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Maschere del populismo: su "Joker" di Todd Phillips

di Antonio Tricomi

Joker 800x450A ben vedere, già l’ambiguità sociale, ancor più che morale, del Batman rimodulato da Nolan si rivelava anche l’esito dell’estrazione di classe del personaggio. Specie nel primo episodio della trilogia sull’uomo pipistrello realizzata dal cineasta inglese, notavamo infatti una Gotham City, e dunque – fuor di metafora – una New York e un Occidente intero, scivolati sull’orlo del baratro per due ragioni sì diverse e, tuttavia, complementari. Perché minacciati, è vero, da uno spietato nemico esterno. Ed è forse superfluo ricordare che Batman Begins intendeva anche proporsi quale implicita, e comunque partigiana, riflessione sul clima da “guerra dei mondi” generatosi, negli Stati Uniti come in Europa, all’indomani dell’11 settembre 2001. Noi occidentali, compiutamente moderni e democratici, da un lato; i musulmani, fanaticamente medievali e assassini, dall’altro: questo allora postulava, né manca oggi di ribadire, un’incresciosa retorica pubblica affermatasi sia nel vecchio sia nel nuovo continente. E però, se il film di Nolan le immaginava a un passo dalla catastrofe, è in primo luogo perché riteneva le nostre società governate da clan, sempre meno nutriti, di spregiudicati capitalisti abili a consacrare, quale sola legge in esse vigente, quella del mero profitto. Una legge per di più reputata universale da simili schiere di eletti e quindi da loro parimenti imposta a tutte le civiltà altre, in tal modo ridotte alla mercé dell’Occidente.

Di qui, in Batman Begins, la particolare configurazione assunta da Gotham City. Abitata da una cospicua massa di individui privati dei diritti civili appunto perché estromessi dal mercato del lavoro o comunque immiseritisi, dunque incapaci di produrre o consumare ricchezza.

Giocoforza insicura, allora, in quanto esposta alla microcriminalità e alle improvvise, furenti, solo luddiste sommosse tentate da simili diseredati: emergenze politiche sempre autoritariamente gestite da un’impune “razza padrona” abile a riconfermare l’inviolabilità non di un patto sociale convintamente stipulato dai cittadini tutti, ma di quel precipuo ordine pubblico da essa instaurato a proprio vantaggio. Nel complesso perciò disposta – gli emarginati per pura disperazione; i sovrani per celare le loro specifiche colpe – a denegare ogni forma di conflittualità interna, legittimando, al contempo, il crescente astio collettivo nei riguardi delle identità altre, alcune delle quali realmente ostili alla propria, e però tutte indistintamente considerate per essa pericolose. In definitiva, le uniche, effettive responsabili del paventato declino della città.

Figlio di un magnate viceversa illuminato, misericordioso con gli ultimi e caduto quindi vittima di una Gotham City per l’appunto inselvatichitasi, il Bruce Wayne ritratto da Nolan sceglieva così di indossare i panni di Batman con l’obiettivo, quasi, di tornare a dar corpo al mito coltivato dal genitore: quello di un capitalismo letteralmente mascherato da però autentico progresso sociale e da tuttavia sincera concordia civile, benché mai disposto ad azzerare disparità di censo solo attutite da paternalistici progetti riformisti. E ciò condannava il vigilante – pur di riaffermare il principio di legalità connaturato al modello di convivenza civile cui la propria famiglia aveva creduto – ad accettare di essere percepito dai concittadini non come un integerrimo benefattore della comunità o un solerte paladino della giustizia, ma – per dirla con i titoli delle successive sue storie raccontateci dall’autore di The Prestige – alla stregua di un eticamente indecifrabile, socialmente equivoco Cavaliere oscuro. Al pari, insomma, di un paradossale nemico pubblico. Del resto, benché costoro lo ignorino, egli appartiene allo stesso ceto di quei cinici, e ricchissimi, nomoteti di Gotham City che non possono perciò condividerne i pur classisti afflati filantropici. Né Batman aspira davvero, data la sua ideologia comunque padronale, a porsi quale strenuo difensore di quegli oppressi che infatti, pur misconoscendone l’origine altoborghese, evitano di scorgere in lui un loro autentico portavoce o una possibile guida.

Giacché privo di poteri soprannaturali, semplicemente dotato di una naturale forza fisica e intellettiva che egli non manca di allenare con meticolosa applicazione, ma anche incline ad avvalersi, per migliorare le sue prestazioni, di sempre nuovi e sofisticati dispositivi tecnologici o persino militari, quello inventato da Bob Kane e Bill Finger nel 1939 si è subito rivelato, tra i vari eroi dei fumetti, il più adatto a presentarsi come un’idealizzata controfigura del self-made man celebrato dalla democrazia liberale statunitense. Della quale siffatto personaggio non ha dunque esitato a incarnare i principali valori: dal culto dell’individuo e del libero mercato, alla fede nel progresso scientifico e in una giustizia amministrata su base classista; dalla certezza che il liberismo sia la miglior dottrina politica possibile, al convincimento che, talvolta isolandosi ma, più spesso, largendola al mondo, spetti comunque sempre all’America il compito di confermarsi la patria d’elezione di una simile ricetta socioeconomica.

Nel ridisegnare il profilo di Batman, Nolan non ha allora minimamente inteso riscattare il protagonista dei propri film da questi suoi originari tratti ideologici: non si è insomma preoccupato di muovere critica alcuna alla logica culturale statunitense, magari contestandone la vocazione annessionistica. L’ha semmai colta, all’alba del secondo millennio, in una situazione di impasse, finendo tuttavia col nobilitare gli sforzi da essa prodotti per superare la crisi di legittimazione all’improvviso patita. In quel suo Batman disposto ad apparire un criminale, pur di ergersi a unico emblema di un’idea di giustizia ormai negletta e però figlia di una precisa, irrinunciabile tradizione sociale, non era infatti troppo difficile rinvenire una metafora della missione immaginata dal regista per la democrazia liberale americana, in un confuso scorcio d’epoca che la scopriva sia in sofferenza economica, sia vittima della controffensiva di una civiltà altra, che essa aveva erroneamente creduto di aver del tutto anestetizzato. In prima battuta, trovare la maniera di far rinascere dalle sue ceneri quella promessa di emancipazione collettiva che ne rappresenta il pur mitico fondamento identitario, sì da recuperare, entro i propri confini, la massima coesione civile possibile. Poi, in un mondo minacciato da inquietanti fondamentalismi anzitutto religiosi, continuare a diffondere coraggiosamente il verbo di quella sua utopia, supposta tanto laica quanto, per l’intero globo, salvifica. E ciò finanche a costo di essere accusata ingiustamente di imperialismo persino dagli innumerevoli beneficiati.

Ebbene, oltre a essere un film di angosciante, a tratti ipnotica bellezza, Joker ha il merito di sbugiardare questo distillato di americanismo culturale propostoci da Nolan con le sue trasposizioni cinematografiche delle avventure di Batman. Perché, ci suggerisce piuttosto Todd Phillips, come non si dà un capitalismo dal volto umano, neppure esistono privilegiati rispettosi del bene pubblico.

Gli eventi narrati nella pellicola precedono di svariati anni la discesa in campo dell’uomo pipistrello, restituendoci una Gotham City analoga a quella descritta dal cineasta britannico, ma ancor più fosca. Essa appare cioè un’apocalittica società neo-medievale, con un’esigua schiera di intoccabili autocrati a gestirla secondo il loro tornaconto, nessuna vera classe media, ormai, a popolarla, un’immensa calca di sfruttati, schiavi, nullatenenti a riversarsi costantemente in strada. E però, l’autentico scarto introdotto da Phillips, rispetto all’affresco offertoci da Nolan, è che egli rappresenta anche il padre del futuro Batman alla stregua di un milionario preoccupato, come ogni suo pari grado, di cumulare ricchezze e quote di potere sempre maggiori, di umiliare gli oppressi e, anzi, di candidarsi ad amministrare dispoticamente la propria città. In pratica, come una sorta di studiato alter ego dell’attuale presidente degli Stati Uniti d’America. Ritratto che prolunga obliquamente la propria ombra su quello del supereroe. Appunto perché della stessa pasta di quanti vessano una società tragicamente impoveritasi, e poi perché nessun ricco vorrà mai ripudiare il proprio rango ereditario di monarca, il vigilante – lascia insomma intendere Phillips, che non ci mostra tuttavia Batman se non da ragazzino ancora indifferente a un’idea di bene della quale solo divenuto adulto egli ambirà a farsi simbolo – andrà allora giudicato il profeta non di un mondo diverso, e più libero, e più equo rispetto a quello esistente, ma di un dominio capitalistico chiamato, per conservarsi assoluto e, nella sostanza, inalterato, a mutare forma.

Né a cambiare perciò statuto è il solo personaggio dell’uomo pipistrello, tacitamente degradato dal regista, almeno secondo parametri etici, a eroe negativo, e non genericamente ambiguo. È in particolare uno dei tradizionali avversari di Batman, per l’appunto Joker, a esserci presentato sotto una luce del tutto nuova. Nel raccontarcene la storia, il film di Phillips lo descrive infatti come un innocente che la società stessa via via converte, da sua quasi prediletta vittima sacrificale, in proprio inatteso angelo sterminatore. Da aspirante comico che non sa però divertire nessuno, perché la sua ilarità tragica o, all’inverso, il proprio dolore pagliaccesco sono indotti da un disturbo neurologico pronto a scatenargli, in qualsiasi situazione di sovraccarico emotivo egli si trovi, un riso indistinguibile dal pianto, a compiuta maschera claunesca del crimine, esercitato con il ghigno imperturbabile, giacché ottuso, di chi voglia in prima battuta vendicarsi di quei fortunati – a cominciare dai membri tutti della famiglia Wayne – che lo hanno sistematicamente svilito, sino a ridurlo a trascurabile scarto sociale.

E se viene allora spontaneo accostare il protagonista del film di Phillips a quelli di almeno tre pellicole girate da Scorsese tra la seconda metà degli anni Settanta dello scorso secolo e la prima metà del decennio successivo, cioè Taxi Driver, Toro scatenato e Re per una notte, altrettanto scoperto si rivela il desiderio, nutrito da Joker, di indicare un proprio modello – essenzialmente tematico; solo a tratti anche figurativo – nella trasposizione cinematografica di Arancia meccanica realizzata da Kubrick. Lì, a un dandy scandalosamente puro nell’ossequiare il culto di una violenza del tutto fine a se stessa e, proprio per questo, tanto distruttiva quanto ingovernabile, era imposto, a esclusiva tutela dell’interesse pubblico, un percorso di rieducazione sociale in sé non meno feroce e al termine del quale il personaggio risultava lobotomizzato, ossia ridotto a fantoccio di norme civili rivelatesi semplici forme rapprese di brutale autoritarismo. Qui, una legittima aspirazione al riconoscimento sociale, e anzi alla notorietà costantemente promessa a tutti dalla trionfante civiltà dello spettacolo, è invece a tal punto mortificata dalle insormontabili logiche classiste vigenti, come pure da un’istituzione famigliare sempre pronta a introiettarle, da rovesciarsi in un ludico piacere del male che però non tradisce i valori dominanti, perché si limita a rendere esplicito quell’esercizio della violenza che, in forma implicita, rappresenta già il fondamento di una plutocrazia destinata a divorare se stessa.

L’impressione che molti hanno avuto è quindi corretta. Joker vuole essere un film sulla nostra era e, in special modo, sulla deriva populistica delle odierne società occidentali, Gotham City anche in questo caso risultando una loro straniata raffigurazione metaforica. Sicché Phillips, persino più di quanto abbia fatto Nolan coi propri lungometraggi sul cavaliere oscuro, spinge quasi la sua pellicola a evadere dalla gabbia costituita dai forzati rimandi all’originaria saga di fumetti con Batman quale protagonista, sì da proporcela come un’opera autonomamente autoriale e perciò capace – grazie anche alla straordinaria interpretazione di Joaquin Phoenix – di consegnarci il poetico ritratto di uno degli innumerevoli losers contemporanei su cui gli attuali populismi tentano i loro esperimenti di macelleria sociale.

Fin quando resta uno spiantato che implora un lavoro, l’attenzione di una star televisiva o, credendolo suo padre, l’affetto di un magnate, ossia il genitore del futuro supereroe, Joker, forzosamente arreso alla propria impotenza, appare infatti il prototipo dei tanti individui declassati o indigenti di oggi che, ridotti a monadi da una civiltà indifferente al loro destino e dunque sedotti da subdole retoriche qualunquistiche o paternalistiche, finiscono col diventare l’autentico blocco sociale delle varie dottrine populistiche largite, alle nostre post-democrazie, dai portavoce di quelle élites di maggiorenti che, senza mai rischiare di dover cedere ad altri le leve del comando e presentandosi sempre quali garanti del bene pubblico, sanno ottenere consensi sia se si mostrano sovversive, sia se si dipingono batmanianamente legaliste. E pure quando esterna in pubblico il proprio risentimento antipolitico e rende indiscriminatamente assassina la rabbia a lungo repressa, sfogandola persino contro diseredati simili a lui e scoprendosi subito imitato da una massa di altri derelitti capaci di devastare Gotham City, il protagonista del film di Phillips continua a rivelarcisi, al pari di chi ne emula le gesta, non un avversario di qualsivoglia ricetta demagogica, ma l’ideale sgherro di una forma di populismo, dai tratti marcatamente diciannovisti, concorrente di quella, più ligia ai dettami di una tecnocrazia, appena evocata. L’inconsapevole e imprescindibile “utile sciocco”, cioè, di una forma di cesarismo incline a slatentizzare, per legittimarle culturalmente, le pulsioni dirigiste, xenofobe, classiste tuttavia riconoscibili, sottotraccia, anche in quella rivale, e che un tale obiettivo sappia magari raggiungere celebrando autoritarie narrazioni sovraniste. In un Occidente nel quale Joker intende quindi denunciare l’assenza – a destra, come al centro e pure a manca – di offerte politiche realmente estranee a un orizzonte populistico.

In due loro libri recenti, il pamphlet Pagare o non pagare (nottetempo, Milano 2018) e il romanzo-saggio Lo Stradone (Ponte alle Grazie, Milano 2019), Siti e Pecoraro hanno parimenti esaminato la struttura ormai piramidale della nostra società. In cima, la sparuta casta di autentici ricchi e veri potenti, liberi di vivere come meglio ritengono: persino disprezzando le regole. Sotto di loro, quanto resta dell’impoverito ceto medio: una massa di individui che, anche in conseguenza della precarizzazione del lavoro, si percepisce, o davvero è, a rischio sempre di non saper più sbarcare il lunario o, comunque, di non potersi più permettere quel minimo di benessere a lungo garantitole, in primo luogo, dal lascito delle generazioni precedenti. E poi, a comporre la base di siffatta piramide, una moltitudine di paria già di per sé molto nutrita, ma che anche si rimpolpa costantemente: in essa scivola infatti ciascun cittadino impossibilitato a conservare la sua raggiunta o ereditata condizione di medio o piccolo-borghese.

Ecco allora farsi strada, nello spettatore di Joker, una mera suggestione critica, probabilmente favorita proprio dalla già rimarcata presenza, nel cast, del succitato Joaquin Phoenix, interprete anche in due film, The Master e Vizio di forma, di Paul Thomas Anderson. La pellicola di Phillips, come detto, aspira a sondare le particolari logiche culturali ed economiche, ancor prima che psicologiche, capaci di rendere gli attuali populismi assai attraenti persino per quella peculiare folla di umiliati e offesi che occupa, appunto, l’ultimo gradino dell’odierna scala sociale. In tal senso, viene dunque voglia di giudicare il ragionamento sul nostro tempo tentato da Joker complementare a quello offertoci da almeno due film di Anderson: il già ricordato The Master e, soprattutto, Il filo nascosto. Entrambi i lungometraggi narrano infatti il fiducioso assoggettarsi di personaggi socialmente irregolari, o comunque inferiori, a un ipnotico capo carismatico, quasi a volerci proporre un’allegoria delle precipue dinamiche che spingono invece la residuale classe media dei nostri anni a soggiacere a becere retoriche populiste.

D’altro canto, il Novecento ce lo ha, una volta per tutte, insegnato: quanto più la medio-piccola borghesia si scopre o solo si immagina in ambasce, tanto più si rivela essa per prima incline al peggior avventurismo politico. A far proprio l’estremismo più reazionario, a scegliere i leader che meglio sappiano incarnarlo.

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