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Democrazia genocida

di Bruno Guigue* | afrique-asie.fr

Esprimendosi dinanzi ai diplomati dell'accademia militare di West Point, il vicepresidente americano Mike Pence ha annunciato loro che presto si dovranno battere "contro i terroristi, in Afghanistan e in Iraq" , ma anche "contro la Corea del Nord che continua a minacciare la pace", "contro la Cina che sfida la nostra presenza nella regione" e "contro la Russia aggressiva, che cerca di ridefinire le frontiere con la forza". In altre parole, il sig. Pence parla come se gli stati sovrani citati nella sua dichiarazione avessero qualcosa in comune con le organizzazioni criminali che Washington afferma combattere incessantemente dagli attentati dell'11 settembre 2001. Un'amalgama stupefacente, una minaccia militare appena velata, l'arroganza di uno Stato che si crede custode a vita di uno imperium planetario, questa dichiarazione accorpa tutti i difetti simbolici dell'ideologia yankee applicata al resto del mondo.

Dal momento che la "nazione eccezionale" vuole combattere tutti coloro che la irritano, sarebbe molto più semplice indicare contro chi non si prevede alcuna azione militare, risparmiando tempo. Daltronde, il mondo non è forse a sua disposizione, oggetto passivo delle sue iniziative salvifiche e dei suoi impulsi purificatori? Come dispensatore di una giustizia immanente adattata a sua misura, la nazione del "destino manifesto" non pone limiti fisici alla sua aura benefica. L'extraterritorialità è la sua seconda natura.

E per raggiungere i suoi obiettivi pratica spudoratamente una retorica di inversione accusatoria, che oggi raggiunge contro l'Iran altezze ineguagliabili. Strangolato da un embargo a cui Washington vuole convertire l'intero mondo, circondato da trenta basi militari statunitensi, minacciato dal dispiegamento di un'armata aereonavale vicina alle sue coste, questo paese, che non ha mai invaso i suoi vicini, è accusato di "avvicinarsi pericolosamente" alle forze dello Zio Sam. Sul serio?.

Poiché questa propaganda surrealista fa parte del soft power dell'impero, non sorprende che sia trasmessa dai media mainstream. Da un'altra prospettiva, la stampa occidentale sta moltiplicando le sue indignate condanne e i suoi minacciosi ammonimenti contro la Cina in occasione del trentesimo anniversario del dramma di Tiananmen (1989). Per il quotidiano Le Monde, questa esplosione di "violenza inaudita" ha rivelato il volto totalitario del regime post-maoista. Ma questa stampa, così attenta ai diritti umani, dovrebbe completare il quadro per istruire i suoi lettori. I milioni di vittime delle guerre occidentali infatti, hanno dimostrato la superiorità morale della democrazia e hanno attestato l'universalità del suo messaggio salvifico. Finalmente libero dal suo rivale sovietico, l'Occidente trionfante lo ha preso a cuore. Ha moltiplicato gli attacchi chirurgici a scopi umanitari, i "cambiamenti di regime" per il trionfo del Bene, gli embarghi sui medicinali per fomare la gioventù e i "piani di adeguamento strutturale" per mettere al lavoro i fannulloni dei paesi tropicali .

Il trionfo planetario della democrazia liberale, quanti morti conta esattamente? Alcuni milioni, ma non importa: la lotta contro il totalitarismo aveva questo prezzo. Per Madeleine Albright, icona dei diritti umani e Segretario di Stato dell'amministrazione Clinton, i 500.000 bambini iracheni uccisi dall'embargo non contano: "il prezzo da pagare, ne è valsa la pena" ( "the price worth it"). Vittime insignificanti, cancellate, di misura pari a zero di fronte all'immensità dei benefici profusi dalla democrazia d'importazione. Nel 2019 ha pubblicato un libro in cui ha denunciato il "fascismo" che minaccia l'Europa e gli Stati Uniti. Ma non affidiamoci a questa anima bella per essere commossi dalle conseguenze della politica americana. L'economista Jeffrey Sachs ha recentemente rivelato i risultati di uno studio sugli effetti dell'embargo statunitense sul Venezuela: 40.000 morti dal 2017, questo è il bilancio. Per la maggior parte bambini privati dell'utilizzo di trattamenti costosi o di farmaci diventati inaccessibili. Ma non è "fascismo", ovviamente. È la meritata punizione per le ignominie commesse dai Chavisti, colpevoli di aver nazionalizzato il petrolio e arginato la povertà. Questo è il "prezzo da pagare" per ripristinare i "diritti umani" in un paese in cui il partito di governo, seppure vittorioso alle elezioni, è accusato di instaurare una terribile dittatura.

Vi è una coincidenza sorprendente tra la promozione della democrazia occidentale e il massacro di massa che ne è la sua applicazione pratica. Lo scenario è sempre lo stesso: si inizia con la dichiarazione dei diritti umani per finire con i B52. Ora questo trofeo della politica estera degli Stati Uniti - e dei loro alleati - è una diretta conseguenza del loro liberalismo. Questo aspetto della storia delle idee è poco conosciuto, ma la dottrina liberale ha perfettamente assimilato l'idea che per garantire la libertà di alcuni, sia necessario garantire la sottomissione di altri. Il padre fondatore degli Stati Uniti, un liberale come Benjamin Franklin, ad esempio, si oppose all'installazione di reti fognarie nei quartieri poveri, perché rischiava, migliorandone le condizioni di vita, di rendere i lavoratori meno cooperativi. In breve, dobbiamo affamare i poveri se vogliamo sottoporli e dobbiamo sottometterli, se vogliamo farli lavorare per i ricchi. A livello internazionale il potere economico dominante applica esattamente la stessa politica: l'embargo che elimina i deboli costringe i sopravvissuti, in un modo o nell'altro, a servire i loro nuovi padroni. Altrimenti, ci sono ancora i B52 e i missili da crociera.

Non è un caso che la democrazia americana, il modello che la Coca-cola ha diffuso a tutte le famiglie del villaggio globale, sia stata fondata da schiavi e genocidi. C'erano 9 milioni di amerindi nel Nord America nel 1800. Un secolo dopo, erano 300.000. Come disse Alexis de Tocqueville "La Democrazia in America" è arrivata con le sue coperte avvelenate e le mitragliatrici Gatling. I selvaggi piumati del Nuovo Mondo prefiguravano i bambini iracheni nel ruolo di questa umanità in soprannumero di cui si sarebbero liberati, senza rimorsi, se le circostanze lo avessero richiesto. Così, da un secolo all'altro, gli americani hanno trasposto il loro modello endogeno su scala mondiale. Nel 1946, il teorico e apostolo della Guerra Fredda del contenimento anticomunista George Kennan, scrisse ai dirigenti del suo paese che il loro compito secolare sarebbe stato quello di perpetuare l'enorme privilegio concesso dalle fortune della storia negli Stati Uniti d'America: possedere il 50% della ricchezza per solo il 6% della popolazione mondiale. Le altre nazioni saranno gelose, vorranno una fetta più grande della torta e bisognerà impedire che ciò accada. In breve, la "nazione eccezionale" non intende condividere i benefici.

Una caratteristica importante dello spirito americano ha favorito questa trasposizione della "democrazia americana" in tutto il mondo. È la convinzione dell'elezione divina, l'identificazione con il Nuovo Israele, in breve il mito del "destino manifesto". Tutto ciò che viene dalla nazione scelta da Dio appartiene di nuovo al campo del Bene, incluse le bombe incendiarie. Questa mitologia è la potente forza della buona coscienza yankee, quella che vetrifica intere popolazioni senza il minimo problema di coscienza, come il generale Curtis Le May, capo dell'aviazione americana, che vanta di aver fatto alla griglia col napalm il 20% della popolazione nordcoreana. Gli Stati Uniti hanno realizzato una congiunzione inedita tra una potenza materiale senza precedenti e una religione etnica ispirata al Vecchio Testamento. Ma questo potere è stato surclassato nel 2014 quando il PIL cinese, in parità di potere d'acquisto, ha superato quello degli Stati Uniti. E non è sicuro che l'Antico Testamento sia sufficiente a perpetuare un dominio che si sgretola inesorabilmente.


*) Bruno Guigue, ex studente dell'Ecole Normale Supérieure e dell'ENA, alto funzionario dello Stato francese, saggista e politologo, professore di filosofia nell'insegnamento secondario, docente di relazioni internazionali all'Università de La Réunion.

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