
Una buona società è possibile
di Patrizio Paolinelli
La filosofa della politica Giorgia Serughetti ha dato alle stampe un libro controcorrente intitolato La società esiste (Laterza, Bari-Roma 2023, pag. 174, 18,00 euro). Il volume costituisce una critica al neoliberismo e pone il problema del suo superamento. Ma andiamo con ordine.
Serughetti interpreta la pandemia da Covid 19 (2020-2023) come l’evento che ha inflitto all’ideologia neoliberista un duro colpo perché ha dimostrato l’importanza delle strutture pubbliche e persino l’allora premier britannico, Boris Johnson, fu costretto ad ammettere l’esistenza della società altrimenti gli inglesi non sarebbero usciti dall’emergenza sanitaria.
Nella storia, si sa, i processi sociali hanno bisogno di tempo per maturare e il peso della celeberrima battuta della Thatcher, “La società non esiste”, aveva alle spalle trent’anni di concrete applicazioni finalizzate a ridurre la spesa pubblica volta a sostenere i salari e il benessere dei cittadini. Perciò non è bastata la pandemia per invertire la rotta delle politiche economiche neoliberiste. Le quali continuano ancora oggi a demolire il Welfare state e a permettere all’imprenditoria privata di appropriarsi delle risorse dello Stato.
Gran parte del libro della Serughetti è dedicato ad analizzare gli effetti sociali del neoliberismo. E bisogna dire che le sue riflessioni sono molto ben articolate, convincenti e irrobustite dalla padronanza di una notevole bibliografia.
L’esperimento neoliberale non si può dire certo riuscito. D’altra parte, non c’è bisogno di essere degli accademici per toccare ogni giorno con mano il progressivo aumento delle disuguaglianze sociali, il declino dei servizi pubblici, l’aumento dell’aggressività, la caduta culturale delle giovani generazioni, la diffusa paura del futuro.
In estrema sintesi, oltre trent’anni di politiche neoliberiste hanno prodotto una cattiva società. Ma va fatta una precisazione: cattiva società per gli standard di noi europei, ancora attaccati all’idea dei diritti universali (scuola, casa, lavoro, sanità e così via). Buona invece per chi non contempla tali diritti. Sotto questo profilo il neoliberismo non è altro che il rovesciamento del modello sociale statunitense nel Vecchio continente. Per compiere questa riconversione occorre fare piazza pulita della tradizione dei diritti sociali. Una tradizione dura a morire, ma che già i ventenni di molti paesi europei non conoscono più, mentre conoscono molto bene il principale comandamento neoliberista: tutto dipende dal conto in banca.
Accanto alla demolizione della memoria dei diritti sociali è in corso di ultimazione il passaggio dello Stato da padre premuroso a padre castigatore che premia il profitto privato, punisce la povertà, reprime chi contesta e prepara i figli alla guerra. Nei suoi tratti essenziali questa matrice ricalca quella statunitense. Una matrice che produce un’a-società governata da oligarchie economiche, politiche, militari e mediatiche.
È dunque più che lecito porsi l’interrogativo: la società esiste o non esiste? La risposta della Serughetti è esplicita sin dal titolo del suo libro. Una risposta in netta contrapposizione all’ideologia neoliberista che vide nella celeberrima battuta di Margaret Thatcher, “La società non esiste”, lo slogan perfetto per abbattere il Welfare state e permettere all’imprenditoria di dare l’assalto alle casse dello Stato. La Lady di ferro era una talebana del mercato e la sua battuta contribuì a popolarizzare le politiche economiche delle democrazie liberali. Politiche finalizzate a demolire la pratica della solidarietà sociale ovunque si annidasse per far posto a un individualismo primitivo degno dello stato di natura di hobbesiana memoria.
A quanto ci risulta la famosa battuta della Thatcher non provocò la sollevazione dei sociologi. Anzi, la sociologia soggettivista prese ancor più slancio e oggi imperversa nelle università. Un’egemonia dagli effetti persino paradossali perché una sociologia che ha come centro di gravità l’individuo (e magari aggiunge che le classi non esistono) rischia di mettere in crisi la stessa disciplina. Tuttavia un rischio maggiore lo corre la società dei diritti universali. La quale conosce il sistematico attacco neoliberista alle sue concrete articolazioni da circa quarant’anni a questa parte.
Per Serughetti i risultati di questo attacco hanno prodotto quattro linee di frattura. La prima è quella tra élite da un lato e ceti medi e popolari dall’altro; la seconda è tra centro e periferia (divisione che riguarda sia lo spazio sia gli abitanti separati tra chi è in e chi è out); la terza frattura è tra Io e collettività, conseguenza di un ethos fondato soprattutto sulla competitività; la quarta e ultima frattura consiste in forme di tribalismo che radicalizzano l’opposizione tra “noi” (che ci difendiamo) e “loro” (che ci minacciano) esacerbando i tanti discorsi sull’identità (razza, genere e così via).
Come curare queste quattro fratture e rimettere in piedi l’idea di società? Serughetti fornisce una risposta tutta politica. I tanti attori sociali che tentano di risolvere questa o quella contraddizione, questa o quella ingiustizia possono agire su due piani. Il primo è teorico e consiste nell’uscire dalle strettoie dell’identità. Per fare un esempio, le rivendicazioni femministe dovrebbero coniugarsi con l’appartenenza di classe delle donne. Il secondo è pratico, e consiste nella costruzione di una rete di alleanze in grado di connettere lotte e movimenti sociali differenti per costruire una buona società. La realizzazione di questa strategia sembra molto complicata, ma l’obiettivo è sicuramente nobile.
Al di là della fattibilità politica di unificare soggetti sociali eterogenei e finora prevalentemente autoreferenziali, La società esiste è un libro intellettualmente coraggioso per almeno due motivi. Il primo, perché non risparmia nessuno: non risparmia il neoliberismo, non risparmia le sinistre moderate che ne sono state sedotte, non risparmia i populismi e non risparmia il femminismo mainstream. Il secondo motivo, perché riporta il ruolo del sociologo alla sua funzione originaria: denunciare i problemi sociali e impegnarsi per risolverli. Possibilmente facendosi capire da tutti come ottimamente fa Giorgia Serughetti.






































Comments
L'insistenza sul presunto modello di svolta neoliberista incorpora una contraddizione, dato che il dogma liberista, pur portato al suo estremismo fanatico, non cambia nel diventare l'architrave del paradigma neoliberale fascista, (è il concetto di liberalismo a modificarsi), che anzi, nonostante ricorsive e prevedibili crisi, non solo si è mantenuto saldo, ma con la sostituzione di facciata di alcuni slogan liberisti con principi più pragmatici e autoritari si rafforzerebbe.
Il liberismo e il laissez-faire sono pseudoteorie e ideologie, che, per i caratteri non scientifici, erano state ampiamente screditate e di cui non ci si apettava alcun ritorno in auge. La classe dominante attraverso i suoi sicofanti e il controllo degli organi di propaganda, che fino allo sviluppo del web protocol avevano il monopolio assoluto della [dis]informazione, con una relativa facilità riuscì a attribuire la crisi da crescita del capitalismo degli anni settanta al modello economico di gestione statale del capitalismo del dopoguerra,(che ne fu invero occasione), e a diffondere due miti, il primo, che con l’eliminazione dell’intervento dello stato in vari ambiti economici e dello stato sociale gli individui (sognatori) delle classi inferiori, meno oppressi da ingiustificati oneri e lacci e lacciuoli, si sarebbero arricchiti più velocemente e sarebbero anche loro diventati milionari, (invece logicamente si sono trasformati in “liberi” schiavi del manipolo si super arricchiti bilionari). Il secondo mito, quello delle privatizzazioni, convolge quella che sembra essere una congenita illogicità della natura umana, che si abbandona superficialmente alle illusioni e in questo caso alla inverosimile credenza che monopoli o quasi monopoli trasferiti nelle mani di rapaci oligarchie miracolosamente ridurrebbero i prezzi per le classi inferiori, invece di incrementarli, moltiplicare i debiti, tagliare gli investimenti e estrarre cospicue rendite finanziarie a vantaggio dei pochissimi azionisti.
La commemorazione della risposta al pericolo del virus sembra un poco affrettata e condiscendente con il modello nazifascista, su cui si è basata.
Infatti, dopo che inizialmente il rischio venne sottostimato e fantasisti celebrarono ideologicamente comportamenti incoerenti, di repente si consolidarono il fascismo, lo scientismo e la censura dei burocrati, alcuni dei quali tragiche figure da avanspettacolo.
Sulla origine del virus, un preventivo dettagliato articolo sul Washington Post, che sollevava dubbi sul ruolo di azzardati esperimenti in laboratorio, venne silenziato e ogni riferimento sottoposto a pesante censura.
L'imposizione assolutistica e dogmatica del prototipo della vigile attesa, contro il suggerimento da parte di diversi specialisti di aggredire immediatamente e rapidamente con anti infiammatori la malattia, sembra avere causato più danni e morti che benefici.
L’imposizione dittatoriale, mediante l’uso di manganello e olio di ricino, contro ogni scrupolo di supposto “liberismo” e libertà individuale di scelta, di fantomatiche mascherine e divieti, tra cui di camminare e balneare in solitudine e di sieri genici sperimentali, etichettati come vaccini e sopravvalutati nella loro efficacia, sembra allinearsi alle esigenze del neoliberalismo fascista e pertanto la sua commemorazione soddisferebbe l’esigenza di eliminare artificiosi slogan liberisti che potrebbero ritorcersi contro.
La tematizzazione pressoché esclusiva della (generica) società non manca di apparire un poco singolare, quando le questioni concernenti le scelte politiche rivolte alla definizione degli spazi e ruoli dello stato, organizzazione dei flussi finanziari e strutturazione della cosiddetta governance delle istituzioni e corporations risulterebbero più cruciali.
Inoltre la Thatcher, che fu una piccoloborghese ideologizzata, intellettualmente limitata e priva di cultura, classica figura di marionetta capitata a proposito per i dominanti, dichiarò successivamente disinvoltamente di essere stata fraintesa, “My meaning, clear at the time but subsequently distorted beyond recognition, was that society was not an abstraction, separate from the men and women who composed it, but a living structure of individuals, families, neighbours and voluntary associations.“, cioè la società esiste effettivamente in termini concreti e il suo compito, della Thatcher, nella pratica, dietro accattivanti slogan per le classi inferiori, fu quello di edificare il neoliberalismo fascista e privilegiare, nell’ambito della società i gruppi e le oligarchie feudali miranti alla acquisizione di un potere dispotico e alla estrazione di rendite finanziarie.
L’intera narrazione è poi segnata da un fiero sentimento di ostilità contro il recupero da parte degli stati di ogni possibile nazionalismo, per la difesa degli interessi nazionali e capacità di controllare o influire maggiormente sulle politiche economiche e monetarie, a porre un freno ai postulati dell’austerità intransigente e dell’internazionalismo terzomondista.
In parallelo viene reiterata la convenzionale deplorazione, che ormai in gran parte scade nella commedia ridicola, contro i pericoli della ricomparsa del nazifascismo, rappresentato dai partiti che raccolgono lo scontento contro il neoliberalismo e suoi effetti, quando di fatto il neoliberalismo, non a caso basato su distrattivi e fantasiosi assiomi liberisti, interpreta specifiche politiche fasciste e quando la sinistra o sedicente tale ne è diventata l’incondizionata promotrice. Al massimo si avrebbero due fascismi in opposizione, il secondo dei quali, più recente, deve ancora accreditarsi completamente presso i dominanti.
Nessuna specifica menzione è fatta in merito al genocidio in corso e alla guerra contro la Russia, entrambi pienamente supportati dalla irresponsabile e non eletta commissione europea, (alcuni componenti della quale sono pure figlie e nipoti di vecchi nazisti e altre ascari e demenziali esponenti di stati villaggio).
Le conclusioni dell’autrice restano ampiamente condivisibili, la politica della cura rivolta al superamento di tutte le ingiustizie che affliggono molteplici soggetti e vanno dalla ingiustizia climatica a quelle sociali appare auspicabile.
Tuttavia la sostanza della proposta, che procede dal riconoscimento di quella che sarebbe una generale percezione in conseguenza della crisi finanziaria e della “policrisi”, dell’emergere di una estesa insoddisfazione di un ordine discorsivo, prima ancora che economico e politico, (dubbi sui supposti principi giustificativi del “neoliberismo”, cancellazione della società e individualismo competitivo), si affida a un generico sforzo di unità, nel quale convergano le lotte, gli attori, i soggetti, i movimenti collettivi e pure le autorità pubbliche, imprese, “comunità scientifica e i cittadini. Ciò alla fine potrebbe tradursi in un adattamento del capitalismo neoliberale fascista, che elimina slogan neoliberisti, recupera il ruolo dello stato subordinato alle istanze di valorizzazione finanziaria del capitale finanziaria e accentua il fascismo della censura e pensiero unico magari meno retoricamente neoliberista ma altrettanto unilateralmente e autoritariamente basato sullo scientismo, sulla banalità del male e sul supposto possedimento di una verità astratta superiore.