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sinistra

Ucraina: il bambino conteso

di Anna Maria Sassone

Breve testo sulla guerra segnalato da Roberto Finelli. L'autrice è una psicoanalista junghiana

Anni fa mi chiamarono per una consulenza al Tribunale Civile di Roma, si trattava di decidere l’affido di un bambino di sette anni, che chiamerò Luigi. I due contendenti, la madre e il padre, avevano da anni innescato un feroce conflitto con inevitabili, devastanti, conseguenze per la stabilità emotiva del figlio.

Impossibile per Luigi dare ragione all’uno o all’altro.

Luigi: “Sai qual è il mio problema?”

Analista: “Vuoi dirmelo?”

Luigi : “Mamma e papà litigano, ma io non riesco a capire chi ha ragione… forse ero troppo piccolo quando hanno iniziato a litigare”.

Risuonavo, ricordo, con il senso di spaesamento e di angoscia di Luigi: era lui che si faceva carico delle colpe, quella di essere troppo piccolo, di non riuscire a capire, di non riuscire a schierarsi nella folle lotta di potere innescata dai genitori.

In quel momento mi resi conto sia del mio limite sia della preziosità di una visione, l’esperienza mi aveva insegnato che per me era, ed è ancora, impossibile non considerare la complessità che ogni conflitto reca in sé e con sé.

Le ottuse ragioni delle singole parti, le mediazioni il più delle volte fallimentari per la profondità delle radici del conflitto in atto, rendono il più delle volte impossibile definire la parte che “vincerà” il bambino.

Perché in genere di questo si tratta: nelle lotte di potere tra genitori importante è vincere il bambino, mostrandoci a tutto tondo che i figli si trasformano in mezzi per annientare l’altro.

Oggi si parla spesso di “néné” a proposito della difficoltà di molti a trovare una propria collocazione, la propria definizione di parte nel conflitto armato tra Russia e Ucraina, o forse dovremmo dire tra Russia e Nato, tra Occidente e Oriente, di cui i civili, i “figli dell’Ucraina” o i soldati, figli inconsapevoli della madre Russia, ne subiscono le conseguenze.

Il piccolo Luigi ed io potremmo dunque essere definiti due “néné”, secondo l’interpretazione che ne viene comunamente data, neutrali perché incapaci di prendere una posizione, di schierarci sulla singola ragione. O peggio considerare la resa alle pressanti richieste di definizione come attitudine a strizzare nascostamente l’occhio al nemico di turno.

Il né…né (e non il néné) rimanda invece ad una lettura complessa e non superficiale degli eventi, rimanda alla riflessione sulle ragioni in gioco che non possono, e non dovrebbero, lasciare spazio a schieramenti di fronte, sempre parziali.

Se si apre un conflitto, e dunque una guerra, situarsi sul piano di chi ha torto o ragione è fuorviante, i conflitti non ci sarebbero se non ci fossero le ragioni delle singole parti. Non si tratta allora di individuare dove sia la ragione, ma di comprendere le ragioni stesse del conflitto che inevitabilmente non possono che lasciare morti e feriti, reali o metaforici, sul campo.

Il più delle volte non consideriamo infatti come i movimenti della psiche, ovvero i movimenti delle emozioni e degli affetti, così come i movimenti dei meccanismi di difesa che si attivano nelle relazioni tra gli esseri umani , rispecchino quanto avviene nella dimensione collettiva, nei gruppi, nelle masse.

Il personale può rendersi universale per aiutarci a comprendere come e cosa muove il mondo, in un gioco di rispecchiamenti tra microcosmo e macrocosmo, tra ciò che è dentro di noi e ciò che è fuori di noi.

Un mondo manicheo che si divide in buoni e cattivi, con la facile e seduttiva attribuzione delle colpe all’altro, ci narra sempre dell’esistenza di una scissione e di una proiezione in atto: ti attribuisco quello che mi appartiene e che non voglio né vedere, né riconoscere in me.

Quella cortina che divide l’amico dal nemico, il noi dal loro, l’io dal tu, diventa come la rete di un campo di basket o di pallavolo, facile passaggio di colpe, responsabilità, dall’una all’altra parte.

In questa prospettiva dove ci sono angeli e demoni, vittime e carnefici chi parteggia per lo stato di vittima ha gioco facile.

Rischiamo tuttavia di dimenticare che in mezzo si trova il bambino conteso, quello che è realmente vittima del gioco tra le super-potenze genitoriali.

Nella storia di Luigi uno dei due genitori era francamente riconoscibile come il cattivo, i soprusi sull’altro erano chiari, leggibili, manifesti. Non lasciavano dubbi alcuni.

Ma dietro la facciata della vittima il volto altro, quello che dietro vi si nascondeva, era davvero così innocente?

Le comunicazioni manipolate, le provocazioni usate come armi, la volontà di potenza, lo spirito vendicativo parlavano di una violenza invisibile che invadeva pesantemente lo spazio della relazione e nullificava qualunque intesa possibile.

Molte e molte volte ho udito narrazioni fatte a se stessi intessute da convinzioni così forti da diventare particolarmente convincenti ad orecchie poco allenate. E’ come dire: la racconto perché me la racconto e in tal modo l’adesione alla narrazione non è più solo formale ma si rende sostanziale.

Si tratta spesso di vedere all’opera i meccanismi di negazione, anche della realtà. Le potremmo chiamare narrazioni in buona fede, guidate tuttavia da un inconscio che la fa da padrone. Altre volte prevale la bugia patologica, l’omissione consapevole, l’onnipotenza della perversione sorretta da una volontà di dominio che si fa guida dei comportamenti.

E’ sufficiente omettere un particolare e la realtà cambia, si deforma, e l’ascoltatore si trova senza rendersene conto al cospetto di una comunicazione manipolata e di conseguenza con i suoi stessi sentimenti e con le sue stesse emozioni manipolate.

E i figli di Ucraina e di Russia, fratelli tra loro, fratelli anche nelle naturali dinamiche di amore e odio, diventano le vere vittime del conflitto genitoriale.

Le narrazioni di molti genitori, o anche di figli non ancora consapevoli, ci aiutano a comprendere come sia seduttivo aderire al noto modello: lo faccio per te, solo nel tuo interesse.

La bontà illimitata viene messa in scena: il genitore buono, del tutto volto e votato all’interesse del figlio, attrae e cattura l’immaginario collettivo .

Ancora oggi risuonano, e non solo nella stanza d’analisi, le parole “non mi sono separata solo per il bene dei figli”, “se ho lavorato da mattina a sera è stato unicamente per i figli”.

Madri e padri martiri, ma in realtà alieni, uomini e donne incredibili perché non credibili, che si dipingono e configurano privi di bisogni, privi di un proprio interesse, di un motivo personale che spinge al sacrificio.

In questi casi l’interesse, il motivo personale, il bisogno è sempre celato, anche a se stessi. Quale trappola per chi ascolta, quale seduttiva narrazione è questa, anche per lo stesso narratore! La visione manichea è servita su un piatto d’argento e diventa cibo per chi ama le favole. E forse fintantoché non ci si dà pace sull’essenza dell’umano, finalmente consapevoli delle forze anche psichiche in gioco, nessuna pacificazione può darsi nei tanti conflitti “familiari” che feriscono e segnano il mondo che abitiamo.


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