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“Squid Game”, la trasparenza infernale in una società iperconnessa

di Guy Van Stratten

Squid Game, la nuova serie Netflix sudcoreana scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk, mostra una trasparenza infernale. O meglio, mostra come la trasparenza che caratterizza la nostra società (secondo il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han viviamo infatti in una “società della trasparenza”) possa diventare infernale. La serie, il cui titolo in traduzione suona “il gioco del calamaro” (un gioco tradizionale per bambini), mostra come centinaia di persone ridotte alla miseria, oberate da debiti e da problemi di ogni tipo con la legge e la società, vengano reclutate per giocare una serie di partite il cui obiettivo finale è vincere una enorme somma di denaro. Solo dopo aver iniziato a giocare scopriranno che chi perde o non rispetta le regole del gioco verrà eliminato senza pietà. Tutti gli individui che si trovano nello spazio del gioco (una misteriosa isola) sono vittime della diseguaglianza della società fondata sul capitale perché, stritolati dai suoi spietati meccanismi, si sono ridotti alle soglie della povertà e dell’abbrutimento fisico e psicologico, come il protagonista Seong Gi-hun. Come afferma il Front Man, il capo mascherato delle altrettanto misteriose guardie che controllano lo svolgersi delle partite, il gioco offre loro la possibilità di essere tutti uguali; dà l’opportunità di poter vincere, di potere arricchirsi a chi è stato stritolato dalla legge del più forte che vige nell’universo capitalistico.

Ma l’idea di essere tutti uguali, di partire con le stesse possibilità, non è altro che una blandizie messa in campo dallo stesso sfruttamento capitalistico sugli individui.

Le dinamiche dei giochi e i luoghi in cui si svolgono possono infatti essere letti come una potente metafora della società capitalistica e di tutti i suoi risvolti contemporanei. Gli spazi in cui avvengono i giochi sembrano quasi dei gironi infernali in cui sono precipitati i dannati del capitale, coloro che hanno come obiettivo finale quello del perfetto capitalista, cioè diventare più ricchi, accumulare nel minor tempo possibile la maggiore quantità possibile di denaro. Sono coloro che hanno eletto a proprio modello di vita quello imposto dalla società capitalistica: diventare ricchi in poco tempo, senza guardare in faccia a nessuno. Non è un caso che quelli che vengono allestiti siano tutti giochi per bambini: il sistema capitalistico tratta infatti ogni individuo come una sorta di bambino viziato che piange e si dispera per raggiungere il suo giocattolo, in questo caso il montepremi in denaro, esibito nel dormitorio dei concorrenti come un magico trofeo, come il montepremi dei giochi a quiz televisivi. Una simbologia infernale di matrice dantesca era stata allestita anche da Pier Paolo Pasolini con Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975), in cui le sevizie operate dai repubblichini di Salò sulle loro vittime non erano altro che una metafora della violenza della società dei consumi. Se il capitale offre la possibilità di essere tutti uguali, dietro non ci potrà essere, allora, che la totale eliminazione dell’Altro. Come scrive Byung-Chul Han, “la comunicazione raggiunge la sua massima velocità là dove l’Uguale risponde all’Uguale, dove ha luogo una reazione a catena dell’Uguale, la negatività dell’alterità e dell’estraneità, o la resistenza dell’Altro, disturba e rallenta la piatta comunicazione dell’Uguale. La trasparenza stabilizza e accelera il sistema eliminando l’Altro o l’Estraneo. Questa coercizione sistemica rende la società della trasparenza una società uniformata. In ciò consiste il suo tratto totalitario: «Nuovo nome dell’uniformità: trasparenza»”[1].

Squid Game, quindi, potrebbe rappresentare anche una metafora di quella che, come già accennato, il filosofo sudcoreano definisce “società della trasparenza”, vale a dire la società contemporanea in cui, dietro l’egida del capitale, gli individui si consegnano, per mezzo dei social, a una trasparenza e a una ‘vetrinizzazione’ continue. Non c’è posto per l’Altro nel gioco di Squid Game. Tutti sono uguali fra di loro, la loro personalità è annientata nella tuta verde che sono costretti a indossare, ridotti soltanto a un numero. Sono ridotti a degli ingranaggi perfetti di un gioco spietato, sottoposti allo sguardo di fantomatici “vip” – forse ricchi esponenti del mondo politico ed economico mondiale (si esprimono in inglese) – che osservano il gioco tramite schermi per poi trasferirsi sull’isola e osservarli come in una specie di teatro. Infatti, come scrive Byung-Chul Han, “l’obbligo di trasparenza riduce l’uomo a un elemento funzionale di un sistema. In ciò consiste la violenza della trasparenza[2]. Lo sguardo dei “vip” che osservano gli esseri umani come tante cavie (in una modalità simile a quella rappresentata da Lars von Trier in Dogville), come tanti ingranaggi di un meccanismo spietato, ha in sé qualcosa di pornografico e osceno, perché “è osceno l’obbligo di abbandonare ogni cosa alla comunicazione e alla visibilità”[3]. Gli esseri umani blanditi dalla società della trasparenza si trasformano in cavie, in esseri meccanici (non è un caso che a scandire i movimenti del primo gioco ci sia proprio una bambola meccanica), sulle cui vite i “vip” fanno le loro scommesse, come le grandi multinazionali dell’economia e della finanza le fanno sulle vite degli individui. Questa sorveglianza totale della società della trasparenza, trasformatasi in un inferno, serve a mettere i partecipanti al gioco gli uni contro gli altri in una guerra tra poveri perché “ognuno controlla l’altro”[4]. Il controllo pervasivo fa in modo che ognuno diventi nemico e sospetto agli altri: vengono create le condizioni ideali per una rissa nel dormitorio comune e lo stesso gioco, progredendo, mette l’amico contro l’amico, il marito contro la moglie.

L’uguaglianza fra i partecipanti offerta dal gioco assomiglia a quella offerta dal mondo digitale. Il sistema capitalistico afferma che per mezzo della tecnologia digitale le barriere sociali fra gli individui vengono abbattute, che la connettività crescente è un sinonimo di libertà. Ma, come scrive Andrew Culp in Dark Deleuze, la connettività crescente non è altro che un ingabbiamento delle vite degli individui in una grande prigione[5]. Una parvenza di libertà è stata offerta anche dalla tecnologia digitale durante l’emergenza pandemica: la didattica a distanza e lo smart working vengono fatti passare come strumenti di libertà, di pianificazione delle differenze, ma in realtà agiscono come meccanismi imprigionanti, come strumenti che trasformano gli individui in cavie del nuovo capitalismo digitale che ormai avvolge completamente le nostre esistenze. E a questa trasparenza e a questa connettività tutti si consegnano volontariamente, con entusiasmo, come i partecipanti, pur essendosi resi conto della mostruosità del gioco, una volta usciti vogliono spontaneamente tornare a giocare.

L’aspetto più terribile messo in rilievo da Squid Game è proprio questo: la volontà degli individui a consegnarsi spontaneamente a un inferno della trasparenza. Il potere che presiede lo stesso gioco trasforma questa spontaneità, questa mancanza di costrizione in un’arma in suo possesso. Nessuno viene catturato e costretto con la forza e la tortura, come nelle prigioni e nei campi di sterminio delle società moderne. Nella contemporaneità digitalizzata, gli individui si consegnano spontaneamente ai propri carnefici, siano essi i truci guardiani di un gioco mortale o quegli strumenti digitali pervasivi presenti ovunque in una società iperconnessa. Chissà, forse, inconsapevolmente ci stiamo consegnando tutti a un globale “Squid Game”.


Note
[1] B.-C. Han, La società della trasparenza, trad. it. Nottetempo, Milano, 2014, pp. 10-11.
[2] Ivi, p. 11.
[3] Ivi, p. 27.
[4] Ivi, p. 79.
[5] A. Culp, Dark Deleuze, a cura di F. Di Maio, interventi di R. Ronchi e P. Vignola, Mimesis, Milano-Udine, 2020, pp. 36-37.

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