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avvenire 

«L'economia ha bisogno della filosofia»

Martha C. Nussbaum

Nussbaum critica le visioni fondate solo sulla matematica: «La filosofia stimola la giustizia»

Anticipiamo una parte dell’articolo della studiosa americana Martha C. Nussbaum pubblicato nel nuovo numero di “Vita e Pensiero”, il bimestrale di cultura e dibattito promosso dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Fra gli altri temi, il rilancio dell’Europa, la scommessa della teologia, la storia della massoneria.

Perché abbiamo bisogno della filosofia? Gran parte del mondo va avanti facendone a meno. Solo le teorie filosofiche della giustizia hanno ricevuto una certa attenzione rispettosa da parte di politici ed economisti. La teoria della giustizia di John Rawls, per esempio, è nota, per lo meno nelle sue linee essenziali, ai leader di molti Paesi occidentali, e le idee di Jürgen Habermas sul discorso democratico sono conosciute in Europa e hanno influenzato in qualche modo il dibattito pubblico. Inoltre, le visioni utilitariste dei pensatori ottocenteschi Jeremy Bentham e John Stuart Mill, benché perlopiù fraintese dagli economisti di oggi, sono ancora influenti in tutto il mondo. Volgendoci all’arena mondiale, comunque – alle discussioni sul welfare, i diritti umani, e su come paragonare i risultati e la qualità della vita di diverse nazioni –, le cose sono diverse. Gli economisti occupano il centro della scena e i filosofi, fino a poco tempo fa, erano del tutto ignorati. In parte, tale esclusione è provocata dal fatto che l’economia è una professione pienamente internazionale, con standard condivisi, mentre la filosofia è più varia e parla in modo differente nelle diverse culture. Questa esclusione è dovuta anche all’insofferenza degli economisti verso un lavoro discorsivo e non-matematico: l’economia, oggi, ha investito così tanto su modelli matematici altamente sofisticati da attrarre giovani che sono fondamentalmente dei matematici senza interesse per il ragionamento normativo. A costoro certo non piace sentirsi dire di tornare indietro al punto di partenza per ripensare ai fondamenti etici della loro attività, e in verità non sono nemmeno stati addestrati a compiere tale ripensamento. Infine, la suddetta esclusione è data anche da una certa arroganza diffusa tra gli economisti, incoraggiati dalla deferenza con cui sono trattati dai governi, per cui non sentono il bisogno di cooperare con altre discipline, e meno che mai con una disciplina di tipo umanistico come la filosofia. Questa esclusione è un fenomeno del tutto nuovo. I primi economisti, come Adam Smith, erano essi stessi dei filosofi. E anche più tardi, grandi economisti come John Maynard Keynes e Friedrick Hayek nutrivano un interesse appassionato per la filosofia. Oggi, il distacco è quasi totale. Degli ultimi vincitori del premio Nobel per l’economia, solo Amartya Sen, col quale ho avuto il privilegio di collaborare, è anche filosofo. Perché, quindi, è necessaria la filosofia nei dibattiti sul welfare globale e la diseguaglianza? Partiamo descrivendo com’era l’economia dello sviluppo senza l’apporto filosofico. Per molti anni, l’approccio alla povertà nel mondo da parte dello sviluppo internazionale e della programmazione politica è stato, in termini umani, ottuso. Incentrato sulla crescita economica considerata come il traguardo principale dello sviluppo, misurava la qualità della vita semplicemente in base al Prodotto interno lordo (Pil) pro capite. Questa rozza misurazione, naturalmente, non prendeva neanche in considerazione la distribuzione della ricchezza ed era del tutto inutile nel confronto tra nazioni con molta povertà e alti tassi di diseguaglianza. Era, in verità, peggio che inutile, perché assegnava voti alti alle nazioni che mostravano enormi diseguaglianze, incoraggiando le persone a pensare che le suddette nazioni (per esempio il Sud Africa sotto l’apartheid) avessero fatto le cose per bene. Inoltre, l’approccio basato sul Pil non contemplava il prendere coscienza di altri aspetti della qualità della vita non chiaramente collegati col beneficio economico, come salute, educazione, giustizia di genere e razziale. E, anzi, dando l’idea che le cose erano ben fatte quando il Pil delle nazioni aumentava, distoglieva l’attenzione dai suddetti fattori. Il Pil, in breve, eclissava ciò che è davvero importante per le persone, vale a dire la possibilità di vivere una vita di valore. Il reddito e la ricchezza sono cattivi parametri, specie riguardo al rispetto sociale, all’integrazione e alla non-umiliazione. Anche se equiparassimo completamente la ricchezza e il reddito, ciò non ci libererebbe dallo stigma e dalla discriminazione. Ma la giustizia non è l’unica questione filosofica che i professionisti dello sviluppo hanno bisogno di considerare; essi hanno bisogno, anche, di occuparsi seriamente di altre nozioni chiave ben trattate dai filosofi, e cioè: la natura della libertà; il senso e il significato del pluralismo etnico e religioso; la natura del benessere e della felicità; i concetti di desiderio, preferenza ed emozione. L’economia però ha la malaugurata tendenza a cercare di liquidare prematuramente queste enormi questioni, lasciando che la sofisticatezza matematica intraprenda il suo felice corso.

Comments

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Mario Galati
Saturday, 16 September 2017 21:17
Vedo che la studiosa evita accuratamente di citare Marx tra gli economisti filosofi. Non mi sorprende, visto l'approdo del suo ragionamento. L'autrice parte dalla giusta critica dell'impostazione della scienza economica dominante per finire con l'esposizione delle solite trivialitá pretesche sulla giustizia, la morale, la natura delle cose e il trito e ritrito sostegno confessional-psicologico, educativo ed edificante, alle persone, per aiutarle a rinunciare ai beni materiali e al reddito e a riconoscere i veri valori.
Si legge il titolo dell'articolo, si creano aspettative e ci si ritrova a spasso nella fiera delle banalità.
Alla larga dai premi Nobel e dalla loro cerchia.
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