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Una terra di frontiera, ai tempi del coronavirus

di Dante Barontini

Con un intervento in calce di Guido Salerno Aletta

Nonostante le guerre alle porte di casa, l’informazione italica rimane fortemente “autarchica”. Quel che accade appena al di là del cortile domestico, spesso ristretto agli interessi societari dell’”editore di riferimento”, interessa solo come “colore” che non ci riguarda. Finché non ci precipita tra i piedi.

La guerra in Siria, per dirne solo una, proseguita da Erdogan, sta già producendo scontri tra profughi e polizia greca sul confine con la Turchia e preannuncia ondate tipo quella che fece rialzare muri di filo spinato lungo tutti i Balcani e fino a Trieste.

Quella in Libia, momentaneamente sottotraccia ma con identici protagonisti (Turchia, Russia, jihadisti, Unione Europea, ma senza un Assad, visto che Gheddafi è stato ucciso quasi 10 anni fa), non sta producendo gli stessi fenomeni solo perché è ancora inverno e le rotte delle migrazioni “gestite” da trafficanti professionali si sono molto allontanate dal deserto del Fezzan.

Così, con un’informazione da cortile, anche l’epidemia da coronavirus – un fenomeno decisamente globale – viene ridotta a questioncella regionale. L’unica novità starebbe nei lombardo-veneti (che portano certamente la colpa di aver votato ed eletto degli attori di serie zeta) trattati a livello internazionale quasi come i meridionali in odor di mafie alcuni decenni orsono.

Al massimo, sui media tutti uguali dell’establishment, si pubblicano stime fantasiose – come tutte le “stime”per fenomeni in corso di cui non si può conoscere l’estensione potenziale e la durata nel tempo – sui danni per il Pil 2020.

Al massimo, i partiti più grandi (Pd, Cinque Stelle e Lega) trovano un accordo silenzioso per strappare all’Unione Europea un margine di sforamento più ampio del deficit per far fronte alla spesa indispensabile per arginare il virus. Ma non riuscendo a trovare – per crassa ignoranza e statura intellettuale inesistente – un discorso pubblico all’altezza del problema che hanno di fronte, continuano a diffondere l’infodemia: panico e minimizzazione a giorni alterni, schizofrenia di massa, figure di m… come se piovesse. Non siamo ancora al “si salvi chi può”, ma ci stiamo avvicinando…

borse coronavirus

Eppure il “cigno nero” del coronavirus ha già prodotto la peggiore settimana di borsa dai tempi del crack di Lehmann Brothers. Ossia dal big bang da cui l’economia capitalistica occidentale non si è ancora ripresa dopo 12 anni.

Solo che, a differenza di allora, la “globalizzazione” ha lasciato il posto alla competizione globale.

Che significa? Che nel 2008, in tempi relativamente rapidi (seppur differenziati nei vari continenti), fu imbastita una risposta tendenzialmente unitaria a livello mondiale, con le banche centrali principali chiamate a inondare di liquidità i mercati per scongiurare il blocco delle attività (sperimentato per qualche giorno, comunque, a ridosso del crack della quarta banca d’affari del pianeta).

Oggi, tra guerre dei dazi, “prima noi” (ogni grande paese, ma anche quelli che non contano poi troppo…), “interesse nazionale”, “torniamo grandi”, ecc, non si vede all’orizzonte alcuna risposta tranquillizzante. E anche il coronavirus dà il suo contributo all’accentuazione della “competizione”, evidenziando le faglie tettoniche che si vanno scontrando sotto la superficie dell’economia mondiale. Diventando geopolitica.

Un contributo chiarificatore, come spesso accade, arriva da questo editoriale del solito Guido Salerno Aletta, pubblicato su TeleBorsa, che squaderna la portata della partita che si sta giocando già da qualche anno.

Usa, Europa e Cina (per stare solo ai protagonisti economici, altrimenti bisognerebbe calcolare anche soggetti rilevantissimi come la Russia e persino la Turchia) sono le tre principali “piattaforme” economiche, ed anche la reazione al coronavirus avviene tenendo conto delle relazioni reciproche esistenti. Si “indurisce” nei confronti dei competitor, si “ammorbidisce” con gli alleati fedeli, viene “graduata” verso quelli incerti o da riconquistare, magari staccandolo del blocco di appartenenza.

Il vaso di coccio, anche in questo caso, risulta l’Unione Europea. La sua crisi attuale è figlia di un modello fallito – quello ordoliberista di matrice tedesca – di cui però non si vuole siglare l’atto di morte perché ha imprintato in modo inestricabile la stessa costruzione istituzionale europea.

Forse è eccessivo dare già oggi la UE sull’orlo dell’esplosione, ma certo la sua incapacità di reagire ai problemi in modo “espansivo” – quando hai l’”austerità” come linee guida la tua capacità di individuare soluzioni si blocca – non depone a favore di un “futuro radioso”.

In questo terremoto crescente la povera Italietta, con una classe imprenditoriale in fuga e un ceto politico al di sotto di ogni possibile valutazione, fatto di facce strappate ai reality, appare chiaramente come terra di conquista, più che di confine.

* * * *

Coronavirus, l’Italia torna terra di frontiera

di Guido Salerno AlettaTeleBorsa

Anche la emergenza per la epidemia di coronavirus va inquadrata in un contesto del grande conflitto geopolitico che oppone gli Usa alla Cina.

L’Europa, o meglio quel che ne resta dopo la Brexit, sta per implodere: abbandonata la sua matrice filo-Atlantica che ne caratterizzava la nascita e l’evoluzione in funzione antisovietica, cerca di darsi un ruolo globale.

L’asse franco-tedesco cerca di inglobare l’Italia, tenendola a bada sotto il profilo dei conti pubblici e delle sue relazioni dirette, da una parte con Cina e dall’altra con gli Usa: senza l’Italia, l’Europa si sfalda.

Troppo debole per stare da sola, l’Italia ha bisogno di un contesto di alleanze: tutti la vogliono, per un motivo o per l’altro.

Questo è il cuore del problema: né gli Usa, né la Russia, né tantomeno la Gran Bretagna hanno interesse a che l’Italia si trasformi definitivamente in una semplice colonia franco-tedesca: sanno che, senza l’Italia, l’Unione Europa non può aspirare ad alcun ruolo globale.

Qui non si fa né dietrologia, né complottismo, ma ci si limita ad osservare che anche l’emergenza sanitaria per l’epidemia del coronavirus ha implicazioni geopolitiche.

Il fatto che l’Italia venga accusata in questi giorni di essere una sorta di “untore” sistemico, visto che sarebbero i viaggiatori provenienti dall’Italia a diffondere il virus, si presta ad una lettura chiara: siamo già stati isolati da una serie di Paesi extraeuropei, che mettono in quarantena chi arriva dall’Italia.

Siamo di fronte ad un segnale chiaro, politico, strategico: l’Italia rappresenta un fattore di rischio. Formalmente, sotto il profilo sanitario, per via della diffusione dell’epidemia, ma sostanzialmente sotto il profilo geopolitico.

Tacciono, finora, le autorità europee: sanno che, se per ragioni sanitarie dichiarassero la chiusura delle frontiere con l’Italia, decreterebbero nello stesso momento la fine dell’Unione che si fonda sulla libera circolazione di persone, merci e capitali.

La Cina, indispettita per la cessazione dei voli diretti da parte dell’Italia, tace. Ma constata che il nostro Paese l’ha ormai sostituita come veicolo della diffusione della epidemia: pur senza volerlo, ha proiettato su di noi la sua ombra negativa. Curiosamente, si sta pure immaginando un “ceppo italiano” per il virus, in modo da farne dimenticare l’origine cinese: un paradosso solo apparente, in questo conflitto geopolitico.

Solo il Vaticano tifa per una collocazione filo-cinese da parte dell’Italia: da sempre, dai tempi di Matteo Ricci, l’ambizione dei Gesuiti è stata quella di inglobare il Celeste Impero nel Regno di Cristo. Ora, con Papa Francesco, siamo di fronte ad una occasione storica, irripetibile.

Siamo divisi, terra di frontiera, come nel ’43: allora il discrimine era tra filoamericani e filosovietici. Ora, il gioco si è fatto più articolato: c’è chi punta ad annullare l’Italia all’interno del progetto europeo, che non è ormai altro che l’asse franco-tedesco; e c’è invece chi pensa che ci possa essere spazio al di fuori dell’Unione europea, pur senza avere il coraggio di esporsi in ordine all’adesione alla nuova compagine occidentale, che sostituisce la Nato con l’Anglosfera.

E’ un assetto, quest’ultimo, che mette insieme tutto il vecchio Impero Britannico, compresi gli Usa che ne furono a lungo una piccola colonia, che comprende il Canada e l’Australia, passando dall’India, fino alla Nuova Zelanda.

L’Italia ne sarebbe il pilastro, piantato nel Mediterraneo, come accade da un paio di secoli: dalla presenza inglese in Sicilia per bloccare l’avanzata napoleonica, ai tempi di Cavour e della guerra di Crimea combattuta a fianco dell’Inghilterra, alla Riunificazione dell’Italia con Garibaldi e Mazzini che erano di casa a Londra, all’accordo stipulato lì da Giolitti nel 1915 che portò all’abbandono della alleanza con l’Austria e la Germania, fino allo sbarco in Sicilia del ’43.

Tutto torna, con una regolarità impressionante, in tempi di crisi geopolitiche.

Pilastro dell’Anglosfera, colonia franco-tedesca o ponte verso la Cina?

Coronavirus, l’Italia torna terra di frontiera.

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