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Letteratura e impegno

A partire da "Contro l'impegno"

di Gilda Policastro

Siti2Che cos’è la letteratura? Anzi: che cos’è la letteratura oggi? E, più precisamente, che cosa fa la letteratura oggi? Intanto, chiariamo in che senso “oggi”. Oggi, 2021, ad anno pandemico extended version, un anno in cui abbiamo vissuto sempre più schermati, sulle piattaforme dove abbiamo tenuto lezioni, conferenze, dibattiti, presentato libri, finanche tentato una parvenza di socialità (“non incontro persone da mesi”; “si prenda un tè con un’amica”; “c’è il covid”; “lo faccia su Skype” – da un dialogo con l’analista, che vedo, dalla zona rossa in poi, sempre su Skype). All’inizio dell’anno pandemico gli scrittori denunciavano lo choc di non riuscire più a leggere, e dunque nemmeno a scrivere. La settimana era scandita dai programmi di informazione, con epidemiologi, immunologi e virologi assurti a nuove star televisive: Massimo Galli il martedì da Berlinguer e in contemporanea Ilaria Capua e Barbara Gallavotti da Floris, Antonella Viola il giovedì da Formigli, Roberto Burioni la domenica da Fazio. Alcuni scrittori (ad esempio Aldo Nove) si sono nettamente schierati contro la cosiddetta dittatura sanitaria, trovando inconcepibile l’isolamento cui ci costringeva (e in parte ci costringe tutt’ora) la saturazione degli ospedali e l’assenza di un vaccino per il nuovo virus (ora il vaccino c’è, con tutte le criticità del caso). Giorgio Agamben si è scagliato contro la “nuda vita”, quasi fosse una pretesa antiumana ed egoistica, quella di non volersi ammalare (il problema del virus è il contagio, e la tua libertà di ammalarti finisce dove comincia la mia di non volerlo fare, specie se appartengo alle categorie cosiddette fragili – sì, d’accordo, con Leopardi è fragile tutto il genere umano, ma ci sono momenti in cui il comune destino di fragilità è incombente più del solito, e per alcuni più che per altri).

Il pamphlet di Siti Contro l’impegno parte un momento prima dell’anno pandemico. Qualche accenno in nota all’emergenza mondiale c’è, ma in sostanza le riflessioni sulla letteratura sono maturate prima. Prima dell’anno pandemico, qual era il tema all’ordine del giorno? I migranti. Salvini e i migranti. E poi gli scrittori che dicevano di voler andare sui barconi, oppure quelli, come Saviano (“l’aedo popolare della criminalità”, cui Siti dedica un lungo saggio del libro), che ridiscutevano il loro stesso ruolo nella società: ed ecco il neo-impegno, il coinvolgimento nelle vicende sociali e politiche come unica ragione per la presa di parola, anche per lo scrittore, soprattutto per lo scrittore. Difficile smontare una posizione del genere, perché appartiene al modo “corretto” di vedere il mondo, e di provare a “ripararne” le storture. Devi essere Walter Siti, lo scrittore che ha inventato l’autofiction in Italia (“mi chiamo Walter Siti come tutti”), anzi reinventato perché settecento anni prima un everyman a zonzo in una selva oscura già diceva di essere noialtri. Noialtri chi? Genere umano, o rappresentanza della sua miglior parte.

La miglior parte: la parte della ragione, perché i posti del torto sono occupati dalla massa bue, quella che vota Salvini e guarda la tivù becera, Barbara D’Urso, il Grande Fratello (trash in cui Siti si tuffa senza spocchia e moralismo alcuno, al contrario di quel che è stato scritto da qualcuno che deve aver letto un altro libro), individui le cui istanze sono volgari, di pancia, irricevibili: chi è d’accordo con Salvini alzi la mano. Le mani restano dov’erano, pure se finanche il governo super partes di Draghi è costretto ad averci ancora e largamente a che fare: ha una forza parlamentare (e mediatica) che non si può certo tacitare con la morale, siamo in democrazia, l’hanno votato, forse lo rivoterebbero (o lo rivoteranno) e via così.

La letteratura, dunque. Per Saviano, deve prendersi carico dei marginali: perché lo scrittore stesso, nella società attuale, è marginale (così già secondo Said). Questo Siti non lo dice, ma lo scrittore, oggi, è un sopravvissuto: i libri, che erano il suo specifico e la sua scommessa (momento “eroico”, diceva Sanguineti, ma anche “cinico”, perché comunque il libro è un prodotto inserito in un’economia di mercato), sono merce svalutata e inflazionata, e i libri che vendono sono i non-libri di non-scrittori. Una volta erano gli sportivi o i cuochi a sbancare, oggi sono cantanti, attori, la più varia e insulsa (sul piano del talento letterario) umanità, soprattutto gli influencer, con il loro bagaglio strabordante di follower: lasciata per un momento la beautyroutine, ci portano nel loro “mondo” (“il mio mondo” e “essere me stesso”, gli imperativi categorici della tivù dei talent): da Giulia De Lellis e le corna del fidanzato (che “stanno bene su tutto ma io stavo meglio senza”), a Valentina Dallari che racconta la sua anoressia (facendo pendant con la bulimia di Ambra Angiolini), a Luigi (googlare cognome), il tronista col fratello down che scrive un libro sulla sua vita col fratello down. Il tavolo si è ribaltato: sono gli scrittori a faticare, a faticare per pubblicare, per avere spazi di espressione o di promozione, sulla stampa, sui media, a meno di non volersi ridurre a copie grottesche (e con un numero di visualizzazioni e like comunque risibile, a confronto) di autopromoter nei social. Siti li frequenta poco, si vede, altrimenti avrebbe dedicato qualche riga alla imbarazzante vetrina che sono diventati i profili degli scrittori, uffici stampa di loro stessi in servizio permanente (si veda Lovink e anche, volendo, il sempre valido Lanier di Tu non sei un gadget). Non un riferimento a quel che succede fuori dall’echo-chamber, alla faccia dell’impegno esibito (citofonare Arminio, ma anche altri, meno attaccati, meno attaccabili, per ragioni di potere, di relazioni, reti o bolle).

“Lo stile non si preoccupa del like”, dice Siti. Molto bello, ma anche impraticabile. Perché se non se ne preoccupa lo stile, se ne preoccupano gli editori: i social sono i consigli per gli acquisti dei millennials e anche se non tutti i like si traducono in copie vendute, una fanbase di consenso garantito è una credenziale in più per l’editore che debba decidere se investire o meno su un autore. Come fa, un autore, a sopravvivere, se non ha già un capitale reputazionale solido e non può contare su un potenziale commerciale, se non fa intrattenimento ma letteratura?

Tutto questo, qualcuno ha osservato nel dibattito social sul libro di Siti, è stato già discusso. Sono temi antichi, che hanno almeno 20 anni, a tenerci stretti (e tornando a Schiffrin, per esempio). La sopravvivenza dello scrittore nella società che non è manco più dello spettacolo ma del selfie: se prima qualcuno doveva fotografarti per qualche merito o talento riconosciuto adesso puoi farlo da solo e “il movimento”, come diceva un antesignano Lorenzo Cherubini aka Jovanotti, puoi fartelo tu, anzi sei tu.

Qual è però invece l’aspetto nuovo del libro di Siti? Quello che meglio si lega al presente e alla situazione attuale della letteratura, ai libri che troviamo in libreria o che vanno in televisione, quelli di cui si parla e quelli di cui non si parla o di cui si parla, magari, “per le ragioni sbagliate”, come ha scritto AC (presumiamo, Andrea Cortellessa) su “Antinomie” a proposito de Le ripetizioni di Giulio Mozzi? La riflessione sul cosiddetto (da Siti) “romanzo amico”. Il libro che ti prende per mano, ti offre un tema che tu possa riconoscere (tu, autore di programma televisivo, tu spettatore del pomeriggio di Raiuno) e magari ti faccia versare qualche lacrima, dice ottimamente Siti, di quelle lacrime dolci e inoffensive, “dal divano”. Cioè da una posizione di privilegio ma soprattutto di comfort, laddove la letteratura, da sempre, ha tutt’altro compito: magari proprio di sbalzarti a suon di choc (non emotivi ma cognitivi, preferibilmente) da quel divano su cui ti accucci (“solo quando fa male, la letteratura può essere davvero utile”). Perché ciò accade? Perché l’autore è un sadico, perché vuole che il suo lettore soffra, o, peggio, che non capisca, che si senta ignorante? (così, per la postura democratica ostentata da Franco Arminio in un discusso pezzo sul Corriere di alcuni mesi fa). Lo scrittore non ha nessun obiettivo pedagogico, non vuole istruirti, lettore, perché non sa lui stesso quello che va scrivendo: lo impara per l’appunto scrivendo, come diceva Blanchot. La letteratura più interessante di tutti i tempi non ha a che fare con la luce, le illuminazioni, le rivelazioni, i risarcimenti e gli accudimenti, ma con le ombre, gli equivoci, le ambiguità, i contorcimenti, i fantasmi, il buio. È la letteratura che va a rovistare, dice ancora Siti, “nella nostra spazzatura più segreta”, e lo fa con “tecniche sopraffine e subdole”. Già, lo stile: la forma che è contenuto (e “i contenuti bisogna meritarseli”).

Discussione, quella tra stile e contenuto, che pure potrebbe lasciar intravedere qualche capello bianco, visto che già dopo l’uscita di Gomorra, negli anni Zero, gli scrittori si dividevano (ma più i critici, a dire il vero) nei paladini del cosiddetto ritorno alla realtà e negli “stilisti” che rivendicavano l’autonomia dell’arte. Lo spartiacque, si disse all’epoca, era l’11 settembre, che aveva riportato la storia al centro del dibattito, contro il disimpegno e l’ilare nichilismo postmodernista, al cinema e in letteratura. Poi, scava scava, gli scrittori preferivano rivendicare ed esibire, tra i modelli, De Lillo, Pynchon, Foster Wallace, e i registi guardavano a Nolan e Tarantino. E però dopo l’11 settembre, l’altro tema dell’impegno, come ricordavo prima, sono stati i fenomeni migratori di massa. Fenomeni ricorrenti, eclatanti, rispetto ai quali lo scrittore avrebbe dovuto sentire l’obbligo della pronuncia a voce alta, del dissenso dalle posizioni frigide o razziste di quelli delle torri d’avorio, che non volevano manco affacciarsi dalla finestrella. O magari da quella finestrella le cose le vedevano più chiare. Chi prende la parola al posto di qualcun altro, ha detto ottimamente Rancière, lo fa negando all’altro anche l’ultima possibilità che gli resta: la voce. Appropriazione, non compassione. Perché pure se su quei barconi ci vai davvero, alla fine, è sul tuo divano comodo che torni.

Il libro di poesia e impegno migliore che abbia letto in questi anni è Stand Up di Nathalie Quintane, tradotto in Italia lo scorso anno per l’editore Tic da Michele Zaffarano (non propriamente un bestseller, dunque, per le ridotte possibilità operative di un editore pure assai coraggioso). La poetessa francese prende le mosse da un comizio di Marine Le Pen, per deragliare verso una rappresentazione non compassionevole non edulcorante e non dal divano (o dal divano, con tutte le consapevolezze e le contraddizioni del caso) sui “poveri”, rovesciando la retorica buonista in un apparente cinismo:

Per i poveri. O non dovrebbe essere magari: verso i poveri? Non sarebbe forse il caso di segnalarla, una direzione? In mezzo ai poveri, per esempio, non va bene, anche se in mezzo a mantiene comunque una separazione – possiamo stare in mezzo a e, allo stesso tempo, essere assolutamente separati, ossia: a fianco; è altrettanto ovvio che possiamo stare a fianco di senza essere allo stesso tempo al fianco di. Direi anzi che il problema è tutto qui. Anche se oggi come oggi ce lo diciamo poco, da parte dei poveri ha un valore tattico e manipolatorio. Quindi, questo, lasciamolo perdere. A me piace con. Di con a me piace la brutalità semplice, la mancanza di smorfiette. Anche con, però, in questa situazione, non va molto bene, perché è chiaro che qui non sto davvero parlando con i poveri. Non c’è in corso nessuna discussione con i poveri. I poveri vivono nei loro angoletti, nelle loro periferie, nelle zone rurali più sperdute, dove solo i corvi arrivano a portare i rifornimenti. Io invece me ne sto qua sul mio computer a battere tasti mentre la brezza primaverile che passa dalla finestra anche se siamo in pieno gennaio piega con delicatezza i giunchi del mio giardino, il mio abete rosso e persino quell’arbusto che non mi ricordo più come si chiama, che ha fatto così tanta fatica ad attecchire perché non lo innaffiavo abbastanza e che invece, da un anno a questa parte, ha cominciato a buttare fuori rametti dappertutto, alcuni dei quali toccherà anzi cominciare a tagliarli. Il paese è a dieci minuti a piedi, e io senza bisogno di affaticarmi sul clacson mi porto a casa la mia baguette e le mie bistecchine prese dal macellaio, il tutto contando i nocciòli che costeggiano il ruscello, e preparandomi ogni volta a fermarmi in mezzo alla strada per lasciare passare gli scoiattoli senza spaventarli.

Lo scopo è quello di far risaltare l’ambiguità della parola di chi la toglie al diretto interessato (di nuovo con Rancière). Prendere la parola al posto di qualcuno implica un’autorità, ed è quell’autorità che Quintane s’incarica di demistificare, attraverso un’indagine linguistica e una postura “grammaticale” (esplicita nel titolo di sezione, Le preposizioni). Le cose, Foucault insegna, non sono incarnate ma rappresentate dalle parole: «fare attenzione alle parole che si usano» dice Quintane in un’intervista, «vuol dire lottare col potere, scardinarne le retoriche». Quindi non è in questione, possiamo rassicurare Siti, un’idea di letteratura che ne preservi (solo) la purezza o l’intensità o l’abisso: c’è anche e propriamente un aspetto politico, nella cura della parola, del ritmo, della sintassi, dell’impalcatura, dell’ordito, dell’immaginario, della visione, della costruzione. Tutti aspetti che fanno l’opera.

Infine, l’enorme questione del rapporto tra letteratura e realtà (o meglio verità, accogliendo la distinzione che Giulio Mozzi propone sin dall’incipit nel suo romanzo). Il sito thispersondoesnotexist.com raccoglie volti di persone che non esistono, e la cui immagine risulta perfettamente plausibile (il database deve avere comunque dei tratti migliorativi, perché sono quasi tutti volti belli o comunque non brutti). Cosa deve fare la letteratura, comportarsi come quel database o come vuole Siti? Il maggior obiettivo della letteratura, dice Siti, non è la testimonianza, ma l’avventura conoscitiva. Con un retroterra orlandiano, si può ancora sostenere che la letteratura sia lo spazio dell’ambiguità, in cui una cosa è “sia vera sia no”, perché, chiosa Siti, “ambigua è la nostra psiche, ambiguo è il nostro corpo” e “le ambiguità rimosse possono portare a esiti controproducenti, a false euforie”. Tipo, quella della letteratura “per tutti”. Negli anni Novanta Antoine Compagnon si domandava se esistesse un punto di incontro tra il pubblico della letteratura e i suoi “esperti” (rifuggendo dal cosiddetto “demone della teoria”). Un libro difficile richiede un sovrappiù di interpretazione, non è per “tutti”. Ma che vuol dire letteratura per tutti? Chi sono quei tutti, giustamente si chiede Siti? Quando lo sono diventati, i lettori, “quei tutti a cui i testi devono arrivare”, e in nome di cosa, lo sono diventati?

Una delle più potenti intuizioni del libro è il nesso (suggestivo ma anche fondato, in qualche modo) tra l’engagement e l’engagement rate (il quoziente che calcola l’efficacia di un contenuto in rete). Attenzione a dirci troppo impegnati, perché dietro tutto questo impegno potrebbe esserci uno sforzo che alla fine non vale l’impegno, se il contenuto più “webbabile” (geniale neologismo) dura comunque un amen, e il giorno dopo il rossetto della beautyroutine è già da cambiare.

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Gugo
Sunday, 16 May 2021 21:58
“il problema del virus è il contagio, e la tua libertà di ammalarti finisce dove comincia la mia di non volerlo fare, specie se appartengo alle categorie cosiddette fragili”... Una giustificazione davvero debole delle misure neoproibizioniste di segregazione. Al limite potrebbe giustificare l’isolamento appunto delle categorie deboli, non dell’intera popolazione. Se non è mai stato fatto in passato, un motivo ci sarà. Imporre il coprifuoco ai ventenni, che non rischiano nulla, per tutelare gli ultra-ottantenni con tre patologie pregresse non ha senso, e chi lo sostiene o è in malafede o guarda la televisione
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