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Temere la complessità

di Fabrizio Masucci

Ospitiamo con grande gioia un bellissimo contributo, colto e profondo, che Fabrizio Masucci ci ha regalato. È un grande onore per noi ospitarlo e diffonderlo. Ricordiamo che Masucci ha dato le dimissioni dalla carica di presidente e dal ruolo di direttore del Museo Cappella Sansevero, quando hanno imposto il green pass per accedere al museo, con una lettera potente che invitiamo a leggere (1)

Immaginate sui mezzi di comunicazione: toni e contenuti esasperati, una tavolozza retorica grezza e morbosa, un vocabolario limitato e cupo, una brutale intimidazione – attraverso l’uso ricattatorio delle morti e del dolore – di ogni tentativo di ragionamento articolato, un’acritica e volenterosa adesione a una strategia presentata stolidamente da governo ed esperti come l’unica possibile. Ora mescolate il tutto con l’onnipresenza del messaggio. “Benvenuti in America, più o meno nel 2003”.

Perché, che avevate capito? A questo sforzo immaginativo ci invita George Saunders, uno degli scrittori statunitensi contemporanei più influenti (che brutta parola, direi piuttosto: uno dei più bravi!), all’inizio del suo agile saggio intitolato “L’Uomo col Megafono”, che restituisce con impietosa lucidità lo stato pietoso dei media americani nella fase successiva all’11 settembre 2001.

Negli ultimi due anni l’ho riletto più volte, perché trovo le riflessioni di Saunders drammaticamente sovrapponibili al quadro attuale dei media nostrani.

Del resto, a soffermarcisi un attimo, i due scenari hanno più d’un tratto in comune: il panico conseguente a uno shock – allora gli attentati, ieri lo scoppio della pandemia; la guerra dichiarata a un nemico pressoché ignoto, poco localizzabile e per questo più insidioso – allora un’imprecisata rete di terrorismo globale, ieri un nuovo virus; governi, allora come ieri, presi alla sprovvista e per questo smaniosi di decisionismo baldo e autoritario, all’insegna della sicurezza nazionale. Si potrebbe continuare, ricordando l’urgenza allora avvertita di dare un volto e un nome al nemico – come dimenticare gli Stati canaglia e l’Asse del male? – e di arrabattare prove, alcune delle quali rivelatesi clamorosamente fasulle, per convogliare su di lui odio e bombe. Quanto ai critici interni di una strategia governativa paranoica, ottusamente sprezzante della legge delle “conseguenze involontarie”, derubricate a “inevitabili danni collaterali”, beh… quelli non rispettavano le vittime, erano nemici dell’America. Vi ricorda qualcosa?

Penso all’impegno di Sara Gandini nel “tenere la complessità” e leggo in Saunders: “una cultura capace di immaginare in termini complessi è una cultura umile”, che agisce – quando deve – con la massima cautela “perché conosce i propri limiti e l’esiguo spazio di manovra del negozio di porcellane in cui è capitata”. Se da queste parti si è ammucchiato da due anni in qua un Everest di cocci, è perché l’allarme porta al parossismo una tendenza già galoppante sui media: il timore, la messa al bando della complessità. Date premesse siffatte, in simili frangenti “gli sproloqui, le insinuazioni, il gusto per il torbido, l’esasperazione di chi è già convinto” appaiono più efficaci “di un individuo scettico e intelligente che prova a confrontarsi con la complessità”. Prima vengono agitati spettri e poi ci viene offerta una bacchetta magica spuntata: prendere o lasciare. E noi ce la prendiamo grati, ma non gratis: dimentichiamo infatti che lo stress da cui veniamo sollevati – ossia il dovere di ragionare, accrescere il sapere collettivo attraverso dialogo e cooperazione e agire di conseguenza per provocare il minor danno – è, ci avvisava Karl Popper, lo scotto da pagare per restare umani.

Ora, c’è qualche milione di italiani che non riesce più ad aprire un giornale o ad accendere la tv. Problemi loro, penseranno in tanti, se non vogliono accettare la realtà. Non proprio, poiché i media sfornano e impacchettano “simulacri di mondo” che dal mondo reale (se mai ne esiste uno, ma qui ci tocca darlo per postulato) possono discostarsi molto, a causa di quel condizionamento reciproco e vizioso tra governo e informazione, che in congiunture emergenziali tende a creare un sistema sempre più “chiuso”, tagliando fuori quasi ogni elemento allogeno. Il guaio è che il vacuo rimestare nella stessa pozza di argomenti, etichette e indignazioni finisce con l’imporre un “tetto massimo di intelligenza” al discorso pubblico: tutti ci formeremo un’idea solo in reazione – favorevole o ostile – agli stimoli, ridotti e linguisticamente poveri, dell’Uomo col Megafono.

Se gli altoparlanti della mensa in cui ci rifilano ogni giorno lo stesso brodo celebrano senza tregua le virtù del brodo, che a noi proprio non va giù, troveremo pur qualcuno che condivide il nostro disappunto, ma state certi che parleremo del brodo. Oppure, immaginiamo il nostro problema come un iceberg: credete che lo affronteremmo in modo adeguato se il dibattito inscenato si limitasse al versante nord della parte emersa, ignorando gli altri versanti e, soprattutto, gli oltre quattro quinti sommersi della massa di ghiaccio? Bene, Saunders suggerisce che la differenza tra i costrutti plastificati dai media e la realtà, moltiplicata per l’insistenza del messaggio e la forza delle intenzioni, “equivale al male che verrà fatto”.

Siamo messi come gli Usa all’indomani dell’attacco alle Twin Towers? Ma no, dai, molto peggio: nel testo dello scrittore texano, pubblicato nel 2007, non si fa infatti il minimo cenno all’uso dei social network da parte del sistema dell’informazione. Poiché sulle piattaforme è molto più arduo riuscire a tenere il dibattito entro gli angusti schemi dei giornali e della tv, i profili social dei canali di informazione si sono intanto trasformati nel braccio armato delle redazioni. Nessuno vuol negare che in rete ci siano un bel po’ di bufale, ma sarebbe nell’interesse di tutti che chi è incaricato o si incarica del “fact-checking” non seguisse il caro, vecchio metodo “addò vede e addò ceca” (i non napoletani cerchino soccorso sul web). Nei suoi ultimi anni, Umberto Eco è stato tra i primi a mettere in guardia dalle fake news e dalle conseguenze nefaste del dilagare dei social; tuttavia, per non infoltire la truppa di coloro che definiva “nichilisti fiammeggianti”, ossia i deprecatori seriali della modernità, proponeva soluzioni adattative, basate necessariamente su una specifica formazione mirata a rendere l’utente avvezzo a destreggiarsi nell’oceano online. Con atto d’imperio, invece, l’Uomo col Megafono ha avocato a sé quel filtro che il sistema educativo omette di dare in dotazione ai singoli cittadini. Se “fact-checking” significa questo, è solo un ennesimo anglismo superfluo, per una parola italiana che esiste da secoli e comincia per “c”. Conosco l’obiezione più benevola: siamo in emergenza, dovremmo pensarci proprio adesso? Se non si inizia mai, le emergenze fioccheranno e ci troveremo nelle stesse condizioni.

In un memorabile – ma inascoltato – articolo dello scorso novembre, Natalino Irti, accademico dei Lincei, ammoniva sul “rischio storico” che il governo si sarebbe assunto qualora avesse prorogato lo stato d’emergenza oltre i limiti imposti dal legislatore, paventando una “crisi di sistema”. Mi permetto una considerazione a margine: il bombardamento di notizie, dichiarazioni, futilità in tempo reale – reso possibile dalla disponibilità di fonti e mezzi ad alta tecnologia e inimmaginabile anche solo vent’anni fa – espone oggi la società a una degenerazione in tempi assai più rapidi di quelli prevedibili dal legislatore. La boutade dello scienziato in giornata no, la provocazione del sindaco di una cittadina in cerca di visibilità, lo sfogo di un medico di base comprensibilmente sfibrato non avrebbero trovato modo, spazio e tempo per essere diffusi, ma dal momento che oggi lo sono, sommati insieme corrompono velocemente il clima sociale e accelerano i mutamenti. Temo, quindi, che il rischio sia già in corso da tempo.

Ai pochi arrivati fin qui, chiedo scusa per aver sciorinato ovvietà, ricorrendo ampiamente a chi è riuscito nella sempre difficile impresa di rendere chiaro l’ovvio. Parto sempre dal presupposto che ci sia più di qualcuno, da qualche parte, che ha pensato e detto prima e molto meglio di me. Credo che questa consapevolezza sia premessa necessaria per una cultura che possa misurarsi con la temuta complessità. Concludo allora avvalendomi per l’ultima volta di Saunders, che – neanche lui è un antimodernista – non si limita a deprecare, ma consiglia: “Ogni ben ponderata confutazione del dogma, ogni barlume di logica intelligente, ogni riduzione ad assurdo della prepotenza è l’antidoto. Ogni richiesta di chiarimento del vago, ogni altolà alla banalità compiaciuta, ogni segno di matita rossa su un documento da correggere è l’antidoto”.

Il mio grazie a Sara Gandini e al gruppo di GocciaAgoccia.net, che si affannano a portare in giro, con pazienza e umiltà, la loro matita rossa, anche mentre i Sopralunari – mi giunge voce – sono tutti presi dall’elezione del Grande Capo.

 

Riferimenti, link e amenità

“L’Uomo col Megafono” di George Saunders è stato pubblicato in Italia da minimum fax nella raccolta “Il megafono spento. Cronache da un mondo troppo rumoroso” (2009) e tradotto da Cristiana Mennella. Ora è anche in: George Saunders, “L’era del cervello piatto”, Feltrinelli (2020).

Un estratto del saggio è disponibile a questo link: https://www.minimaetmoralia.it/…/un-regalo-nella-calza…/

Qui potete vedere come il giornalista Bill O’Reilly, nel suo talk-show su Fox News, tratta Jeremy M. Glick e alla fine gli toglie la parola. Figlio di una delle vittime dell’11 settembre, Glick era colpevole di esprimere un giudizio poco lusinghiero sulla politica estera di Bush. Ascoltate, lo troverete stranamente familiare: https://www.youtube.com/watch?v=3BAFb97L3KU

Per una spiegazione sintetica del detto “Addò vede e addò ceca”: https://dettinapoletani.it/bwl…/addo-vede-e-addo-ceca/“I nichilisti fiammeggianti” è in: Umberto Eco, “Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa”, Bompiani (prima edizione: 1964)In questa intervista del 2010, Umberto Eco parla lungamente di internet e propone il “modello della bottega artigiana” per insegnare a orientarsi in rete: https://www.lindiceonline.com/…/umberto-eco-internet/

L’articolo di Natalino Irti è qui: https://www.lastampa.it/…/lo_stato_d_emergenza_e_i…/L’esempio dell’iceberg l’ho mutuato da Ernest Hemingway, il quale utilizza l’immagine in tutt’altro contesto per parlare del mestiere di scrittore. Ovunque egli sia, che possa perdonarmi l’empietà.

Il brodo è mio.


Note
(1) https://www.museosansevero.it/lettera-fabrizio-masucci/

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