Print Friendly, PDF & Email

jacobin

Un Nobel oltrecanone

di Jessy Simonini

Nella scrittura sovversiva di Annie Ernaux soggetto politico è prima di tutto il corpo nella sua vita materiale, nella densità e intensità dei suoi momenti d'essere

Ernaux jacobin italia 1320x481Oltre un anno fa, nello scrivere un lungo testo in occasione dell’uscita in Italia de La donna gelata, mi interrogavo su come la scrittura di Annie Ernaux ci imponesse di ripensare in profondità il rapporto fra politica e letteratura, generando uno spazio altro in cui il libro diventa «strumento di lotta» (Gli anni) e, allo stesso tempo, «ultima risorsa» di fronte al tradimento, in particolare quello del «transfuga di classe» che deve fare i conti con il proprio irreparabile mutamento (ne Il posto, citando una frase di Genet: «Azzardo una spiegazione: scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito»). E giungevo a una strana conclusione, riprendendo un’idea di Anna Maria Ortese, quella della letteratura come reato, «reato di nitida e feroce opposizione al potere e ai suoi rappresentanti, alla società nella sua attuale configurazione, alla dominazione maschile e del capitale, al classismo costitutivo del pacifico mondo occidentale». Mi sembrava che quel «reato» simbolico racchiudesse il cuore di un progetto in cui vita e scrittura diventano la stessa cosa, fino a non essere più distinguibili.

Il 6 ottobre, Annie Ernaux ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Sui giornali e sulle riviste si sono susseguite moltissime riflessioni (talora acute, talora molto meno) che hanno messo in luce il rapporto di Ernaux col femminismo (anche in seguito all’uscita del film tratto da L’evento) e i grandi temi che attraversano la sua scrittura: la memoria (nella sua dimensione concreta, materiale), i legami familiari da intendersi in una prospettiva transclasse, la sessualità, la maternità, il rapporto fra letteratura e analisi sociologica. Si sono citati i libri considerati come suoi «capolavori», fra cui Il posto e Gli anni.

Alcuni hanno evocato le posizioni politiche dell’autrice, la sua vicinanza mai celata ai gilet gialli e ai movimenti che si opponevano e si oppongono alla politica classista e antisociale di Emmanuel Macron, in una Francia sempre più divisa e affaticata. La stessa che con immagini così potenti aveva raccontato proprio ne Gli anni, descrivendo le elezioni presidenziali del 2002, «gli operai e le cassiere usciti dall’ombra» che «venivano intervistati con un’attenzione nuova ai fini di una comprensione immediata e senza domani». La stessa di cui ci hanno parlato, più recentemente, Sophie Divry in Cinq mains coupées o Joseph Ponthus in À la ligne, tradotto presso Bompiani con il titolo Alla linea.

Gli articoli sul Premio Nobel, le banalissime riflessioni di qualche commentatore, l’improvviso ingresso di Ernaux in un non meglio definito «canone» (per un premio che, in realtà, da molti anni compie scelte paradossalmente anti-canoniche): ogni cosa partecipava a un appiattimento, nulla a che vedere con l’écriture plate descritta ne Il posto, ma piuttosto una banalizzazione feroce e colpevole della sua scrittura. Quasi un offuscamento programmatico della carica sovversiva e del senso politico di una scrittura che non si può certo imbrigliare in categorie semplificatorie come militanza o impegno, ma che le trascende e si situa in uno spazio altro: dove a essere un soggetto politico è prima di tutto il corpo, nella sua vita materiale, nella densità e intensità dei suoi momenti d’essere.

E così, alcuni dei suoi lettori, fra i quali anche io mi situo, si sono trovati sospesi fra la gioia per un riconoscimento così importante e l’amarezza per una banalizzazione così scientifica, resa ancora più evidente dalle parole opache ed estremamente generiche della motivazione formulata dall’Accademia di Svezia: «per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale». Una definizione tanto vaga quanto impolitica, che si sarebbe potuta utilizzare, parola per parola, anche per Patrick Modiano, cui lo stesso premio è stato assegnato nel 2014.

Il dibattito ha seguito questa banalizzazione e questa polarizzazione: tra progressisti e conservatori; tra chi considera giusto che il premio sia andato a Ernaux e chi invece lo avrebbe assegnato a scrittori «veramente grandi», in generale uomini, bianchi, tendenzialmente reazionari (quasi nessuno di quelli che ho letto, infatti, lo avrebbe assegnato a Maryse Condé o a Jamaica Kincaid). Tra chi ha inteso questo premio come una risposta alle spinte reazionarie provenienti da più parti e chi, invece, ha deplorato una scelta tanto politica. In Francia, la stampa di destra ha colto l’occasione per contestare il posizionamento di Ernaux, considerato come troppo estremo e vicino alle posizioni della Nupes (la scrittrice è membro dell’organo assembleare dell’Union Populaire, coalizione lanciata da Jean-Luc Mélenchon); i siti e i gruppi ultra-sionisti hanno presentato Ernaux come «neofemminista, razzista, indigenista, comunista, antisemita, decoloniale, neoecologista, propalestinese, nemica di Israele e militante della France Insoumise da dieci anni». La rivista Causeur ha evocato, sin dal titolo, la décheance de la littérature française che porterebbe con sé il Nobel a Ernaux, una «decadenza» che ha le sue radici nel ripiegamento eccessivamente intimo e nombriliste della sua scrittura, incapace di descrivere globalmente il nostro tempo, nei suoi conflitti (come sanno invece fare, sempre secondo Causeur, Roth e Houellebecq). Già nel 2016, Frédéric Beigbeder, con un articolo su Le Figaro (poi ripubblicato appena dopo l’annuncio del Nobel), scriveva: «Ricapitoliamo: in mezzo secolo, Annie Ernaux ha successivamente scritto sul padre, sulla madre, sul suo amante, sul suo aborto, sulla malattia della madre, sul suo lutto e sul suo supermercato» prodigandosi poi in un affilato affondo contro Memoria di ragazza, libro che si focalizza sull’estate del 1958, l’estate della prima volta, quando Ernaux si chiamava ancora Annie Duchesne.

Non c’è nulla di falso in ciò che scrive Beigbeder: Ernaux ha scritto di suo padre, di sua madre, dei suoi amanti, del suo aborto, dell’estate in cui scoprì il sesso, di supermercati e stazioni della rer. Dimentica di dire che centinaia di altre scrittrici o scrittori lo hanno fatto e lo faranno nei secoli a venire, ma la scrittura di Ernaux è riuscita a trasformare un’istanza individuale in un discorso collettivo; a far toccare vita e letteratura, sì, ma soprattutto a far risuonare le nostre vite, le vite di molti di noi, nella sua scrittura grazie al definirsi di un nuovo linguaggio: un linguaggio aguzzo, preciso, così invitante, a volte talmente vicino a ciò che sentiamo (e che vorremmo riuscire a esprimere proprio con quelle esatte parole) da sconvolgerci.

In questo, Ernaux si situa pienamente in una genealogia letteraria femminista che intende la scrittura come una pratica di liberazione di sé attraverso le forme dell’autocoscienza e del racconto autobiografico, facendo del proprio corpo il punto di partenza di questo progetto. Una genealogia che rifiuta la formula di «scrittura femminile» (da L’écriture comme un couteau: «Come Nathalie Sarraute non mi piace apparire nella categoria di “scrittura femminile”. Nella letteratura non c’è una “scrittura maschile”, ovvero legata al sesso biologico o al genere maschile. Parlare di scrittura femminile, di fatto, è praticare la differenza sessuale – e soltanto per le donne – […]: una letteratura delle donne per le donne») e che, andando a ritroso, ci fa pensare a tante autrici del Novecento: Goliarda Sapienza o Alba De Céspedes, ma anche – paradossalmente – Elsa Morante per la letteratura italiana; e soprattutto Violette Leduc per quella francese, che rileggendo Ernaux sembra una presenza carsica (soprattutto rispetto alla mole di citazioni da Simone de Beauvoir), quasi mai evocata eppure così vicina al suo progetto di scrittura e così vicina anche nello sguardo, nel raccontare sé stessa e la propria vita senza alcun filtro.

È la stessa Ernaux, proprio in Memoria di ragazza, a citare una lettera di Leduc a Beauvoir (lettera della disperazione di fronte all’abbandono di un uomo amato); Leduc che, proprio come Beigbeder rimprovera a Ernaux, parla della madre, della nonna, dei suoi amanti, degli scrittori incontrati negli anni Quaranta come Sachs e Genet, di un grande amore di collegio (in Thérèse et Isabelle) e di un aborto (in Ravages), oltreché della donna che ama immensamente e a cui deve moltissimo, Simone de Beauvoir (in L’affamée). Leduc lo fa senza nascondere nulla, scrivendo la vita per come è stata, subendo la censura, vivendo in povertà e isolamento, ma mettendo al centro della sua scrittura il proprio corpo e il proprio desiderio: amare è scrivere e viceversa, scrive – e a ragione – Catherine Viollet parlando proprio di Leduc.

In questo lignaggio opaco, fatto di vuoti e di pieni, di dimenticanze e forclusioni, in un oltrecanone dove trovano posto anche Christiane Rochefort o Albertine Sarrazin, Claire Etcherelli o Françoise Mallet-Joris, la stessa Simone de Beauvoir e decine di altre, disperse sotto il battito sordo dei secoli e delle storie letterarie maschie e prescrittive, che si può leggere l’apparizione di Ernaux nella letteratura, l’evoluzione della sua scrittura e il successo sorprendente degli ultimi anni. Lei stessa, ne L’écriture comme un couteau, evoca con queste parole il suo incontro con Beauvoir: «E ho incontrato Beauvoir, insomma non veramente, perché non l’ho mai vista né le ho mai parlato, abbiamo soltanto scambiato due lettere all’uscita dei miei primi libri, ma nel Secondo sesso, a diciotto anni. Mi ricordo di quell’esperienza di lettura, in un aprile piovoso, come una rivelazione. Tutto ciò che avevo vissuto negli anni precedenti, l’opacità, la sofferenza, il malessere, tutto all’improvviso mi era chiaro».

Già in passato queste istanze di soggettivazione attraverso la scrittura sono state lette in termini politici. In Taci, anzi parla Carla Lonzi ribadiva (parlando di Plath) l’idea di scrivere di sé per liberarsi, che è un elemento fondamentale della sua idea di scrittura. Questa liberazione per Ernaux assume un significato diverso, perché è anche una liberazione di classe. Come se il patrimonio del femminismo e delle tante autrici che ho citato si ripensasse in una prospettiva nuova, legata a una visione dialettica del mondo, dei rapporti di produzione, dei conflitti tra classi sociali. Tantissimo si è scritto sull’idea del «transfuga», ripresa anche da autori di più modesti esperimenti che intrecciano autobiografia e sociografia, come Édouard Louis. Non ha senso tornarci su, ma ha senso notare come la scrittura si origini proprio in questo conflitto fra la classe sociale alla quale si è appartenuti un tempo e quella a cui si appartiene ora, sull’impossibilità di accettare completamente questa fluttuazione. Sempre ne La place, Ernaux è sul treno, guarda intorno a sé il vagone in cui è seduta e per la prima volta si sente una borghese. In questa scena assai nota, in realtà molto banale, registrata senza commenti e senza spiegazioni dalla scrittrice, c’è tutto il senso politico della sua scrittura: una visione dialettica del mondo, dei rapporti di classe, un mondo sommerso fatto di conflitti e fratture che prendono vita nell’io e poi sulla pagina.

Non sorprende, allora, che la scrittura di Ernaux tanto abbia parlato ai sociologi. Didier Eribon fa di Ernaux un riferimento essenziale per Ritorno a Reims, dove raccontare la propria storia (molto diversa da quella di Ernaux) con categorie sociologiche non impedisce un ricorso costante alla letteratura, a Genet, a Baldwin e anche alla stessa Ernaux. Ancora più interessante, forse, il tentativo di una scrittura autobiografica partendo da un retroterra esclusivamente sociologico che conduce Rose-Marie Lagrave in un libro pubblicato di recente in Francia, Se ressaisir, a sviluppare un’ampia indagine sul proprio percorso di «transfuga di classe». Fin dalle prime pagine, la sociologa è spinta a confrontarsi con la scrittura di Ernaux e con il suo percorso di vita: «Molto più della produzione universitaria, la letteratura, con scrittrici che hanno ripercorso le loro vite, incoraggia questo lavoro sessuato di ricomposizione di sé stessi. In quest’ottica, Annie Ernaux “etnologa organica della migrazione di classe” ha un ruolo di pioniera. I suoi libri, divorati man mano che venivano pubblicati, mi hanno plasmata […]». L’idea di una scrittura come liberazione, dunque, assume un significato più ampio: non liberare soltanto sé stessa, ma liberare la propria classe e la parola altrui, per generare nuove scritture, cose d’altri, vite d’altri.

Del Nobel a Ernaux, dunque, ci interessa solo relativamente: un riconoscimento istituzionale per una scrittrice di certo non appartata (e, anzi, pienamente inserita nelle dinamiche letterarie ed editoriali contemporanee) ma fuori da logiche di potere, soprattutto fuori dalla retorica coloniale e nazionalista agita dalla presidenza Macron, in questi anni, con le sue politiche – anche le politiche culturali sulla diffusione della francofonia del mondo.

Più utile riflettere su ciò che dopo il Nobel è avvenuto: una polarizzazione e un’alzata di scudi che ci interroga molto sullo «spazio delle donne» (è il titolo di un discusso pamphlet di Daniela Brogi) nella letteratura e sulla misoginia di certa critica. Misoginia che spesso si nasconde dietro la retorica del «grande scrittore» (maschio) e contesta un’idea di letteratura troppo chiusa sul soggetto, sul parlare di sé che sarebbe di scarso interesse rispetto alle forme dell’invenzione romanzesca. Una letteratura minore, senza stile, senza invenzione. A questo viene ridotta, da molti, la scrittura di Ernaux, cui si contesta anche un presunto moralismo, i troppi buoni sentimenti che ne fanno un’autrice politically correct. Del resto, anche quindici anni fa, qualcuno contestava un’altra autrice Premio Nobel con le stesse categorie di analisi. Si trattava di Harold Bloom, che definiva la scrittura di Doris Lessing come espressione di una «pure political correctness» davvero insopportabile.

Nel dibattito – si badi bene – non ci sono soltanto posizioni misogine o velatamente reazionarie, ma si incontrano tante idee diverse di letteratura, le preferenze e gli amori di chi legge o si occupa di scrittura. Tuttavia, guardando il versante francese, si nota come qualcosa di significativo sia accaduto e come questo riconoscimento e il dibattito che ne è scaturito abbiano imposto di riflettere nuovamente sul canone, metterlo in discussione, riprendere a decostruirlo. Superare l’idea stessa di canone – che è per sua natura bianco, coloniale, all’apparenza politicamente neutro ma in realtà borghese e oppressivo, «prodotto di una visione del mondo parziale ed escludente, comoda e rassicurante per il potere di turno» come scrive Anna Maria Crispino, – verso nuove forme di relazionalità e nuove esperienze di scrittura e condivisione. Ecco qual è forse il senso che possiamo dare a questo Nobel e al posizionamento oltrecanonico della scrittura di Annie Ernaux.


*Jessy Simonini, dopo esperienze di studio e insegnamento in Francia, è dottorando in letterature comparate presso le Università di Trieste e Udine. Ha diretto per due anni la rivista Le Voci della Luna. Si occupa di autorialità femminile nella letteratura italiana e in quella francese.

Comments

Search Reset
0
Adelaide
Sunday, 16 October 2022 15:31
Banalizzazione ripetuto tre volte in poche righe. Sembra questo il cruccio del pretenzioso articolo che vuole dare un senso al Nobel conferito alla Ernaux...
A tutti i costi si deve dire e distinguersi dai tanti che, per l'occasione, e in tempi non sospetti hanno scritto sulla Ernaux. A parte i riferimenti frequenti ad altri scrittori e scrittrici ( ritengo in gran parte sconosciuti ai lettori) , alla fine, per chi sa poco della francese premiata dall'Accademia di Svezia o volesse farsi un'idea ed esplorarla, l'articolo non è di alcun aiuto.
Ottimi commenti o recensioni si trovano in rete senza queste inutili disquisizioni.
Infine una citazione del romanzo "Gli anni" ( potrebbe servire ad attenuare le nostre egomanie) :

«Tutte le immagini scompariranno.

la donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava nel caffè

il volto pieno di lacrime di Alida Valli mentre ballava con George Wilson nel film L'inverno ti farà tornare

l'uomo incrociato su un marciapiede di Padova nell'estate del '90, con delle manine attaccate alle spalle che subito facevano pensare alla talidomide prescritta trent'anni prima alle donne incinte contro le nausee e allo stesso tempo alla barzelletta che si era raccontata in seguito: una futura madre lavora ai ferri il corredo per il neonato ingerendo con regolarità della talidomide, un giro di maglia, una compressa. Inorridendo un'amica le dice, ma come, non lo sai che il tuo bambino rischia di nascere senza braccia?, e lei, certo che lo so, è che non so fare le maniche

Claude Piéplu alla testa di un reggimento di legionari in un film con Les Charlots, in una mano la bandiera, nell'altra una corda attaccata a una capra

quella donna maestosa affetta da Alzheimer, con lo stesso camice a fiori delle altre degenti ma con uno scialle azzurro a coprirle le spalle, che percorreva solenne i corridoi della casa di riposo, senza mai fermarsi, altezzosa, come la duchessa di Guermantes al Bois de Boulogne, e che faceva pensare a Céleste Albaret quando aveva partecipato a una trasmissione di Bernard Pivot

sul palco di un teatro all'aperto, la donna rinchiusa in una scatola che alcuni uomini avevano trafitto da parte a parte con lance d'argento – uscitane viva perché si trattava di un gioco di prestigio chiamato Il martirio di una donna

le mummie dei merletti sbrindellati che incombevano dai muri del convento dei Cappuccini di Palermo

il volto di Simone Signoret sulla locandina di Thérèse Raquin »
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit