L’Università neoliberale, una fiera delle illusioni
di Antonio Cantaro
Venerdì 9 maggio ad Urbino alle 17 (Collegio Raffaello, P.zza della Repubblica) confronto su “L’Università italiana oltre il neoliberismo” tra Alfredo D’Attorre (resp. università PD), Tuscia Sonzini (FLC Cgil), Davide Clementi (Ass. nazionale dottorandi) e Antonio Cantaro (costituzionalista, Urbino)
Si scrive Università neoliberale si legge crescente privatizzazione e commercializzazione della ricerca e dell’istruzione, aumento delle tasse universitarie, riduzione dell’intervento pubblico, declino del governo autonomo dei processi formativi, ascesa di una governance aziendalistica e tecno-burocratica. Le vittime di questa fiera delle illusioni sono la ricerca e l’insegnamento, dunque l’autonomia della nazione; e i saperi, dunque il futuro delle giovani generazioni.
Privatizzazione, commercializzazione, riduzione del pubblico
Privatizzazione significa, innanzitutto, aumento del ruolo del settore privato nell’erogazione dei servizi universitari, inclusi la gestione delle strutture, la ricerca e talvolta anche la formazione. Ma anche aumento delle tasse universitarie al fine di finanziare l’università attraverso la partecipazione diretta degli studenti. Commercializzazione della ricerca e dell’istruzione significa crescente attenzione alla traduzione dei risultati della ricerca in prodotti e servizi commerciali e alle, più o meno presunte, domande ed esigenze del mercato del lavoro.
Riduzione dell’intervento pubblico significa riduzione della spesa per l’istruzione superiore e maggiore responsabilità degli istituti universitari nel finanziamento della propria attività.
Una sterminata letteratura ha evidenziato gli effetti più visibili di questi tre indirizzi delle politiche dell’istruzione. Crescente inaccessibilità per gli studenti provenienti da famiglie con redditi più bassi. Riduzione dell’attenzione degli studenti verso gli studi umanistici e maggiore attenzione alle materie tecniche rappresentate come più funzionali in sé all’ingresso nel mercato del lavoro.
Sorgono tre ineludibili interrogativi per chi non si lasci abbagliare dalle “magnifiche e progressive sorti” del concretismo, il male oscuro delle società neoliberali. Primo. Funziona? Secondo. In che senso funziona? Terzo. Questa cosa che funziona – l’Università neoliberale – è anche una cosa sana e giusta?
Funziona?
Funziona, se decliniamo in modo banale l’hegeliana legge che tutto ciò che è reale è razionale. Siamo ormai a quasi mezzo secolo di politiche che vanno in direzione dello smantellamento dell’Università di massa e della sua autonomia: le riforme Ruberti nel 1990, quelle di Renzi del 2015, la riforma del 3+2 di Berlinguer, quelle di Moratti, Gelmini, Monti e oggi le politiche del governo di centro-destra.
In che senso funziona?
Funziona perché il progetto politico-antropologico che sta dietro le diverse riforme e politiche è adeguato all’orizzonte breve e di corto respiro che è la cifra dei nostri tempi. L’impoverimento delle capacità di pensiero ed espressione di docenti e studenti è ciò che in modo miope chiede il dominante modo di produzione neoliberale nella convinzione che da ciò discenda un potenziamento della competitività del sistema delle imprese e del cosiddetto sistema paese.
Funziona per la complicità del nostro corpo docente che coopera attivamente all’implementazione di criteri di valutazione di stampo iper-industriale, in una logica che misura ogni attività o prodotto esclusivamente in termini di valore economico quantificabile, indipendentemente dal suo reale significato o dalla sua utilità didattica e formativa. Ma funziona anche in virtù della passiva e complice accettazione della maggioranza degli studenti alla scarnificazione e banalizzazione dei saperi vissuta come una comoda scorciatoia per un nefasto diritto al successivo formativo: frammenti quantificabili di conoscenza, ridotti a voti e crediti, a discapito di ogni forma di riflessione, condivisione di pensiero (https://jacobinitalia.it/nel-ventre-dellaccademia-neoliberale/). Una aberrazione che non ha niente a che vedere con il disegno della Carta costituzionale: la Scuola e l’Università come bene comune, istituzioni pubbliche e inalienabili rispetto agli interessi privati.
Funziona, ma è una cosa sana e giusta?
Funziona nella misura in cui l’interesse della nazione è solo quello di accrescere la competitività delle imprese nei mercati e non anche quello di accrescere la produttività, la modernizzazione e la civilizzazione del Paese nella sua interezza e nelle sue preziose differenze e articolazioni.
Questo sano e giusto orizzonte esigerebbe che la missione dell’Università fosse quella della formazione di un individuo sociale completo, la custodia del sapere come il più comune dei beni, l’insegnamento come condivisione di questo prezioso bene. Oggi, al contrario, studenti e studentesse in un percorso a sempre più alta velocità ‘mangiano’ tantissime conoscenze e nozioni. E gli è così sottratto il tempo per digerirle e farle proprie, nella misura in cui il tempo di apprendimento viene sempre più considerato alla stregua del tempo di lavoro dentro l’impresa, come se i due ambiti, fossero analoghi, misurabili e standardizzabili allo stesso modo.
Docenti e studenti imprenditori di sé stessi esige il paradigma neoliberale. Atenei messi in competizione tra di loro non per il merito, come retoricamente si narra, ma in quasi mercati sulla base dei finanziamenti che riescono a ottenere. Studenti che vengono giudicati e premiati per le loro performance digitali e quantitative, numero di frequenze, certificazioni, verifiche, attività collaterali, tra cui centinaia di ore di tirocinio presso imprese o dentro l’accademia in versione di training professionale. Una indigestione, si è detto, di sempre nuove «cose da fare anche per i docenti», i più giovani dei quali hanno ormai metabolizzato l’imperativo che far parte della governance e la cosiddetta terza missione – il rapporto con i finanziatori privati e con i cosiddetti stakeholder. siano deontologicamente più importante della prima missione (la ricerca e lo studio disinteressato e libero) e la seconda missione (l’insegnamento). Un mondo veramente alla rovescia, se anche l’ordine logico e cronologico delle parole e delle cose è messo al bando.
Una fiera delle illusioni
Il paradosso e l’insostenibilità di questa fiera delle illusioni comincia a venire alla superficie. Per ragioni indigene, a partire dall’ennesimo piano di tagli del Governo e di una riforma della ricerca che vorrebbe precarizzare ulteriormente i giovani e futuri docenti.
E, tuttavia, non è sufficiente fermarsi alle pur legittime critiche al sottofinanziamento e alla precarizzazione, opporsi alla riforma Bernini e ai tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO). Un’università con un accresciuto corpo docente, una significativa riduzione numerica della componente precaria e un finanziamento più cospicuo sarebbe, infatti, strutturalmente diversa da quella che abbiamo oggi di fronte?
Per combattere l’aziendalismo come unico ed esclusivo orizzonte dell’Università è necessaria sviluppare e articolare la critica. Dobbiamo essere consapevoli che la neolingua della formazione, della ricerca e della didattica che ho qui sommariamente ricordato è il solo ‘pensiero-azione’ rimasto dicibile dopo la cancellazione di tutti gli altri: si può essere – è stato giustamente osservato islamisti o islamofobi, repubblicani o democratici, sovranisti o europeisti, laburisti o tories – purché si parli e si agisca costantemente come dei piccoli o grandi manager.
Questo vale per il docente interno – strutturato o precario che tu sia – ma vale anche per l’esterno. L’Università post ’68 si è socialmente legittimata come una frontiera del profitto. Oggi, nel sistema della ricerca e della formazione, non si fa più solo uso mediato delle discipline ai fini del dominio, ma si inducono docenti e studenti ad apprendere immediatamente il linguaggio del dominio. In particolare, nel campo della scuola, a essere sfiduciata è la mediazione delle “vecchie” discipline, avvertite come fardello novecentesco e a esser esaltate come “innovative” sono invece le tecniche e le retoriche, falsamente “inclusive”, di riproduzione dei rapporti di potere. Si tratta del capolavoro neoliberale: al centro di ogni apprendimento, dalla scuola primaria all’università, si accampa la competenza imprenditoriale, il “gioco” della competizione e della concorrenza portato all’interno delle relazioni individuali, la costruzione di un senso comune in cui per ogni “vincente” ci deve essere un “perdente” (https://www.leparoleelecose.it/?p=48492).
E, tuttavia, l’enfasi educativa sulla meritocrazia, sui leader, sulla competizione e sulle skills sta cominciando a rivelare una sua condizione oscena: è retoricamente ossessiva nell’università e nella scuola nel momento stesso in cui la crisi di civiltà è giunta a mostrare le sue tragiche contraddizioni planetarie. Nell’arena della concorrenza globale non sembra esserci più futuro nemmeno per i “vincitori” perché il disagio psichico è sempre più connaturato alla performance. Crescente è il numero di docenti e di lavoratori del personale tecnico-amministrato in burn out. Non solo ad Harward, ma qui a Urbino. La fiera delle illusioni, presto o tardi, chiuderà i battenti.