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Coronavirus. Chi è il vero nemico?

di Carlo Formenti

b1eff514 d0e0 4966 a864 84c5c67c31e2La crisi mondiale che stiamo affrontando ha una portata superiore persino a quella della grande crisi del 2008. Grazie alla lotta contro un nemico terribile stiamo riscoprendo un senso di solidarietà e uno spirito comunitario che negli ultimi decenni sembravano essere quasi del tutto spariti. Ma qual è la vera natura di questo nemico: siamo effettivamente di fronte a una minaccia puramente biologica, a una catastrofe naturale al pari di un terremoto, oppure la realtà è più complessa? Per sciogliere il dubbio occorre rispondere a tre domande: 1) da dove vengono le pandemie; 2) perché le reazioni a questa minaccia cambiano significativamente da un Paese all’altro; 3) se davvero, come molti dicono, dopo questa crisi nulla sarà come prima, cosa dobbiamo aspettarci dal futuro e soprattutto in che direzione dobbiamo lavorare perché si tratti di un futuro migliore.  

 

  1. Da dove vengono le pandemie

Si dibatte sugli effetti economici dell’epidemia del covid19 ma nessuno ragiona seriamente su come simili eventi si producono. Ci si limita a prendere atto che si presentano ciclicamente, come le crisi economiche, con ritmi e modalità imprevedibili, e anche da questo punti di vista si evocano analogie con le crisi economiche. In realtà le relazioni fra i due ordini di fenomeni vanno al di là di una semplice analogia: infatti, se la “naturalizzazione” delle crisi economiche non può non apparire sospetta a chi non si accontenta delle narrazioni neoliberiste, nemmeno le pandemie andrebbero analizzate come eventi puramente biologici, privi di relazioni con il contesto socioeconomico in cui si sviluppano.

Assumere questo atteggiamento non significa stabilire una relazione causale meccanica fra modo di produzione capitalistico e pandemie, bensì indagare la dinamica dei rapporti fra sfera biologica e sfera socioeconomica, fra epidemiologia ed economia.

Partiamo dal fatto, tutt’altro che causale, che molte delle più recenti epidemie virali sono state etichettate con nomi di animali, come aviaria e suina. Questo perché erano il prodotto della trasmissione di un’infezione virale da una specie animale all’uomo (come quasi certamente è avvenuto con il covid19, anche se non è ancora chiaro da quale specie sia arrivato il contagio questa volta). L’evidenza empirica appena evidenziata suggerisce la necessità di indagare il nesso fra agri economia, urbanizzazione selvaggia provocata dall’attuale modo di produzione e pandemie virali. Alcuni autori (vedi i consigli di lettura a fine testo) distinguono, fra due possibilità: il virus nasce nel cuore stesso della produzione agro economica oppure nasce nel suo hinterland, cioè ai confini fra industrie agricole prive di regole e periferie degradate. 

Nel primo caso, sono gli allevamenti di tipo iperintensivo in cui si ammassano grandi quantità di animali a stretto contatto reciproco e con difese immunitarie indebolite da condizioni igieniche, alimentazione, ecc. ad agire da incubatori, mentre i circuiti globali per la diffusione di merci e di forza lavoro diffondono rapidamente gli agenti patogeni, accelerandone le eventuali mutazioni adattative, che in alcuni casi possono selezionare le varianti più forti e aggressive. Nel secondo caso, invece, si tratta di un processo indiretto: la pressione della rendita capitalistica che si espande nei territori di confine con zone meno accessibili, fa in modo che gli le specie domestiche entrino in contatto con popolazioni selvatiche portatrici di virus sconosciuti, i quali entrano così nella catena del valore e vengono distribuiti nei circuiti del capitalismo globale. Detto altrimenti: la devastazione ecologica tende a ridurre le differenze e complessità ambientali che interrompevano le catene di trasmissione. 

Dopodiché entrano in gioco quei fattori socioeconomici – sovraffollamento urbano, scarse condizioni igieniche, limiti e deficienze delle strutture sanitarie, ecc. – che fanno sì che a pagare il prezzo più alto siano sempre gli strati sociali più poveri (sui quali ricadono in maggiore misura anche gli effetti collaterali delle pandemie sul sistema economico). Un esempio tragico di tal senso aspetto risale alla pandemia del 1918 (la terrificante influenza spagnola che, secondo studi storici aggiornati, colpì un essere umano su tre e fece cinquanta milioni di vittime), un evento catastrofico in cui agli effetti della prima globalizzazione si sommarono quelli della Prima guerra mondiale.

Vediamo ora come, nel caso del covid19, queste catene causali interagiscono con gli equilibri dei sistemi geopolitico e socioeconomico globali. 

 

  1. Immunità di gregge versus protezione dei cittadini

Con il termine immunità di gregge si intende l’idea secondo cui l’epidemia si risolve spontaneamente quando la maggioranza dei membri di una comunità ha contratto la malattia e ne è guarita, per cui ha acquisito l’immunità. Va in primo luogo ricordato che il coronavirus potrebbe smentire tale ipotesi, in quanto parrebbe trattarsi di una molecola in grado di mutare rapidamente (se fosse, come alcuni ipotizzano, una “nipote” della SARS, avrebbe rinnovato in pochi anni il 20% del proprio patrimonio genetico) per cui nessuno sarebbe al riparo da successive ondate. Ciò detto è evidente che chi assume si ispira a questa ipotesi per affrontare la sfida del covid19 dev’essere disposto a sacrificare un numero elevato di membri della propria comunità. Ciò non sembra tuttavia preoccupare alcuni esponenti di quelle élite occidentali che non sembrano avere reciso i legami  con una visione politico-culturale che risale al malthusianesimo e al darwinismo sociale fra fine Ottocento e primo Novecento (ideologie che estendevano il principio del controllo della sovra popolazione e della selezione dei più adatti dalle comunità animali a quelle umane). 

Quanto appena affermato trova conferma nel fatto che, a fronte delle misure draconiane di contenimento e controllo della diffusione epidemica adottate da Cina, Italia e, sia pure tardivamente, dalla Spagna, Germania e Francia hanno reagito in modo più blando e comunque con evidente ritardo, per tacere del fatto che la Merkel ha evocato la possibilità che il 70% dei tedeschi contragga il virus, il che sembra giustificare l’idea che, almeno inizialmente, non sia stata scartata la linea dell’immunità di gregge. Chi viceversa l’ha assunta senza riserve è Boris Johnson, il quale, seguendo i consigli di alcuni consulenti scientifici del suo governo si è lasciato andare a dichiarare che “molte famiglie perderanno i loro cari”, limitandosi ad invitare la popolazione a lavarsi spesso le mani, restare a casa una settimana se si ci si sente male e a evitare di uscire se si sono superati i sessant’anni. Ciò ha ovviamente indotto la gente a sottovalutare il rischio, come testimoniano le immagini di raduni di massa trasmesse dai media, mentre le attività economiche sono proseguite senza particolari limitazioni (business as usual) per alcuni giorni. Solo in seguito alle dure critiche subite e dall’aggravarsi della situazione, Johnson ha suggerito comportamenti più rigorosi, limitandosi tuttavia a “consigliarli”, senza imporli né rafforzarli con sanzioni (quasi a voler rimarcare la distanza fra il rispetto inglese della libertà individuale e l’autoritarismo “statalista” di altri Paesi). 

Come si giustifica un simile atteggiamento? Paura che l’epidemia metta a nudo il tracollo di un sistema sanitario che è stato uno dei più ammirati al mondo prima di essere massacrato dai tagli decisi da conservatori e blairiani? Riemergere della tradizione culturale malthusiana e darwiniana sopra ricordata? Non solo, visto che alcuni quotidiani, fra cui l‘autorevole Times, hanno paragonato la cinica battuta di Johnson a quella di Churchill che prometteva sangue sudore a lacrime al suo popolo all’inizio della Seconda guerra mondiale. Parliamo di guerra dunque (e a usare questa parola non sono stati solo gli inglesi, ma anche Macron e molti altri), ma più che di guerra al virus, sembra trattarsi di guerra alle sue conseguenze per lo stile di vita e la ricchezza occidentali. Mentre la via cinese e la via italiana mettono al primo posto la tutela della vita di tutti i cittadini, anche a fronte del rischio di affrontare costi economici pesantissimi, la via inglese (e in minor misura quella tedesca, mentre la Francia sembra oscillare fra le due opzioni) assumono come prioritario l’obiettivo di salvaguardare l’economia “costi quel che costi” (vedi i 550 miliardi promessi dalla Merkel alle imprese tedesche che, per inciso, segna la crisi, se non la fine, della filosofia austeritaria ispirata alle teorie ordoliberiste) accettando di pagare un prezzo pesante in termini di vite umane, con il “vantaggio” che queste vite sono soprattutto quelle degli anziani, i quali non solo sono improduttivi ma pesano sul bilancio pubblico con le loro pensioni, esigenze sanitarie e altre voci di welfare. Riassumendo: la timidezza ed eccessiva gradualità delle misure prese fino ad ora, chiusura selettiva di frontiere, ‘raccomandazioni’, rinvii di manifestazioni, etc. per Paesi che sono a pochi giorni di distanza nella curva epidemiologica dalla Lombardia, mostra l’incertezza strategica nella designazione del vero nemico principale: è il virus o sono le sue conseguenze per la posizione di potere del Paese? Chi sceglie il virus è nella prima via, chi sceglie i suoi “effetti collaterali” è nella seconda via. Di più: la seconda via comporta implicitamente una vera e propria guerra economica nei confronti delle nazioni e dei popoli che scelgono la prima, in quanto spera di acquisire vantaggi competitivi nei loro confronti, sfruttandone le probabili recessioni e magari inducendoli a chiedere “aiuti” che li ridurrebbero a semicolonie dei vincitori (vedi in merito la cosiddetta “gaffe” di Christine Lagarde, la quale ha dichiarato che non è affare della Bce occuparsi dei problemi di spread di questo o quel Paese dell’Unione monetaria).

Certo il ragionamento è cinico (ma la natura criminale del sistema capitalista dovrebbe ormai essere chiara a tutti) e nel caso dell’Italia, se il nostro Paese restasse sotto la guida di forze politiche come quelle che attualmente lo governano (per tacere delle opposizioni) potrebbe anche funzionare. Diverso il caso della Cina, la quale uscirà ulteriormente rafforzata da questa prova, dal momento che avrà guadagnato in consenso e compattezza sociale quanto avrà perso in punti di Pil, questo perché, sulla lunga distanza, la forza della comunità si rivela sempre maggiore delle motivazioni individuali. Quindi il rinnovato senso di appartenenza comunitaria che anche noi italiani ci stiamo dimostrando capaci di recuperare, dovrà essere sfruttato per imprimere alla nostra storia una torsione che ci allontani dalla celebrazione del binomio guerra-concorrenza che inspira le culture liberal liberiste. E questo ci porta alla domanda: quale futuro dobbiamo auspicare per il dopo crisi?

 

  1. Una crisi epocale 

Nulla sarà come prima. Può sembrare un luogo comune, ma in effetti siamo di fronte a un evento che promette di essere più devastante della crisi del 2008. Una cosa è infatti la rabbia dei milioni di cittadini occidentali costretti a pagare di tasca propria le criminali speculazioni di banche “troppo grandi per essere lasciate fallire”; altra cosa è ritrovarsi esposti alla minaccia di una pandemia che rischia di provocare migliaia di morti e di lasciarsi alle spalle milioni di disoccupati. Per tacere del fatto di vedersi costretti a provare sulla propria pelle gli effetti dei decenni di privatizzazioni e di tagli alla spesa pubblica che hanno colpito con particolare ferocia le strutture e la forza lavoro (oggi ipocritamente santificata) del sistema sanitario. Il Coronavirus potrebbe rivelarsi un potente strumento per delegittimare la narrazione neoliberista, per mettere a nudo il volto feroce di una globalizzazione che, da un lato, “mette in comune” virus, disastri ambientali, milioni di lavoratori senza diritti sradicati dai loro luoghi nativi, immiserimento delle classi subalterne, dall’altro, concentra nelle mani di pochi privilegiati poderose risorse economiche e le armi politiche, tecnologiche e mediatiche per garantirne il controllo e il possesso.

Infine, milioni di cittadini occidentali hanno avuto modo di mettere a confronto il modello cinese con quello che ci viene quotidianamente proposto dagli apologeti della Ue. Certo la Cina non è un Paese socialista nel senso tradizionale del termine, ma certamente è un Paese in cui permane un vasto sistema produttivo pubblico e in cui banche e servizi sociali fondamentali restano sotto il controllo dello Stato, ed è un Paese in cui anche le forze di mercato, ancorché in costante crescita, vengono indirizzate verso obiettivi ispirati agli interessi nazionali e della maggioranza della popolazione. Questo sistema si è rivelato di grande efficienza nel far fronte alla minaccia del virus riuscendo a controllarne i ritmi di diffusione in meno di due mesi. Qui in Italia si è preso atto con ritardo (e non senza dover superare forti resistenze dettate dalle preoccupazioni di ledere interessi economici, ovviamente spacciate per preoccupazioni di non limitare le libertà individuali) che per salvare le vite dei cittadini occorreva rallentare o addirittura bloccare tutte le attività e i comportamenti che le esponevano a gravi rischi. Mentre gli altri Paesi occidentali, come ricordato sopra, persistono nell’assumere comportamenti che costeranno migliaia di vite.

Da un lato, un’economia programmata che disponeva delle informazioni e dei mezzi di comando e controllo indispensabili per agire tempestivamente, mettendo al primo posto la salute dei cittadini. Dall’altro lato, un’economia governata dagli interessi privati dei grandi gruppi finanziari e industriali, una società che decenni di lavaggio del cervello hanno disintegrato in una miriade di atomi individuali, incapaci di concepirsi come comunità e di riconoscere il bene comune, in cui la propaganda delle élite dominanti ha demonizzato tutto ciò che riguarda lo Stato (per tacere di ogni idea che evochi lo spettro del socialismo). Un sistema economico e sociale che trova la sua massima espressione in quell’Unione europea che, dopo avere blaterato contro la minaccia sovranista, ci lesina gli aiuti (facendoci capire che li avremo solo pagandoli a caro prezzo) nel momento di massimo pericolo (persino aiuti immediati ed essenziali come mascherine e respiratori ci sono giunti dalla Cina piuttosto che dagli “amici” europei).

Nulla sarà come prima. La gente, di fronte a temi come i nuovi vincoli comunitari imposti dal Mes, alle rivendicazioni di ulteriori autonomie regionali (mentre la crisi ci ha insegnato quali disastri genera il mancato coordinamento fra Stato e regioni), all’esigenza di ridisegnare il sistema sanitario dopo lo sconcio che ha subito a causa di tagli e privatizzazioni (e più in generale alla necessità di ripensare dalle radici il ruolo dello Stato nel governo dell’economia e delle relazioni sociali), sarà auspicabilmente più ricettiva nei confronti dei discorsi che rivendicano la sovranità nazionale, democratica e monetaria del nostro Paese, come sarà più ricettiva nei confronti di chi invita a riconsiderare la possibilità che il socialismo del XXI secolo possa rappresentare un’alternativa tanto auspicabile quanto necessaria, al regime neoliberista, in quanto capace di restituire a tutti sicurezza, una vita dignitosa e la speranza di un futuro accettabile.  

Gli scioperi spontanei indetti negli ultimi giorni dai lavoratori che rifiutano il ruolo di “carne da cannone”, da sacrificare sull’altare di una produzione incapace di offrire loro condizioni minime di sicurezza, sono un primo segno di risveglio delle nostre classi subalterne, i semi di una coscienza embrionale che potrebbe crescere fino a tradursi nel rifiuto  di nuovi tagli alla spesa pubblica delle privatizzazioni, del separatismo dei ricchi predicato da certi governi regionali, e della svendita degli interessi nazionali sull’altare di un’Europa a conduzione franco-tedesca priva di ogni legittimazione democratica. 

Per compiere questo salto, occorre però far nascere un nuovo soggetto politico capace di rappresentare gli interessi dei molti contro quelli di infime minoranze, e di costruire un programma di transizione verso un nuovo sistema economico, politico e sociale. 


Consigli di lettura:
Robert Wallace, “Big Farms make Big Flu”, e.book acquistabile sul sito della Monthly Review
Laura Spinney, “1918. L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo”, Feltrinelli, Milano 2019.
“Un virus sociale. La lotta di classe microbiologica in Cina”, dal blog Chuang Org, consultabile in italiano all’indirizzo https://www.infoaut.org/global-crisis/contagio-sociale-guerra-di-classe-micro-biologica-in-cina   
Roberto Buffagni, “Coronavirus. Due approcci strategici a confronto”. http://italiaeilmondo.com/2020/03/14/epidemia-coronavirus-due-approcci-strategici-a-confronto-di-roberto-buffagni/?fbclid=IwAR1iFwTSIYJiJMZSJjC5yNzCGeXozorrt9asIeKU8AykpVzAbNrJm3T7aoU

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Mario M
Monday, 23 March 2020 15:42
Io nutro molte perplessità circa il rapporto causale coronavirus-malattia-decessi; purtroppo il clamore e l’insistenza con cui i media diffondono le notizie dei contagi e dei morti aggrava la situazione perché inducono paura e panico, convincono i governi a emanare leggi sempre più restrittive alle libertà personali, che minacciano la salute delle persone. Le mie perplessità riguardano: 1- i dati clinici dei casi emersi qui in Italia, 2- la situazione ambientale, 3- l’infettivologia e le malattie, 4- gli interessi convergenti che determinano o comunque si avvantaggiano di queste situazioni.
 
1-   Al 17 Marzo l’Istituto Superiore di Sanità (quindi una voce autorevole, non complottista) pubblicava un report dove si dichiarava che, fra i casi di decessi esaminati, l'età media dei decessi era di 81 anni e solo 3 risultavano PER coronavirus, mentre gli altri erano CON coronavirus. Inoltre quei due casi necessitavano di ulteriori accertamenti. Infatti da più parti si è fatto notare che i decessi colpiscono soprattutto chi presenta patologie pregresse, con un quadro clinico piuttosto compromesso. Già negli anni scorsi si erano presentate delle situazioni allarmanti di infezione alle vie respiratorie, con crisi, sovraffollamento e intasamento delle strutture ospedaliere, situazione che negli anni si è aggravata a causa dei tagli draconiani subiti dalla nostra sanità pubblica, e anche a causa di una privatizzazione strisciante. Una semplice valutazione che andava fatta per giustificare e dichiarare lo stato di allarme è il confronto fra i casi di affezione alle vie respiratorie fra questo periodo e i precedenti negli anni scorsi: quante persone sono decedute per influenza, bronchite, polmonite e tbc gli altri anni? Il virologo Wolfgang Wodarg ha tracciato la genesi del coronavirus e di come si sia imposto all’attenzione delle autorità medico-governative.
 
2-   Una correlazione molto evidente si può osservare nella distribuzione della malattia con i livelli di inquinamento: molto alti sia nella pianura padana sia nel territorio di Wuhan. L’effetto patogeno delle nanoparticelle o polveri sottili (prodotti dall’industria, dai trasporti, dai riscaldamenti soprattutto a pellet, dagli inceneritori) non è stato sufficientemente indagato (Stefano Montanari e la moglie Antonietta Gatti sono delle autorità a riguardo); sembra che il loro bersaglio, visto che le respiriamo, siano i polmoni; non va neanche dimenticato altri inquinanti nelle falde acquifere (la pianura padana è un territorio dove l’agricoltura intensiva è predominante, con largo uso di pesticidi e fertilizzanti); non si sa ancora nulla circa gli effetti sulla salute della tecnologia 5G, che però oggi viene installata in spregio agli elementari criteri di sicurezza; infine va segnalato che a Bergamo c’è stata anche una campagna vaccinale poco prima di queste manifestazioni patologiche.
 
3-   Le zanzare che si trovano nell’acqua stagnante, e lì prolificano, non sono responsabili delle condizioni dell’acqua, ma trovano un ambiente adatto per svilupparsi. Quindi, se si vuole combattere le zanzare, occorre prima bonificare il territorio. L’immagine proposta può essere utile per comprendere il rapporto fra i virus e batteri con il nostro corpo. Tra l’altro virus e batteri sono sempre presenti, e nel nostro apparato digerente i batteri svolgono importanti funzioni. Il virus è un po’ una sorta di puzzle nella medicina e nella biologia, perché non ha metabolismo, vita propria, non si può coltivare isolatamente in vitro, così come si fa con le cellule e i batteri. Addirittura ci sono degli studi (Arthur Baker) che ipotizzano che i virus siano il residuo del processo di apoptosi (morte) cellulare che continuamente avviene nel nostro organismo, che deve rigenerare le cellule. E’ possibile che il processo possa incontrare delle difficoltà e che quindi si possa determinare un accumulo di questo materiale di scarto, principalmente come sezioni di acidi nucleici del DNA e dell’RNA che sono le proteine più resistenti. Agli albori della infettivologia Robert Koch formulò alcune regole per stabilire se un agente era patogeno (isolamento -> coltura -> inoculazione in un modello animale -> malattia) , che oggi non mi sembrano più applicate, perché si obietta che molti batteri e virus sono specifici per l’uomo, e che ci sono i portatori asintomatici (queste sembrano contorsioni dei clinici per salvare una teoria traballante, come quando si ipotizzavano gli epicicli dei pianeti per giustificare l’ipotesi geocentrica). Un virologo tedesco, Stefan Lanka, ha addirittura offerto un premio di 100 mila Euro a chi gli dimostrava l’isolamento del virus del morbillo. La sfida è stata oggetto di una sentenza della Suprema Corte tedesca, che ha dato ragione a Lanka, contro chi pretendeva di ritirare il premio. Anni fa, 30 o 40, vi fu la pandemia dell’Aids, una malattia che all’inizio colpiva gruppi di persone che praticavano dei comportamenti sessuali estremi o che erano tossicodipendenti; e che si manifestava con patologie rare, come il sarcoma di Kaposi e la polmonite da fungo, resistenti ai trattamenti. All’epoca interessi convergenti sposarono l’ipotesi virale (Robert Gallo), a danno della più sensata origine e causa tossica (Peter Duesberg, Eleni Papadopulos Eleopulos); farmaci chemioterapici che erano stati ritirati dal mercato perché altamente tossici come l’AZT vennero reintrodotti. Molte persone, soprattutto artisti, che erano positivi ma asintomatici, si sospetta vennero curati preventivamente con questi farmaci tossici che determinarono un esito infausto.
 
4-   All’apparire del virus si è subito invocato il vaccino come arma salvifica. Da anni i ministri della salute, gli organi sanitari e i media main stream insistono nel convincerci ad accettare questa pratica terapeutica, anche con obblighi riguardo ai bambini in età scolare o a chi presta servizio nelle strutture sanitarie. Molto probabilmente fra poco assisteremo a una pressante campagna per convincerci che il coronavirus si potrà vincere esclusivamente con una vaccinazione di massa; forse ci sarà anche l’obbligo, o comunque delle normative che renderanno impossibile sottrarvisi. Il sospetto che coloro che sostengono la pratica vaccinale non siano in buona fede viene rafforzato da alcuni episodi e comportamenti degli organi di informazione: l’ex ministro Beatrice Lorenzin, prima di fare approvare la legge sulle vaccinazioni, aveva fornito dati clamorosamente falsi, sostenendo che a Londra in un anno erano morti centinaia di bambini per il morbillo (avrebbe dovuto essere immediatamente processato per procurato allarme); in televisione e nei media nazionali c’è stata una presenza continua del virologo Roberto Burioni che ha sostenuto l’operato dei ministri della salute e l’efficacia della pratica vaccinale, però le voci critiche o dissenzienti di medici e ricercatori (Roberto Gava, Dario Miedico, Gabriella Lesmo, Stefano Montanari, Paolo Bellavite) non solo non venivano trasmesse, ma addirittura per alcuni si provvedeva a radiarli dall’ordine dei medici. Questi episodi fanno perdere la fiducia verso le istituzioni, ma la perdita di credibilità delle istituzioni ha come effetto il loro rafforzamento come burocrazia interna, e l'emanazione di normative capricciose e vessatorie.
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Mario M
Monday, 23 March 2020 07:54
C'è la tentazione di interpretare questi fenomeni in chiave ideologica, in uno schema economicistico. È ovvio che l'economia ha un ruolo, ma in un senso diverso di quello che intende Formenti.
Innanzi tutto questa sembra essere un'epidemia o pandemia inventate, nel senso che oggi non si registrano un numero significativamente più alti di decessi, e questi secondo molti studiosi di epidemiologia sarebbero da associare a: polveri sottili, fanghi sversati, 5G, campagne vaccinali, a cui ora si aggiungono queste restrizioni folli e demenziali che aggreveranno la situazione. Anche altre epidemie furono inventate, l'Aids è quella più nota
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ndr60
Sunday, 22 March 2020 17:45
Vorrei essere ottimista come l'autore di questo pregevole articolo. Temo però che la militarizzazione in atto del territorio, oggi causata dalla pandemia, sia solo il prologo di ciò che ci aspetta in futuro, quando la minaccia del virus sarà sostituita da altre minacce, più o meno reali, più o meno giustificabili. In guerra, il dissenso si chiama disfattismo, e viene punito duramente.
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