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A che punto è l'incubo

di Sebastiano Isaia

manis1. Il salto non è evolutivo…

La virologa Ilaria Capua, ultimamente molto presente sui media nazionali, dà un’interpretazione storico-sociale della pandemia che sta investendo l’intero pianeta che trovo molto interessante, sebbene questa interpretazione risulti appesantita dal suo peculiare approccio scientista ai fenomeni sociali. Per molti aspetti la scienziata non fa che ripetere quanto aveva scritto qualche giorno fa Mario Tozzi sulla Stampa di Torino e da me citato nel precedente post. Dal mio punto di vista le tesi esposte dai due personaggi è molto significativa perché mostrano la natura essenzialmente sociale dell’attuale crisi sanitaria, ossia la sua profonda e ramificata radice capitalistica – parlare di una generica “globalizzazione” e tirare in ballo un altrettanto generica prassi tecnoscientifica non coglie il cuore del problema e anzi contribuisce a rendere difficile la sua individuazione. Ma questa è una “problematica” che spetta all’anticapitalista affrontare.

Veniamo alla dottoressa Capua, intervistata da Raffaele Alberto Ventura per Le grand continent:

«L’esperienza delle precedenti pandemie bastava a immaginare questo scenario. Tuttavia si tratta di fenomeni che toccano una tale quantità di sfere, da quelle naturali a quelle sociali, con innumerevoli ramificazioni, che per affrontarli un approccio interdisciplinare è fondamentale. Nel mio libro Salute Circolare mi ero precisamente concentrata sugli squilibri globali che rendono sempre più probabili simili scenari. In un certo senso, questa pandemia la stavamo tutti aspettando. […]

Questa emergenza ha rivelato che il vero punto di fragilità del sistema è la sua velocità. Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane. Un virus che stava in mezzo a una foresta, in Asia, è stato improvvisamente catapultato al centro della scena, passando da un mercato in cui venivano radunati animali provenienti da aree geografiche molto diverse. Siamo noi ad aver creato l’ecosistema perfetto per generare spontaneamente delle armi biologiche naturali. Nel ciclo naturale, se pure il virus usciva dalla foresta andava a finire in un villaggio di cento persone e lì esauriva il suo ciclo di vita. Noi stiamo vivendo un fenomeno epocale, ovvero l’accelerazione evolutiva del virus. […] Ma volendo essere ottimisti, possiamo sperare che la crisi che stiamo vivendo cambierà anche questo. Il coronavirus è un cigno nero che stravolgerà il rapporto tra scienza e società, il modo di lavorare, il modo di comunicare. Ora dobbiamo essere pronti a quello che verrà. Forse ci sarà un riavvicinamento alla scienza, che è una delle cose per la quale mi sono più battuta negli ultimi anni con l’One Health Center. Stiamo vivendo un grandissimo esperimento evolutivo. Ma siamo ancora noi la specie animale in cabina di pilotaggio, non possiamo chiedere al lombrico di venire a risolvere i nostri problemi. Non c’è dubbio che di tutto questo conserveremo i segni più nella coscienza che nei corpi».

Ma siamo proprio sicuri che siamo noi «la specie animale in cabina di pilotaggio»? Io ne dubito fortemente, e penso anzi che come umanità non abbiamo il controllo di ciò che noi stessi facciamo e costruiamo: penso che nella metaforica cabina di pilotaggio ci siano rapporti sociali di dominio e di sfruttamento (degli uomini e della natura) che capovolgono il rapporto tra il produttore e il prodotto. La peculiare socialità capitalistica prende corpo alle nostre spalle, in guisa di potenza «estranea e ostile». Rimando ai miei diversi scritti dedicati al tema. A proposito di cigni neri e di opportunità offerte dall’attuale crisi sociale, ho l’impressione che la “nuova normalità” post-crisi sarà peggiore di quella vecchia, come vuole la pessimistica (ma quanto realistica!) tesi secondo cui, posta questa disumana società, il peggio non conosce alcuna saturazione.

«Mentre in Italia attraversa la quarantena per il Coronavirus, i cigni appaiono nei canali di Venezia, e i delfini nuotano giocosamente. La Natura ha semplicemente premuto il tasto reset. Immaginate se tutti noi venissimo messi da parte, cosa potrebbe diventare il nostro pianeta al di là dei nostri sogni più selvaggi»: è quanto ha scritto l’attrice Sharon Stone su Instagram, postando una foto dei canali della città lagunare. Naturalmente sono piovute sulla famosa attrice le indignate risposte degli italiani, in questi giorni così gonfi di orgoglio nazionale. La riflessione di Sharon Stone è a mio avviso assai sintomatica della nostra pessima condizione umana, perché essa rivela come spesso dietro l’amore per la natura si celi un invincibile odio e un abissale disprezzo per il genere umano, accusato in blocco di aver distrutto l’ecosistema. Non pochi individui ecologicamente sensibili cullano la misantropica ”utopia” di un mondo radicalmente inumano, ossia completamente vuoto di uomini: Il mondo dopo l’uomo. E già: si fa prima a pensare la fine dell’uomo, magari per mano di un Virus Sterminatore, che la fine di una società ostile all’uomo. Viviamo tempi eccezionalmente cattivi, c’è poco da dire. E da fare? Fate un po’ voi!

 

2. Repetita iuvant? Mah!

Nel volgere di pochi giorni siamo passati dalla metafora («è come se fossimo in guerra», alla constatazione di un dato di fatto: «siamo senz’altro nel bel mezzo di una guerra», con ciò che questo salto logico e reale presuppone e pone sul terreno delle pratiche sociali. Come abbiamo visto, non c’è sfera della prassi sociale che non sia stata toccata e profondamente sconvolta da questo eccezionale evento bellico. Si contano i morti, mentre il numero dei feriti è incalcolabile: siamo tutti noi. La guerra moderna non distingue più tra militari e civili, né tra fronte e retrovia: l’intera città è un solo enorme campo di battaglia. Lo stato di guerra implica necessariamente l’esistenza di un nemico, interno o esterno che sia, e come ho cercato di dire nel corso di queste sciagurate settimane l’impalpabile (ma quanto duro e feroce!) nemico che minaccia la nostra salute, la nostra qualità della vita e la nostra stessa nuda esistenza va individuato nei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – degli uomini e della natura. La pandemia dei nostri giorni si spiega solo con la natura disumana, e quindi necessariamente ostile alla natura, dei rapporti sociali capitalistici oggi dominanti su scala planetaria; si spiega con la sua inestinguibile fame di profitti, con le sue contraddizioni, con i suoi insuperabili limiti, con i suoi continui fallimenti. Nella sua impalpabilità, nella sua aggressività e nel suo cosmopolitismo il Coronavirus si presta benissimo come metafora del Male che ci tiene sotto scacco fin dalla nostra nascita.

«Per Ken Rogoff, economista americano di 66 anni professore a Harvard University, e campione di scacchi, “Non è una crisi come le altre. Siamo in guerra. È come se fossimo stati invasi dagli alieni”» (Il Corriere della Sera). La metafora dell’invasione aliena, così amata dalla “scienza economica” (vedi, ad esempio, Paul Krugman), la dice lunga sulla “potenza concettuale” di quella scienza. Siamo dunque in guerra? Ebbene, si tratta della guerra “esistenziale” che questa società ci dichiara ogni giorno, sempre di nuovo, minacciando continuamente quel poco di felicità che riusciamo a strappare al Moloch.

In questi giorni ho anche cercato di esprimere un concetto che il pensiero comune non può né capire né accettare: l’evento eccezionale mette in luce la vera natura di questa società, l’autentica funzione dello Stato, il quale rivela la sua natura di «forza pubblica organizzata di asservimento sociale», di «strumento del dispotismo di classe», per citare il solito Marx. Nei periodi di “pace sociale” la classe dominante riesce facilmente a occultare questa verità perché le classi subalterne si sono abituate ad accontentarsi di quel poco che hanno, che spesso ai loro occhi appare molto solo perché ormai da troppo esse sono avvezze alle miserie, materiali e spirituali, che questa società offre loro, una società che queste classi subiscono come la sola realtà possibile e concepibile. È su questa tragica incoscienza dei nullatenenti che si regge il dominio delle classi che detengono il potere sociale. «L’assurdità si perpetua e si riproduce mediante se stessa.; il dominio si tramanda attraverso i dominati» (T. W. Adorno, Minima moralia).

Quando però la crisi sociale mette in questione, o semplicemente rischia di poterlo fare, anche quel poco che le classi subalterne si fanno bastare, per così dire, ecco che le loro vecchie “certezze” iniziano a vacillare, a indebolirsi, a creparsi, così da lasciare aperte sulla loro superficie fessure dalle quali è possibile vedere squarci di verità. Una verità che fa orrore, e difatti i dominati quasi sempre reagiscono chiudendo gli occhi, puntandoli altrove, perché il disinganno provoca dolore e chiede un’immediata assunzione di responsabilità, cosa a cui essi non sono abituati, avvezzi come sono alla maligna logica della delega che ne fa dei bambini incoscienti e socialmente impotenti. Il massimo di “azione diretta di governo” che la massa dei nullatenenti riesce a concepire si esaurisce nel recarsi ai seggi elettorali quando è il turno di “scegliere” la classe dirigente che deve amministrarci per conto del Leviatano e della conservazione sociale. Chi pensa che l’anticapitalista sostenga la tesi del “tanto peggio, tanto meglio” dimostra di avere in testa un’immagine macchiettistica dell’anticapitalista, il quale invece sa benissimo che quasi mai l’incremento del male si trasforma automaticamente, spontaneamente in una presa di coscienza da parte dei subalterni e in una loro autentica azione rivoluzionaria. Per quanto riguarda il tanto peggio, poi, ci pensa questa società a non farcelo mai mancare.

 

3. La scienza non ci salverà

Quando l’integrazione della società, soprattutto negli stati totalitari, determina i soggetti, sempre più esclusivamente, come momenti parziali nel contesto della produzione materiale, la “modificazione nella composizione organica del capitale” si continua negli individui. Cresce così, la composizione organica dell’uomo […] La tesi corrente della “meccanizzazione” dell’uomo è ingannevole, in quanto concepisce l’uomo come ente statico, sottoposto a certe deformazioni ad opera di un “influsso” esterno, e attraverso l’adattamento a condizioni di produzione esterne al suo essere. In realtà, non c’è nessun sostrato di queste “deformazioni”, non c’è un’interiorità sostanziale, su cui opererebbero – dall’esterno – determinati meccanismi sociali: la deformazione non è una malattia che colpisce gli uomini, ma è la malattia della società, che produce i suoi figli come la proiezione biologistica vuole che li produca la natura: e cioè “gravandoli di tare ereditarie” (T. W. Adorno, Minima moralia).

Scrive lo storico israeliano Yuval Noah Harari: «A metà del XIV secolo la peste nera ci impiegò dieci anni per arrivare dalla Cina in Europa, e devastò il continente. Oggi ci sono volute due settimane per diffondere il coronavirus, ma la velocità del sistema non è necessariamente un male, anzi. In due settimane gli scienziati hanno mappato il Dna del virus, lo hanno decifrato. Sanno che cos’è, cosa fa. La peste, nel passato, è sempre rimasta un mistero. Non si sapeva nulla di quale fosse l’origine, di come si propagasse. La nostra situazione è molto diversa. Resta ovviamente sempre una misura di incertezza: il virus ci grida che non abbiamo il controllo totale sulla natura, e ciò è inquietante. È un fattore di destabilizzazione» (La Stampa). A mio avviso il virus ci grida tutt’altro, e cioè che non abbiamo il controllo, nemmeno parziale, sulla nostra stessa esistenza, le cui fonti materiali sono assoggettate alle necessità dell’economia capitalistica.

Ormai da parecchio tempo non esiste più una natura selvaggia, non toccata (“contaminata”) dalla civiltà come ancora prosperava nelle epoche precapitalistiche: ciò che oggi sopravvive di quella natura è inglobata nella dimensione sociale, essa è parte della “periferia allargata” delle zone rurali delle megalopoli. È in queste zone che gli animali “selvatici”, alcuni dei quali peraltro entrano nella dieta alimentare e culturale di alcune popolazioni urbanizzate, entrano più facilmente in contatto con gli animali “civilizzati”, soprattutto con quelli allevati per scopi commerciali. A questo punto il salto dei virus dagli animali selvatici a quelli “civilizzati” (materia prima per l’industria capitalistica), e da questi ultimi agli uomini («trasferimento zootecnico») è una questione di tempo, e in ogni caso questo salto di specie è una possibilità pronta a trasformarsi in un fatto appena se ne presenti l’occasione, la quale può essere la più diversa, fortuita e persino bizzarra.

Le stesse rapide mutazioni dei virus che da almeno tre decenni registrano i virologi di tutto il mondo sono in larga misura indotte dai periodici abbattimenti “di massa” del bestiame e dei volatili contaminati da virus e batteri; la produzione di virus sempre più resistenti e “intelligenti”, ossia adattabili alle modificazioni dell’ambiente naturale causate dalle attività umane, è spesso il paradossale effetto della lotta ai virus come è in grado di pianificarla e realizzarla questa società, la quale, come già detto, deve sempre tenere presente le vitali esigenze dell’economia, e questo significa innanzi tutto che quella ai virus deve sempre essere concepita come una guerra lampo: il profitto non può aspettare e gli affari hanno bisogno di certezze! D’altra parte, non parliamo forse di resilienza batterica dovuta all’uso eccessivo di antibiotici che facciamo? Abbiamo i virus e i batteri che ci meritiamo (alleviamo)! Scherzo, scherzo. Come diceva qualcuno, «la vita vuole vivere», lo vuole con tutte le sue forze, e quale che sia la sua dimensione, il suo corredo biologico e la sua struttura organica, prima di soccombere questa vita cercherà in tutti i modi di cambiare se stessa per non morire. Mi scuso per le indegne citazioni “filosofiche”. In questo contesto, parlare di “natura” mi sembra quantomeno esagerato.

Insomma, nella società capitalistica la relazione uomo-natura è necessariamente una relazione malata, irrazionale, contraddittoria, pericolosa – per entrambi i poli della relazione.

Ancora Harari: «La scienza è più forte del virus. L’arma fondamentale di cui l’umanità dispone oggi e che non aveva in passato è la conoscenza. La scienza è conoscenza più metodo: questa combinazione fa tutta la differenza, nella guerra contro il coronavirus». Oggi la scienza, inseparabile dalla sua “fenomenologia” tecnologica, è uno degli strumenti più formidabili che ha in mano il Moloch capitalistico, che si serve della tecnoscienza per sfruttare e saccheggiare uomini e natura. In questo senso la scienza non è parte della soluzione, come crede il nostro storico, ma del problema. Naturalmente il problema di cui parlo non è il coronavirus, ma il rapporto sociale capitalistico, è la condizione disumana a cui siamo assoggettati tutti, in primis chi tira a campare nei gironi più bassi di questo inferno. Più che di scienza e di conoscenza, avremmo piuttosto bisogno di una coscienza critico-rivoluzionaria.

Per evitare “spiacevoli” equivoci, preciso che qui non intendo riferirmi a una generica scienza, alla scienza astrattamente concepita, alla scienza “in sé e per sé” (concetto astorico che non ha alcun significato), ma alla scienza come si dà nella società capitalistica del XXI secolo. Il concetto di uso capitalistico della scienza e della tecnologia investe, a mio avviso, ogni ambito della prassi scientifica e tecnologica, a partire dal contenuto eminentemente teorico dell’una e dell’altra.

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