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manifesto

Dubai ci avverte: anche gli stati falliscono

Joseph Halevi

Ci avevano detto che - sebbene fosse prematuro rallentare le politiche di stimolo (leggi: erogazione di soldi gratis alle banche, perchè di questo si tratta) - si era entrati in una fase di ripresa. «E' vero», si aggiungeva, «vi sono ancora dei rischi di instabilità finanziaria», ma veniva detto per scaramanzia. Quindi grande stupore di fronte all'annuncio dell'insolvenza di Dubai World, la società finanziaria e immobiliare dell'omonimo emirato, che investe in isole artificiali e grattacieli alti molte centinaia di metri.

C'è invece da stupirsi del contrario. Perchè non c'è stata un'uscita programmata da Dubai nel corso di quest'anno? Perchè invece le banche internazionali hanno continuato a prestare forsennatamente al fatuo emirato che non produce assolutamente nulla ed è privo di petrolio? Tra queste c'è anche Royal Bank of Scotland - già colpita dalle cartacce tossiche senza valore provenienti dalla catena di impacchettamenti di titoli dei mutui subprime e beneficiaria del più grande salvataggio mai effettuato da uno stato in favore di una società privata. Una grossa parte del debito di Dubai era stato sottoscritto proprio dalla fallimentare banca scozzese le cui azioni sono oggi detenute dal governo di Londra.

Queste domande non sono retoriche. Dubai, infatti, è in crisi da oltre un anno. Essendo un luogo di speculazione finanziaria-immobiliare, con fondi interamente prestati dall'estero, l'emirato è stato tra le prime vittime dei crolli bancari del 2008. Il prezzo dell'immobiliare è calato del 50%, la popolazione è scesa del 17%, causa i lavoratori migranti rispediti a casa. L'emirato non ha però smesso di sviluppare i suoi progetti faraonici, spostando la fonte dei prestiti su Abu Dhabi, lo sceiccato capitale dei sette Emirati arabi uniti, nonchè ricchissimo in petrolio e quindi di petromonete. E' stata proprio la dipendenza di Dubai nei confronti di Abu Dhabi che ha spinto le banche estere, soprattutto quelle inglesi - le più coinvolte -, a scommettere su Dubai, generando quindi un ennesimo «rischio morale» in piena crisi.

Le società finanziarie internazionali si erano infatti convinte che Dubai World sarebbe stata salvata dai petromiliardi di Abu Dhabi. Ma anche qui c'erano tutti gli elementi per indurre il mondo finanziario a una maggiore cautela, visto che il mercato immobiliare è precipitato già durante i primi tre mesi del 2009.

Ora Abu Dhabi si sta distanziando da Dubai, il cui sceicco cerca di separare il suo stato dalla Dubai World, dichiarando che il debito non è garantito dal governo.

Il fatto che non sia stata prediposta alcuna via d'uscita induce a riflessione, così come fa riflettere che l'ormai pubblica Royal Bank of Scotland abbia tranquillamente continuato a smarrire la retta via. Infine, dà da pensare che a dichiararsi «sorpreso» della crisi della Dubai World sia stato perfino il Fondo Monetario Internazionale. È di fatto impossibile visto che, nel suo recente rapporto sulla situazione mondiale, il Fondo aveva sottolineato la gravità del crollo dei prezzi del mercato immobiliare nell'emirato. In realtà banche, istituzioni governative e internazionali sono complici nel continuare il gioco d'azzardo, nell'assecondare attività estremamente opache come quelle della Dubai World.

Quest'atteggiamento nasce da due fattori: dalla politica di «soldi gratis» erogati dai governi alle istituzioni finanziarie, che induce le banche a perseguire nella stessa direzione per farli «fruttare», e dal forte aumento del potere politico e istituzionale del settore finanziario, grazie ai salvataggi finora effettuati. Ma anche questo accresciuto potere non è casuale: l'alternativa di una dinamica reale a saggi di profitto ritenuti remunerativi è quanto mai remota. La vicenda di Dubai mostra inoltre che la crisi travolge anche organismi finanziari statali. Alla fine di questa settimana, non a caso, dovremo parlare della Grecia che corre verso il baratro.

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