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carmilla

La questione nazionale ai tempi del populismo

di Alessandro Barile

Tra i vari pregi dell’ultimo libro di Carlo Formenti (La variante populista), ce n’è uno decisivo: il coraggio di affrontare di petto la “questione nazionale” tornando a ragionare sulla sovranità, rimanendo al contempo saldamente nell’alveo della sinistra. Curiosamente, pochi giorni dopo l’uscita del libro, un altro testo – sempre edito da Derive Approdi – torna sull’argomento: Rottamare Maastricht, un libro scritto a più mani e che inquadra la critica dell’economia politica europeista all’interno di una soluzione che punta al recupero di alcuni strumenti di sovranità in grado di ridare senso alla rappresentanza politica. Tra le altre cose, vi si legge:

poiché la dimensione europea è stata messa in sicurezza e quasi sigillata nei confronti dei rischi della politica, una ripresa di potere democratico si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della sovranità nazionale”.

Quindici anni di euro e dieci di crisi economica stanno demolendo anche l’ultimo argomento tabù delle sinistre, quello della “sovranità nazionale”? Più della crisi sembrerebbe il fenomeno populista ad aver avviato un dibattito attorno alla sovranità e ai suoi molteplici significati. Il populismo è categoria incerta, multiforme, incapace di descrivere bene alcuni fenomeni politici dei nostri tempi. Ma su una cosa c’è effettivamente convergenza: tutti i populismi – di destra, di sinistra, o addirittura quelli “di centro” come il M5S – trovano un loro “programma comune” nella lotta per il recupero di pezzi di sovranità nazionale ceduti a entità sovranazionali, nel caso europeo all’istituzione denominata Unione europea. La crisi della sinistra è frutto di molte concause, non tutte soggettive peraltro. Ma l’aver abbandonato il terreno della discussione intorno alla questione nazionale le ha rese, tutte quante, dalla più moderata alla più radicale, afone nei confronti di una popolazione impoverita dalla crisi che chiede disperatamente strumenti per resistere al suo impoverimento.

Queste forme di resistenza non coincidono per forza con una progressività delle intenzioni e dei propositi di tale ceto impoverito. In questo ceto impoverito c’è un po’ di tutto: dal proletariato precarizzato alla classe media in decadenza economica. Le ambizioni, i destini e gli orizzonti, una volta in più o meno aperta contrapposizione, oggi vengono forzatamente ma oggettivamente tenuti assieme dalla crisi economica e dalle soluzioni antipopolari che l’Unione europea genera per governare questa crisi. Paradossalmente, se la formula del “we are the 99%”, tanto in voga nei movimenti occupy di qualche anno fa, disattivava qualsiasi approccio di classe dei fenomeni sociali, oggi potrebbe ritrovare una sua utilità, almeno “ideale”. Dentro quel 99% (che proprio 99% non è, peraltro) c’è tutto e il contrario di tutto (dal migrante schiavizzato al tassista impoverito alla partita iva precarizzata), ma questo calderone informe sembrerebbe essere legato da una resistenza ai processi di globalizzazione liberista e alle ricadute ordoliberali che questi hanno nei contesti nazionali europei. Insomma, il populismo è figlio della crisi economica ma anche dalla crisi della sinistra che non trova voce per dare rappresentanza agli interessi di questo magma sociale che però, è qui il punto, dovrebbe ancora costituire il proprio riferimento materiale (altrimenti di cosa parliamo?). Possiamo anche invertire l’ordine degli addendi: la crisi della sinistra è figlia di una crisi economica che stronca ogni possibile riformismo, ma anche della vitalità di un populismo in grado di dare voce all’impoverimento sociale. Il discorso non cambia.

Tornare a ragionare di sovranità, in questa fase storica, è allora inevitabile. Possiamo interpretare nei modi più vari le vittorie elettorali di Trump o della Brexit, ma se la sinistra non affronta di petto i nodi politici che determinano questi sussulti elettorali rischia, tra qualche anno, di presenziare ad una rottura della costruzione europeista per mano di un’internazionale nera alla guida dei principali Stati ri-nazionalizzati dell’Europa. Il terreno è allora viscido, paludoso e imputridito, ma è quello su cui oggi avviene la lotta – almeno a parole, almeno a livello elettorale – della politica contro il progetto ordoliberale dell’Unione europea. Fuori da questa contrapposizione c’è l’irrilevanza dei principi, nobile ma improduttiva. E allora, anche qui, che fare?

Il dibattito marxista classico (da Marx alle lotte anti-coloniali degli anni Cinquanta e Sessanta), lungi dall’ignorare l’argomento, aveva al contrario prodotto una tale mole di teoria e pratica politica sulla questione nazionale, sul ruolo nazionale del proletariato, sull’alleanza possibile tra classi in funzione antimperialista, con un così vasto spettro di posizioni, che sarebbe sbagliato definire tabù un tema che invece è stato all’ordine del giorno per circa un secolo nel movimento operaio. E’ dagli anni Ottanta che il tema scompare dai radar della sinistra, riformulato nella legittimazione ideologica di qualsiasi forma di “cosmopolitismo borghese scambiato per internazionalismo proletario”, come direbbe Formenti ma che, attenzione, dice anche Marx nel 1847:

Le chimere della repubblica europea della pace eterna sotto l’organizzazione politica sono diventate ridicole proprio come le frasi sulla unione dei popoli sotto l’egida della libertà generale del commercio[…]L’unione e la fratellanza delle nazioni sono una vuota frase che oggi è sulla bocca di tutti i partiti, in particolare dei liberoscambisti borghesi. Indubbiamente esiste una certa fratellanza tra le classi borghesi di tutte le nazioni: è la fratellanza degli oppressori contro gli oppressi, degli sfruttatori contro gli sfruttati”.

Il problema non è però il cosmopolitismo delle classi borghesi. Il problema è lo Stato come luogo entro cui contendersi i rapporti di forza politici. Nel 1882 Engels scrive a Kautsky:

il movimento internazionale del proletariato è a priori possibile solo in nazioni indipendenti[…]Per poter lottare bisogna prima avere un terreno di lotta, aria e luce e un margine di manovra, altrimenti tutto è chiacchiera[…]E’ solo essendo nazionali che essi [irlandesi e polacchi, N.d.A.] possono essere meglio internazionali”.

Un terreno di lotta, ecco ciò che la costruzione della Ue sembrerebbe aver sottratto da sotto i piedi dei milioni i proletari e/o ceti drammaticamente impoveriti dalla crisi economica. Ma il ritorno della “sovranità nazionale”, intesa tout court come ritorno allo status quo ante, è il terreno per cui dovrebbe lottare una sinistra nuovamente in grado di rappresentare la voce degli esclusi? Su questo sono chiari i distinguo di chi pure accetta quel piano del ragionamento. Il semplice ritorno non è possibile, e non solo perché la storia non procede all’indietro. E’ la lotta per la sovranità popolare il terreno di confronto della sinistra del XXI secolo, se vuole avere una chance di sopravvivenza nel mondo contrapposto di populismi versus tecnocrazie transnazionali. Anche sovranità popolare è definizione polisemica e contraddittoria. Può voler dire molte cose, ma c’è un continente che ha messo in moto un processo verso un tipo di sovranità che prevede il protagonismo delle masse subalterne: l’America Latina. Il ruolo del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale è, per molti versi, equiparabile a quello assunto dall’Unione europea. Lo spoglio progressivo della sovranità statuale, devoluta non ad organi politici sovranazionali ma ad organi economici transnazionali (sarebbe meglio dire a-nazionali), è per molti versi simile. E lo spoglio della sovranità statuale altro non è che lo spoglio della rappresentanza politica di poter decidere sullo sviluppo sociale ed economico dei territori entro cui viene fatta valere giuridicamente tale rappresentanza.

Oggi i Trattati europei hanno valore coercitivo anche rispetto alle costituzioni nazionali. I Trattati rappresentano allora la forma giuridica che è andata assumendo l’Europa ordoliberale. Non c’è lotta all’ordoliberalismo europeista che non passi per la rottura dei vincoli imposti da quei Trattati, perché quegli stessi Trattati – recepiti nei modi più vari nelle costituzioni, ad esempio in Italia dal nuovo articolo 81 – impongono giuridicamente un orizzonte economico, quello dell’obbligatorietà del pareggio di bilancio, che rende di fatto illegale ogni altra ricetta economica che non si assoggetti a tale vincolo. Paradossalmente, anche l’applicazione concreta di una blanda politica riformista di segno keynesiano non può non passare per la rottura del vincolo europeista, che tradotto dal politichese alla realtà non è altro che il recupero di taluni strumenti tipici della sovranità politica di uno Stato. E’ la contraddizione dei nostri tempi, quella per cui anche il vero riformismo sarebbe “rivoluzionario”, se con questo intendiamo lo sfaldamento di un ordine politico-economico costruito con fatica dalla borghesia transnazionale europea. Non c’è ancora una sintesi possibile per questo discorso. Ma già rompere il non expedit che aleggia sulla questione nazionale è un importante passo in avanti nella lotta alle destre e ai populismi regressivi che egemonizzano il discorso politico.

di Alessandro Barile

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