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L’unica democrazia del Medio Oriente

di Mario Sommella

Israele tra suprematismo giuridico, censura strutturale e guerra permanente anche dopo la tregua

“L’unica democrazia del Medio Oriente” è diventata una formula pronta all’uso: un lasciapassare morale che, in Occidente, sostituisce la verifica dei fatti. Funziona così: si pronuncia quella frase e, come per magia, tutto il resto diventa “complesso”, “controverso”, “difensivo”. Ma se si guardano le scelte legislative, il trattamento riservato ai palestinesi, la gestione dell’informazione e il modo in cui vengono ostacolate perfino le organizzazioni umanitarie, quella definizione non regge. O meglio: rivela che cosa è diventata, oggi, la parola democrazia quando viene piegata a coprire la forza.

Il punto non è negare che esistano elezioni e pluralismo formale. Il punto è capire se quel pluralismo possa ancora essere chiamato democratico quando convive con un impianto giuridico e politico che istituzionalizza gerarchie etniche, normalizza la colonizzazione e si dota di strumenti sempre più autoritari per mettere a tacere chi documenta, denuncia o soccorre.

 

Un suprematismo scritto in legge

Un passaggio vale più di mille editoriali autoassolutori: la Basic Law del 2018, “Israel – The Nation State of the Jewish People”, stabilisce che la realizzazione del diritto all’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusiva del popolo ebraico.

Non è una scivolata retorica: è un principio costituzionale. In un colpo solo, si consacra una cittadinanza a due velocità e si rende “naturale” ciò che altrove verrebbe definito discriminazione strutturale.

Questo è il nodo che molte organizzazioni per i diritti umani hanno provato a rendere leggibile con parole nette. B’Tselem ha parlato di “regime di supremazia ebraica” tra Giordano e Mediterraneo.  Human Rights Watch ha definito il sistema come crimini di apartheid e persecuzione.  Amnesty International ha concluso che si tratta di apartheid nei confronti dei palestinesi.

Si può discutere di lessico e cornici, ma intanto la parola “democrazia” continua a essere ripetuta come un mantra, mentre la realtà materiale la svuota.

 

La pena di morte a senso unico

Dentro questo quadro, la spinta verso la pena di morte non è un episodio marginale: è un segnale di direzione. Nel novembre 2025 la Knesset ha approvato in prima lettura un disegno di legge per introdurre la pena capitale per “terrorismo”.

In astratto potrebbe apparire come una misura “generale”. Nella pratica, in un contesto in cui l’etichetta di “terrorismo” è spesso applicata in modo asimmetrico, l’impatto ricadrebbe quasi esclusivamente sui palestinesi, con un effetto selettivo e politico.

È qui che la democrazia diventa dispositivo punitivo identitario: non si limita a sanzionare atti, tende a colpire un gruppo.

 

La censura come architettura di Stato

Ogni colonialismo ha un punto debole: la visibilità. Per questo, accanto alle armi, servono i filtri. E negli ultimi anni si è consolidato un sistema di controllo dell’informazione sempre meno “emergenziale” e sempre più strutturale.

+972 Magazine ha documentato che nel 2024 la censura militare ha raggiunto livelli record: 1.635 articoli vietati e 6.265 parzialmente oscurati.

Non si tratta di un dettaglio tecnico: è un meccanismo quotidiano che modella ciò che può essere raccontato e ciò che deve restare fuori campo.

C’è poi un livello culturale, persino psicologico. Il Committee to Protect Journalists, riportando le parole di Nir Hasson (Haaretz), evidenzia un dato decisivo: i media israeliani, in larga parte, si collocano dentro lo sforzo bellico, evitando di raccontare la catastrofe umanitaria.

Quando l’informazione diventa branca della guerra, la democrazia si trasforma in scenografia.

 

La “legge Al Jazeera” e la normalizzazione del bavaglio

Il simbolo politico di questa deriva è la cosiddetta “Al Jazeera Law”, la norma che ha dato al governo poteri straordinari per chiudere media stranieri considerati una minaccia alla sicurezza, con sequestri e blocchi di siti.

Il passaggio decisivo arriva quando l’eccezione diventa regola: a dicembre 2025 la Knesset ha esteso la legge fino alla fine del 2027.

Non più un provvedimento temporaneo, ma un modello stabile in cui l’esecutivo rivendica la facoltà di spegnere la voce scomoda.

Nello stesso clima si inserisce anche la discussione sulla chiusura della storica Army Radio entro marzo 2026, criticata da chi teme un ulteriore indebolimento di spazi informativi non allineati.

 

La tregua che non ferma la morte

La parola “tregua” viene spesso raccontata come chiusura di un capitolo. Sul terreno, però, la violenza non si interrompe automaticamente perché lo impone il titolo di un telegiornale.

Secondo un report UNRWA, che cita dati OCHA, dalla tregua risultano uccisi centinaia di palestinesi e molti altri feriti.  Anche esperti ONU dell’OHCHR hanno riportato centinaia di violazioni dopo l’annuncio dell’11 ottobre 2025, includendo uccisioni che coinvolgono minori.

La cronaca di dicembre 2025 conferma la continuità: il Guardian ha riportato l’uccisione di palestinesi in una scuola-rifugio a Gaza City, indicando che si tratta di morti avvenuti dopo il cessate il fuoco.

Questa persistenza della violenza, mentre la parola “tregua” gira come moneta buona, produce un effetto politico preciso: spegne l’attenzione. Se la tregua viene narrata come “fine”, ciò che accade dopo diventa episodio, incidente, parentesi, mai struttura. E invece è struttura.

 

Cisgiordania: l’aggressione dei coloni come metodo

Mentre Gaza viene spinta fuori dall’agenda mediatica, in Cisgiordania la colonizzazione continua a mordere. Qui la tregua non vale come tregua: vale come schermo.

Il 23 dicembre 2025 l’Associated Press ha raccontato un attacco di coloni a una casa palestinese, con vandalismi e animali uccisi, e ha richiamato dati ONU su una frequenza elevata di aggressioni in certi periodi.

Non è “devianza” di frange impazzite: è la forma sociale della colonizzazione. Dove l’esercito controlla, i coloni espandono. Dove i coloni espandono, lo Stato consolida. E il diritto internazionale viene degradato a opinione.

 

Il colpo alle ONG: quando anche curare diventa sospetto

Il passaggio più rivelatore è quello che riguarda la guerra contro l’aiuto. Nuove regole di registrazione per le organizzazioni internazionali, con effetto dal 1 gennaio 2026, secondo Medici Senza Frontiere rischiano di compromettere attività salvavita a Gaza e in Cisgiordania.

Qui non c’è solo burocrazia: c’è politica. Se il criterio diventa dimostrare di non “delegittimare”, la solidarietà può essere trasformata in colpa e la testimonianza in minaccia. Altre ONG hanno parlato di impatto potenzialmente devastante, tra respingimenti e incertezza per decine di organizzazioni.

È la logica del controllo totale: non basta dominare un territorio, occorre dominare anche la possibilità stessa di raccontarlo e di tenere in vita chi lo abita.

 

Che cosa resta della “democrazia”

A questo punto la contraddizione non si può più coprire con formule. O si smette di chiamare democrazia un sistema che costituzionalizza l’esclusività etno-nazionale, discute la pena di morte con impatto selettivo, estende leggi per chiudere media stranieri e alza muri contro chi salva vite.

Oppure si accetta la verità più scomoda: esistono democrazie che convivono con pratiche di apartheid, colonizzazione e annientamento. Democrazie che votano ma non riconoscono l’uguaglianza; che parlano di libertà ma censurano; che invocano sicurezza mentre puniscono l’esistenza stessa di un popolo.

Ed è qui che l’Occidente non è spettatore: è complice. Perché la formula “unica democrazia del Medio Oriente” non descrive Israele. Descrive la disponibilità occidentale a chiamare civiltà ciò che conviene e a chiamare “controversia” ciò che dovrebbe scandalizzare.


Fonti essenziali
Basic Law “Israel – The Nation State of the Jewish People” (Knesset):
Rapporti e analisi su apartheid e supremazia:
Censura militare e dati 2024 (+972 Magazine):
Analisi su informazione e guerra, citazione Hasson (CPJ):
Estensione “Al Jazeera Law” fino al 2027:
Disegno di legge sulla pena di morte, prima lettura (novembre 2025):
Violazioni post-cessate il fuoco e dati ONU/UNRWA-OCHA:
Cronaca su uccisioni a Gaza dopo la tregua (dicembre 2025):
Attacchi dei coloni in Cisgiordania (dicembre 2025):
Nuove regole di registrazione ONG e allarme MSF:

Note finali
Nel dibattito pubblico occidentale, il “cessate il fuoco” viene spesso trattato come un finale: proprio per questo, documentare ciò che continua dopo la tregua è decisivo. La realtà che non viene mostrata non scompare, semplicemente smette di pesare sulle coscienze.
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