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Salviamo l'ambiente dall'ecocapitalismo
di Giovanni Di Benedetto
Come avviene la determinazione del valore in una società nella quale vige il modo di produzione capitalistico? In che modo si genera il valore di una merce e quale tipo di conseguenze economiche, sociali, ecologiche questo processo di produzione porta con sé? In particolare, come si ritiene possibile salvare l’ecosistema dal disastro ecologico senza tenere conto del problema della determinazione della struttura del valore? Si tratta di questioni che, nel drammatico crogiuolo della crisi economica, attraversano trasversalmente le dinamiche della ristrutturazione economica e quelle della crisi ambientale. Eppure, la quasi totalità delle analisi degli economisti di parte neoliberista che si confrontano col disastro ambientale eludono il problema relativo all’impossibilità di una razionalità economica che si faccia carico delle esternalità ambientali e, anzi, continuano a ritenere possibile non solo salvare il pianeta dalla catastrofe ecologica, cosa di per sé auspicabile, ma, per di più, trarre nuove occasioni per un’ulteriore accumulazione di profitto, coniugandolo magari, che ingenui, con il bene sociale.
Un approccio di questo tipo, per esempio, è rintracciabile in un recente contributo di Edmund S. Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, e direttore del Center on Capitalism and Society della Columbia University, pubblicato su «Il Sole 24 Ore» di domenica 14 gennaio 2018 e intitolato Salvare l’ambiente e salvare l’economia.
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L'antropocene* come Feticismo
Postfazione di Thomas Meyer
Leggere a proposito della catastrofe climatica a venire, nell'indifferente provoca uno sbadiglio dettato dalla noia: si è già sentito tutto ed è già successo tutto, ma di regola non si vede proprio niente. A partire dalle notizie, di certo già sentite molte volte, a proposito del fatto che abbiamo di nuovo a che fare con il mese più torrido che ci sia mai stato da quando esiste un registro metereologico, la vita ignorante continua nella sua falsità, come sempre apparentemente "normale". Ma questa normalità immaginaria si basa appunto solo sull'ignoranza del soggetto narcisista della postmodernità, che arriva senza dubbio ad immaginare diverse fini del mondo, ma, dall'altro lato, non riesce a pensare niente di più plausibile del fatto che il mondo deve essere finanziabile, costi quel che costi! Il denaro, come si sa, non manca.
Naturalmente, anche aprire il giornale e leggere del capitalismo e delle catastrofi che ha scatenato, nemmeno questa è una novità. Vale tuttavia la pena affrontare la questione in maniera più dettagliata. Il testo di Daniel Cuhna cerca di sviluppare, nei termini della critica del valore, il problema del dominio capitalista della natura, insieme alle questioni a tale dominio associate - in maniera diversa rispetto a come hanno fatto Adorno e Horkheimer ne La Dialettica dell'Illuminismo, in cui anche essi tendono alla mitologia, riferendosi sempre alla valorizzazione del valore realmente capitalista.
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Introduzione a “Lavoro, Natura, Valore”
di Emanuele Leonardi
Pubblichiamo l’introduzione del volume Lavoro, Natura, Valore. André Gorz tra marxismo e decrescita, di Emanuele Leonardi, appena uscito per i tipi di Orthotes
Ancora fino a pochi anni fa un libro dedicato al rapporto tra scienze sociali e crisi ecologica, nonché alle implicazioni politiche di tale rapporto, avrebbe richiesto un’introduzione finalizzata a mostrare la rilevanza della questione ambientale per il dibattito pubblico e/o per quello scientifico. Mi pare si possa tranquillamente affermare che le cose stiano oggi in modo ben diverso, come dimostra per esempio la vastissima eco mediatica destata dalla firma dell’Accordo di Parigi al termine delle ventunesima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (Dicembre 2015). Ce ne fosse bisogno, una prova ulteriore potrebbero essere i profondi investimenti economico-diplomatici legati al recentissimo G7 Ambiente – tenutosi a Bologna nel Giugno del 2017 – che ha rappresentato un primo momento di teso confronto tra l’amministrazione americana guidata dal negazionista Donald Trump e i restanti governi delle nazioni più industrializzate del pianeta, impegnatissimi (a parole) nella lotta al riscaldamento globale.
Mi soffermo brevemente su questi due ‘eventi-prova’ perché mi danno la possibilità di chiarire l’oggetto polemico della riflessione che segue e di inquadrare le domande di ricerca che l’hanno guidata. Partiamo dall’Accordo di Parigi, il trattato internazionale che sostituisce il Protocollo di Kyoto (siglato nel 1997 e ratificato nel 2005 – d’ora in poi PK) e su cui è destinata a basarsi nel prossimo futuro la politica climatica globale.
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La responsabilità politica del collasso del nostro pianeta
di Roberto Savio*
Ormai è chiaro che abbiamo perso la battaglia per mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto. Una personale opinione? No, fornirò tutti i dati perché sia concreta
Il 20 dicembre, I 28 ministri europei dell’Ambiente si sono incontrati a Bruxelles per discutere il piano per la riduzione delle emissioni di CO2 preparato dalla Commissione, in accordo con le decisioni della Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici. Bene, è ormai chiaro che abbiamo perso la battaglia per mantenere il pianeta così come lo abbiamo conosciuto.
Ora, sicuramente questa di seguito può essere considerata la mia personale opinione, priva di obiettività. Per questo fornirò molti dati, elementi storici e fatti, perchè sia concreta. I dati e i fatti hanno una buona qualità: concentrano l’attenzione su ogni dibattito, mentre le idee no. Quindi tutti voi che non amate i fatti, per favore smettete di leggere qui. Vi risparmierete un articolo noioso, come probabilmente sono tutti i miei articoli, perchè non sto cercando di intrattenere ma di sensibilizzare. Se smettete di leggere, perderete inoltre l’opportunità di conoscere il nostro triste destino.
Come è cosa comune in politica oggigiorno, gli interessi hanno preso il sopravvento sui valori e sulla visione.
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Il nodo ecologico nel marxismo del XXI secolo
di Dante Lepore
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo di Dante Lepore sulla “questione ecologica”, una delle grandi questioni mondiali del nostro tempo, largamente dimenticata nel dibattito in corso.
Certo, non mancano le grida di allarme. Di recente, ad esempio, G. Monbiot ha richiamato l’attenzione sull’Insectageddon – la catastrofica diminuzione degli insetti; altri scienziati hanno messo in primo piano il surriscaldamento globale; altre denunce ancora si concentrano sulla penuria (e lo spreco crescente) di acqua. Ma anche gli ecologisti più seri restano imprigionati in visioni parziali, che non arrivano ad afferrare la causa profonda, sistemica, delle minacce alla stessa sopravvivenza della specie, che è costituita dal modo di produzione capitalistico, e dalle sue implacabili, immodificabili, cieche leggi di movimento.
Il contributo di Dante Lepore va, invece, proprio in questa direzione e mette capo alla necessità di dare una risposta di lotta radicale e globale ai poteri globali che esercitano la distruttiva dittatura del capitale sulle nostre vite e sulla vita della natura.
* * * *
1. Marxismo e rapporto capitalistico uomo-natura: gli effetti contro l’uomo
Una delle conseguenze più deleterie scatenate dal capitalismo a danno della natura nel suo insieme animale e vegetale e della sua parte più evoluta e cosciente, l’uomo, sta nell’aver accelerato al massimo, nei ritmi e nel livello quantitativo, la scissione e il saccheggio di entrambi, con riflessi, da alcuni decenni, sull’intero ecosistema (dal greco, oikos significa ambiente), seminando ovunque dove prima c’era unità, comunità, uguaglianza, ogni genere di opposizione, differenza, dominio di alcuni su altri, diseguaglianza economica.
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Benvenuti nel Capitalocene!
D. G. Alì intervista Elmar Altvater
Come il capitalismo ha cambiato il rapporto uomo-natura: Antropocene, Capitalocene, Ecocapitalismo e Chthulucene
«Bisogna smetterla con questa costosissima cagata del riscaldamento globale».
(Donald J. Trump, Twitter, 1 gennaio 2014)
A 550 km dal circolo polare artico, sulle coste orientali della Groenlandia, si trova la Warming Island (‘l’isola del riscaldamento globale’), riconosciuta come tale nel 2005, quando il ghiacciaio che la univa alla terraferma, ritirandosi a causa dell’aumento della temperatura globale, ne provocò il definitivo distacco.
Quello del riscaldamento globale è uno dei fenomeni che appare oggi in cima alla lista delle principali emergenze ambientali del nostro pianeta. Il progressivo aumento della temperatura terrestre è dovuto all’emissione nell’atmosfera di crescenti quantità di gas serra, strettamente correlate ad attività umane industriali e a politiche economiche imperialiste. Tra gli altri fenomeni antropogenici di mutamento ambientale, la comunità scientifica annovera l’inquinamento (con l’immissione nell’atmosfera, nell’acqua e nel suolo di sostanze contaminanti), il buco dell’ozono, l’effetto serra, l’elettrosmog e l’estinzione di numerose specie naturali (con i suoi annessi fenomeni di deforestazione e desertificazione).
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Il sintomo-Antropocene
di Emanuele Leonardi e Alessandro Barbero
Jason W. Moore: Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell'era della crisi planetaria, Ombre Corte, 2017
L’uomo del XX secolo si è emancipato dalla natura come quello del XVIII dalla storia. Storia e natura ci sono diventate altrettanto estranee, nel senso che l’essenza dell’uomo non può più essere compresa con le loro categorie.D’altronde, l’umanità che per il XVIII secolo non era, in termini kantiani, più che un ideale regolativo, è oggi diventata un fatto inevitabile. [Nel]la nuova situazione […] l’umanità ha effettivamente assunto il ruolo precedentemente attribuito alla natura o alla storia. Hannah Arendt (2004: 413)
Il libro che avete tra le mani rappresenta uno degli interventi più significativi all’interno del dibattito sul concetto di Antropocene, coniato dal microbiologo Eugene Stoermer negli anni Ottanta del XX secolo e reso celebre dal Nobel per la chimica Paul Crutzen a partire dal 2000 (Crutzen e Stoermer 2000). Ultimamente il termine è divenuto una sorta di moda, una parola accattivante, in particolare nell’ambito delle scienze sociali – come dimostra il lancio di tre influenti riviste internazionali esclusivamente dedicate: Anthropocene, The Anthropocene Review ed Elementa. Anche il mondo della stampa generalista ha reagito con entusiasmo: Guardian, New York Times ed Economist hanno frequentemente trattato del tema, rimbalzato di tanto in tanto anche in Italia sulle pagine di manifesto, Repubblica e Corriere della sera.
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La nostra economia dell’obsolescenza
di Steven Gorelick
Un mio amico indiano racconta una storia riguardo all’aver guidato una vecchia Volkswagen Beetle dalla California alla Virginia durante il suo primo anno negli Stati Uniti. In una singolare tempesta di ghiaccio in Texas è finito fuori strada, lasciando l’auto col parabrezza rotto e portiere e parafanghi malamente ammaccati. Quando è arrivato in Virginia ha portato l’auto in una carrozzeria per una stima della riparazione. Il proprietario le ha dato un’occhiata è ha detto: “E’ irrecuperabile”. Il mio amico indiano è rimasto sconcertato: “Come può essere irrecuperabile? L’ho appena guidata fin qui dal Texas!”
La confusione del mio amico era comprensibile. Anche se “irrecuperabile” suona come una specie di termine meccanico, è in realtà un termine economico: se il costo della riparazione è superiore a quanto varrà l’auto dopo, la sola scelta economica “razionale” e portarla dallo sfasciacarrozze e comprarne un’altra.
Nelle “società a perdere” del mondo industrializzato, questo è uno scenario sempre più comune: il costo di riparazione di stereo, elettrodomestici, utensili elettrici e apparecchi di alta tecnologia supera il prezzo di comprarne di nuovi.
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Contro l’Antropocene : il Capitalocene
di Caterina Molteni
Il legame tra le origini del capitalismo e lo sviluppo della crisi ambientale. Una rilettura dell’Antropocene attraverso l’analisi di Jason W. Moore e la proposta di una lettura storica, e non solo geologica, delle relazioni che co-costituiscono uomo e natura
In una recente conferenza, Donna Haraway ripropone un’espressione di Virginia Woolf, «Think we must! We must think!»,[1] per chiedere di osservare le proprie abitudini di pensiero e di linguaggio poiché, velate da un’apparente normalità, sono alla base delle principali discriminazioni di genere e semplificazioni che rendono impossibile pensare il presente. Nel corso della conferenza, la propulsiva spinta che accompagna il discorso di Haraway la condurrà a parlare di Chthulucene, argomento che verrà ripreso nella seconda parte di questo saggio. La riflessione qui presentata comincia invece dall’osservazione, grazie alle analisi di Jason W. Moore, teorico del Capitalocene, delle problematiche sorte dall’avvento dell’Antropocene: un’era geologica ormai accettata dal sentire comune, in cui l’uomo diventa attore principale di cambiamenti irreversibili sulla natura.
«Shut down a coal plant, and you can slow global warming for a day;
shut down the relations that made the coal plant, and you can stop it for good»
Jason W. Moore
La periodizzazione storica dell’Antropocene vede al suo inizio la progettazione della macchina a vapore.
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Ecologia politica di André Gorz. Note su un discorso insostenibile
di Simone Benazzo
Il filosofo francese André Gorz (1923-2007) è stato tra i principali animatori della teoria della ecologia politica a partire dai primi anni Sessanta. Vedere come nasce e come si sviluppa questa teoria nella sua riflessione cinquantennale permette di rintracciarne alcuni elementi costitutivi che sono oggi, forse più di ieri, estremamente attuali. Forse più di ieri, perché alcuni elementi della peregrinazione filosofica di André Gorz, in primis il precoce distacco dall’impianto socialista e la lucida denuncia di qualsiasi soluzione tecnocratica come ecofascismo, danno al suo approccio e ad alcune delle sue conclusioni quella coloritura visionaria che consentirebbe agevolmente al lettore italiano (spesso digiuno) di scambiarlo per un autore della Generazione Y. L’annichilimento dell’ecosistema è in Gorz un problema secondario a quello dell’annichilimento del soggetto. Secondario non nel significato di meno urgente, bensì in senso cronologico e soprattutto causale. L’oppressione primigenia è quella del soggetto, a cui quella della biosfera è inestricabilmente legata.
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I presupposti teorici del mito della “decrescita felice”*
di Marco Paciotti
Perché è utopico pensare di rendere il sistema capitalistico compatibile con il rispetto dell’ambiente
Negli ultimi anni si è assistito, nel variegato campo della sinistra anticapitalista, a una crescente attenzione dedicata ai temi della “decrescita felice”, sdoganata dalle opere del filosofo ed economista francese Serge Latouche, il quale, grazie a tale parola d’ordine, ha acquisito enorme fama ed è finito per diventare un’icona anche per alcuni ambienti della sinistra antagonista, oltre che bandiera ideologica del Movimento 5 Stelle. Ma la decrescita è veramente un tema dirompente contro l’attuale modo di produzione? Può l’ecologismo alla Latouche essere conciliato nella teoria di Marx? La decrescita è concretamente realizzabile nel capitalismo?
Per poter rispondere a queste domande è necessario risalire alle origini teoriche dell’ecologismo alla Latouche. La formulazione più organica e coerente, e per certi versi acuta, dei motivi ecologisti può essere fatta risalire alla Bioeconomia, teoria economica proposta da Nicolae Georgescu-Roegen (1906-1994) per la realizzazione di un sistema ecologicamente e socialmente sostenibile. Per utilizzare le parole dello stesso Georgescu-Roegen, il paradigma teorico della Bioeconomia si fonda sul presupposto che “la sopravvivenza dell’uomo non è un problema né solo biologico, né solo economico, ma bioeconomico” [1].
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L’alternativa della decrescita*
di Giorgos Kallis
Apriamo con questo articolo una serie di approfondimenti sul pensiero della decrescita. Giorgos Kallis è economista ecologico presso l’Institut de Ciència i Tecnologia Ambientals dell’Università Autonoma di Barcellona, nonché voce di spicco di quella che abbiamo proposto di definire “via catalana” alla decrescita
Sia il nome che la teoria della decrescita mirano esplicitamente a ri-politicizzare l’ambientalismo. Lo sviluppo sostenibile, così come la sua più recente reincarnazione – la “crescita verde” –, de-politicizzano gli autentici antagonismi politici tra visioni alternative del futuro. Trasformano i problemi ambientali in questioni tecniche, promettendo soluzioni vantaggiose per tutti [win-win] e l’orizzonte impossibile di perpetuare la crescita economica senza danneggiare l’ambiente. Ecologizzare la società, per la decrescita, non significa implementare uno sviluppo alternativo, migliore, più verde. Significa immaginare e mettere in pratica visioni alternative allo sviluppo moderno basato sulla crescita. Questo saggio esplora queste alternative e identifica alcune pratiche dal basso e cambiamenti politici volti a facilitare la transizione a un mondo prospero e giusto senza crescita.
Ecologia vs. Modernità
Il conflitto tra ambiente e crescita è onnipresente. Per i sostenitori dello “sviluppo” il valore della crescita non deve essere messo in discussione: più miniere, trivelle, costruzioni e manifatture sono necessarie per espandere l’economia.
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Cinque risposte su marxismo ed ecologia
di Saral Sarkar e John Bellamy Foster
Il marxismo può rafforzare la nostra comprensione della crisi ecologica? L’autore di Marx’s Ecology, John Bellamy Foster, replica alle critiche su temi quali frattura metabolica, sviluppo umano sostenibile, decrescita, crescita demografica e industrialismo.
Il sito indiano Ecologize ha recentemente pubblicato la prefazione scritta da John Bellamy Foster al libro di Ian Angus, Facing the Anthropocene. Nel commentare l’articolo di Foster, il giornalista ed attivista Saral Sarkar, il quale definisce il proprio punto di vista come eco-socialista, solleva alcuni interrogativi che sfidano l’utilità dell’analisi marxista ai fini della comprensione della crisi ecologica globale. La replica di Foster è stata pubblicata da Ecologize il 26 marzo.
Lo scambio, qui riproposto, affronta importanti questioni circa le prospettive marxiste sulla crisi ecologica globale.
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ALCUNE DOMANDE PER JOHN BELLAMY FOSTER
di Saral Sarkar
Il professor Bellamy Foster è un rinomato studioso.
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Neo-operaismo e decrescita. Aprire un percorso di riflessione
di Emanuele Leonardi
In un articolo di qualche tempo fa Bifo sosteneva che la sinistra avrebbe fatto bene a liberarsi di due feticci divenuti negli anni piuttosto ingombranti: il lavoro salariato e la crescita economica. Rispetto al primo, la comunità di Effimera – ma direi quella neo-operaista nel senso più ampio e inclusivo del termine – ha da tempo preso parola, con esiti molto significativi. Del secondo feticcio, invece, si è parlato poco. Certo, abbiamo preso di petto la questione ecologica, sottolineandone opportunamente la dimensione politica. Però il problema della crescita non è stato sollevato in quanto tale.
C’è chi ha percorso la strada opposta: critica approfondita della crescita economica e scarso interesse per il lavoro. Mi riferisco alla decrescita, etichetta che richiama un arcipelago di associazioni, movimenti e programmi di ricerca (accademici e non) che negli ultimi anni ha visto aumentare considerevolmente la propria sfera d’influenza, sia in termini numerici sia di riconoscimento. Per non fare che un esempio, la quarta Conferenza Internazionale della decrescita, tenutasi a Lipsia nel settembre 2014, ha visto la partecipazione di quasi quattromila persone (tra cui una fetta davvero rilevante dei movimenti “autonomi” tedeschi).
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Antropocene, capitalismo fossile, capitalismo verde, eco-socialismo. Dov’è l’uscita?
di Michael Löwy
Recensione di Ian Angus, Facing the Anthropocene. Fossil Capitalism and the Crisis of the Earth System, New York, Monthly Review Press, 2016 e Richard Smith, Green Capitalism. The God that Failed, World Economics Association Book Series, vol. 5, 2016.
Negli Stati Uniti, le pubblicazioni di ecologia critica si rivolgono a un pubblico in crescita, come testimonia il successo dell’ultimo libro di Naomi Klein (This Changes Everything). All’interno di questo campo si sviluppa anche, e sempre di più, una riflessione ecosocialista di ispirazione marxista alla quale si iscrivono i due autori qui recensiti.
Uno dei promotori attivi di questa corrente di pensiero è la Monthly Review, insieme alla sua casa editrice. È quest’ultima a pubblicare il libro importante, e assai attuale, sull’Antropocene di Ian Angus, ecosocialista canadese e editore della rivista on line Climate and Capitalism. Si tratta di un libro salutato con entusiasmo tanto da scienziati come Jan Zalasiewicz o Will Steffen – tra i principali promotori dei lavori sull’Antropocene – quanto da ricercatori marxisti come Mike Davis e Bellamy Foster (1), o da ecologisti di sinistra come Derek Wall dei Verdi inglesi.
A partire dai lavori del chimico Paul Crutzen – premio Nobel per le scoperte sul buco dell’ozono -, del geofisico Will Steffen ed altri, la conclusione che siamo entrati in una nuova era geologica distinta dall’Olocene comincia a essere largamente ammessa. Il termine “Antropocene” è il più utilizzato per designare questa nuova epoca, che si caratterizza per i profondi cambiamenti nel sistema-terra risultanti dall’attività umana.
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