mondo naturale e dunque nemmeno manuali delle istruzioni.
Per come siamo messi, credo comunque che la presa di coscienza reale e non meramente verbale della frantumazione in atto e delle sue ragioni, oltre che della necessità di una ricomposizione di un campo politico di resistenza su basi che siano ad un tempo politiche e sociali (e cioè fondate su una analisi che tenga conto di cosa sono diventate oggi le classi sociali rispetto al periodo della Guerra Fredda), sia già un passo in avanti considerevole rispetto alla totale inconsapevolezza o rimozione che caratterizza ciò che rimane da noi della sinistra storica novecentesca.
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Riflessioni sulle recenti elezioni americane
di Alain Badiou
Proponiamo la traduzione dell’intervento tenuto dal filosofo francese Alain Badiou a Los Angeles, presso la University of California, sulle elezioni del 9 novembre. A giorni dall’elezione di Donald Trump, riteniamo che nell’intervento ci siano degli spunti di analisi utili alla comprensione del fenomeno al di là delle prime impressioni e delle facile categorie dicotomiche tra città-campagna, bianchi-non bianchi, working class-middle class. Per quanto siano affrettati alcuni parallelismi tra le forme politiche del fascismo novecentesco ed i nuovi populismi, l’analisi di Badiou coglie perfettamente il carattere globale ed interconnesso dei populismi, la loro genealogia dalla crisi delle vecchie oligarchie e della rappresentanza moderna, la non-contraddizione che ha nei confronti del capitalismo per quanto sia in aperta opposizione del neoliberalismo finanziario. L’assenza di una opzione forte che nasce dal basso – e non tanto da una figura di un candidato specifico, nonostante possa essere utile - e che prefigura un’alternativa, ideale e pratica, alla distruzione del legame sociale è a nostro avviso causa del nascere dei populismi, che riempiono inesorabilmente un vuoto. Qui l'originale.
* * * *
La posizione dello stato oggi è la stessa ovunque. È accettata per legge dal governo francese, dal Partito Comunista cinese, dal potere di Putin in Russia, dallo Stato Islamico in Siria, e naturalmente è anche una legge del Presidente degli Stati Uniti.
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Italexit? L’imminente crisi bancaria
di Federico Dezzani
L’eurocrisi ha raggiunto l’ultimo stadio: da crisi delle bilance dei pagamenti si è trasformata prima, attraverso le politiche di austerità e di svalutazione interna, in crisi economica, e poi, in crisi bancaria, a causa del lievitare delle sofferenze e dell’inarrestabile fuga dei capitali dall’europeriferia. Indicatori come il Target 2 e le condizioni drammatiche in cui versano MPS e, soprattutto, Unicredit, evidenziano che il carico di rottura è ormai vicino: dopo che Deutsche Bank ha sventato l’assalto speculativo di George Soros e Donald Trump ha vinto le presidiziali statunitensi, nessuno può più evitare l’applicazione del “bail in”, costringendo così l’Italia ad abbondonare l’eurozona.
E crisi bancaria fu
Tutto si può dire dell’eurocrisi, tranne che sia imprevedibile: anzi, è una storia trita e ritrita, il cui finale scontato non è anticipato da politici e media solo perché è interesse di tutti fingere che lo status quo durerà ancora a lungo.
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Note su solitudine e politica in Spinoza
Paolo Godani
1. Gli studi spinoziani non hanno mancato di rilevare la funzione che la paura della solitudine svolge, dall’Etica al Trattato politico, nella formazione dello stato. Sostituendo il metus solitudinis al metus mortis hobbesiano, Spinoza non si limita soltanto a prendere le distanze dall’idea, formulata in De cive I, 2, secondo cui «hominem ad societatem aptum natum non esse», ripristinando invece l’immagine aristotelico-scolastica dell’uomo come animale sociale (cfr. E IV, 35 sch.; e TP II, 15), ma si libera soprattutto della finzione di un’età precedente alla società, nella quale gli individui avrebbero vissuto nell’isolamento. «Barbari o civilizzati – si spiega in TP I, 7 – dappertutto gli uomini intrecciano relazioni reciproche e danno forma ad una qualche forma civile», dato che essi «per natura desiderano la condizione civile» (TP VI, 1). Per Spinoza, la civitas non si configura come il frutto di un patto tra individui che vivano dapprima isolati in uno stato di natura, bensì come la condizione originaria dell’umanità. Lo stato civile non sopravviene allo stato di natura negandolo, dato che segue invece le medesime leggi di quello; così che la civitas non può essere intesa come uno stato nel quale, con l’istituirsi del potere sovrano, sia abolito l’isolamento degli individui, dato che quell’isolamento, come la potenza e il diritto che gli individui soli portano con sé, non è altro che una finzione: il diritto naturale (jus humanum naturale), quando sia «definito dalla potenza di un singolo» e «proprio di un solo individuo», è infatti «inesistente e frutto di sola e irreale opinione (nullum esse, sed magis opinione quam re constare», così che, «in conclusione, il diritto di natura, proprio del genere umano, si può difficilmente concepire senza leggi comuni che rendano uniti gli uomini (jus naturae, quod humani generis proprium est, vix posse concipi, nisi ubi homines jura habent communia)» (TP II, 15).
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Dopo il social-liberismo
M. Palazzotto intervista Marco Veronese Passarella
Negli ultimi decenni abbiamo assistito all’affermazione di quell'indirizzo politico ed economico, tipico del capitalismo contemporaneo, chiamato “neoliberismo”. Secondo il sentire comune questa fase ha influenzato in senso liberista le politiche economiche dei maggiori produttori al mondo. In realtà si può rilevare, soprattutto in ambito accademico, che la scuola di pensiero che ha influito di più sulle decisioni politiche non è proprio quella liberale: anzi se di pensiero dominante si può parlare, soprattutto nelle scienze economiche, quella che emerge di più è la cosiddetta scuola neo-keynesiana (di cui fanno parte, ad esempio, Blanchard, Krugman, Stiglitz, Mankiew, ecc.). In alcuni tuoi recenti lavori ti sei occupato del “New Consensus” ed in particolare dei modelli DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium). Ci potresti descrivere per sommi capi di cosa si tratta?
È una domanda che tocca molti aspetti critici. Provo ad elencarli e commentarli brevemente. Anzitutto, non darei per scontato che ciò che abbiamo osservato negli ultimi decenni sia interamente ascrivibile al “neoliberismo”. Al fronte neoliberista si è per anni contrapposto un fronte social-liberista, in certe fasi maggioritario, che accarezzava l’illusione di poter gestire la globalizzazione capitalistica ed i connessi processi di finanziarizzazione attraverso la lotta ai monopoli, l’estensione dei diritti civili ed alcune timide politiche redistributive, dato il doppio vincolo posto dal bilancio pubblico e dai conti esteri.
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Avevano ragione i no global
Da Karl Marx e Antonio Gramsci a Donald Trump, passando per Matteo Salvini
di Umberto Mazzantini
Sta girando su Facebook un video di un intervento di Diego Fusaro a Matrix [vedi più sotto] sul perché l’immigrazione è funzionale al neo-capitalismo e che è una fulminante analisi marxiana dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della necessità di manodopera a basso prezzo che ha bisogno, ora come ieri, dello sradicamento culturale e sociale, della creazione di lavoratori a basso costo da contrapporre ad altri lavoratori. Fino alla guerra. Non a caso Fusaro dice che i migranti e i profughi non sono i nostri nemici, sono i nostri alleati, da difendere, e con i quali gli sfruttati occidentali, la classe operaia e media impoverita, i precari a vita, devono e possono costruire l’alternativa politica e sociale a un capitalismo famelico.
La cosa che stona nel filmato è il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, che annuisce ripetutamente, dichiarandosi perfettamente d’accordo con un filosofo che, sulla suo sito internet, si presenta così: «allievo indipendente di Hegel e di Marx, di Gentile e di Gramsci. Intellettuale dissidente e non allineato, sono al di là di destra e sinistra. Se, infatti, la sinistra smette di interessarsi a Marx e a Gramsci, occorre smettere di interessarsi alla sinistra: e continuare nella lotta politica e culturale che fu di Marx e di Gramsci, in nome dell’emancipazione umana e dei diritti sociali». Insomma, niente di più distante, culturalmente e antropologicamente, dalla xenofobia leghista.
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I Discorsi di Marte
Aspetti ideologici della guerra imperialista permanente
di Mario Lupoli
Dalla rivista D-M-D' n °10
Il capitalismo contemporaneo propone e ripropone delle categorie che apparentemente esprimono una contraddizione: pacifismo e interventismo, democrazia e dittatura, barbarie e civiltà. Categorie che sembrano aprire a un’alternativa e quindi a una possibilità di partire da esse per rovesciare in un senso o nell’altro la società. Dietro questa parvenza tuttavia si staglia l’unitarietà del pensiero dominante, e la convergenza delle sue sfaccettature nella conservazione dell’ordine sociale vigente, che la guerra necessariamente produce e che ha proprio la guerra quale modalità di esistenza. La produzione di un complesso ideologico imperialista fortemente caratterizzato dal fondamento costitutivo della guerra permanente è pertanto una specificità dell'epoca attuale, che potrà essere sovvertita unicamente su una base non capitalistica: a partire cioè dalla rivoluzione comunista.
Propaganda, mito e immaginario operano storicamente quanto le mitragliatrici
(T. di Carpegna Falconieri)
Capitalismo e verità
Il processo storico della vita degli uomini, nelle loro reciproche relazioni e interazioni, produce l'”intera ideologia”, un complesso variegato e mutevole di “impressioni, illusioni, particolari modi di pensare e particolari concezioni della vita”[1].
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Il lavoro è fatica
Una prima riflessione sul nesso fra scuola, lavoro, Carta Costituzionale
di Renata Puleo
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 1 comma 1).
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 comma 2).
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art.4 comma 1).
[…] I non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo cerebrale e muscolare-nervoso non sempre è uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. […] non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens.
A. Gramsci, Quaderni 4 (XIII);12(XXIX).
[…] Con fatica ne trarrai nutrimento tutti giorni della tua vita […] con il sudore del tuo volto mangerai il pane […].
Genesi, 3-17/19.
Questo è un contributo sul nesso fra la Carta Costituzionale e i problemi attuali del sistema scolastico italiano, un commento sul concetto di lavoro che emerge dal testo di riforma della scuola, con l’applicazione del comma 33/passim della legge 13/07/15 n 107 cd. La Buona Scuola, e il relativo costituirsi dell’istituto Alternanza-Scuola-Lavoro (ASL).
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Come capire la crisi (e come uscirne)
Massimiliano Mazzanti
Una recensione del libro di Sergio Cesaratto, “Sei lezioni di economia”, appena uscito per le edizioni Imprimatur. Utile compendio per capire la crisi più lunga e qualche idea per provare a uscirne
Le ‘sei lezioni di economia’ di Sergio Cesaratto sono un’occasione importante di studio e riflessione per studenti, ricercatori e ‘policy makers’, in tutti tre i casi intesi in un ampio significato. Lezioni di economia e politica, ponendo il tema della distribuzione e formazione del reddito al centro del discorso teorico. Gli studenti possono cogliere l’occasione di studiare e approfondire temi che non fanno generalmente più parte dei corsi di studio di Economia, a parte alcune eccezioni sparse. I Ricercatori, almeno quelli che vogliono intendersi come scienziati sociali ed economisti aperti e costruttori di ponti con altre discipline, possono cogliere l’occasione di riflettere su vari aspetti teorici della macroeconomia e sulle implicazioni di politica che ne seguono.
Il libro riprende il filo di un discorso minato dal prevalere di conformismo culturale, ignoranza teorica e interessi di parte. Si connette in modo complementare, citando alcuni testi del recente passato da consigliare come ulteriori letture al lettore, alle analisi sviluppate da Paolo Sylos Labini (2004, Torniamo ai classici, Laterza)1, Laura Pennacchi (2004, L’eguaglianza e le tasse, Donzelli), Aglietta-Lunghini (2001, Sul Capitalismo Contemporaneo, Boringhieri)2. Narrazioni economiche che sarebbe riduttivo definire ‘di sinistra’. Semplicemente raccontano la teoria economica nella sua maggiore ricchezza, finalizzandola alla creazione di reddito, uguaglianza, occupazione, sostenibilità socio-economica.
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Disintegrazione dell’Europa o processo costituente?
Crisi, governo dell’emergenza e prospettive di nuova invenzione democratica
di Beppe Caccia e Sandro Mezzadra
Il testo che qui proponiamo in versione italiana nasce da una comune ricerca, intrapresa nel corso della prima metà del 2016 intorno alle “crisi multiple” del processo d’integrazione europea. È in corso di pubblicazione in tedesco nel volume curato da Mario Candeias e Alex Demirović, Europe – What’s Left? Die Europäische Union zwischen Zerfall, Autoritarismus, und demokratische Erneuerung, Münster, Westfälisches Dampfboot, 2017. Integrato con alcune considerazioni successive all’esito del referendum sulla Brexit, l’articolo è stato scritto ovviamente prima dei risultati delle elezioni presidenziali americane. Ancora non è dato sapere quale impatto possa avere Trump alla Casa Bianca sulle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico, all’interno del più generale sommovimento che su scala planetaria la sua vittoria andrà a produrre. Nondimeno riteniamo che già alcune delle tesi contenute in questo contributo – dal ruolo dell’Europa nel contesto capitalistico globale alla reale natura dei “sovranismi” di cui lo stesso Trump è certamente espressione, fino alla necessità di articolare molteplici e convergenti livelli d’iniziativa, sociale e politica, alternativa – possano contribuire al dibattito in corso. E a un suo ulteriore avanzamento, a partire dai nodi politici che il testo, e prima ancora la realtà contemporanea, lasciano irrisolti e aperti alla discussione collettiva.
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Europa/mondo: il capitalismo globale e i suoi spazi
Il capitalismo globale è ben lungi dall’aver trovato una stabilizzazione dal punto di vista dell’organizzazione dei suoi spazi e della definizione del suo rapporto con gli spazi politici e giuridici.
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