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Clima, Storia e capitale, alcune riflessioni a partire dal libro di Dipesh Chakrabarty

di Militant

come pensano le foreste eduardo kohnCrediamo che “Clima, Storia e Capitale”, il libro di Dipesh Chakrabarty recentemente pubblicato dai tipi di Edizioni Nottetempo, anche se alcune delle tesi che vi sono sostenute ci risultano tutt’altro che condivisibili, rappresenti comunque un ottimo spunto per tornare a ragionare intorno a un tema che, se per un lato non può più essere rimosso (almeno a parole) dalle agende della politica mainstream, dall’altro non può nemmeno essere ignorato da chi quotidianamente lotta per un’alternativa di società. La lettura dei due saggi in esso contenuti ci ha permesso inoltre di approfondire e chiarire alcune delle perplessità generate dall’uso sempre più in voga di un termine come Antropocene che, come avevamo provato ad argomentare in un altro post, se pure scientificamente sempre più preciso, rischia paradossalmente di depoliticizzare la questione del cambiamento climatico. Infatti, se ormai è un dato di fatto incontrovertibile che l’Antropocene sia diventato “un” tema centrale, se non “il” tema centrale, della contemporaneità, meno netta è invece la consapevolezza su quali ne siano state le cause socio-economiche e, soprattutto, quale sia la soluzione praticabile e quali i soggetti sociali potenzialmente mobilitabili. E il fatto stesso che ci si attardi ancora a ragionare sulla possibilità di una transizione a un (im)possibile capitalismo green o a sperare in interventi significativi da parte di quegli stessi governi che sono tra le cause del problema ne è forse la dimostrazione più lampante.

Proviamo quindi a prendere in prestito le parole dei due prefatori come punto di partenza per descrivere ciò che ci sembra sia ormai sotto gli occhi di tutti:

gli spettri che fino a qualche anno fa sembravano solo una lugubre e vaga minaccia che pendeva sui futuri dei nostri pronipoti sono apparsi nel nostro quotidiano con una velocità che forse in pochi si aspettavano.

L’influenza antropogenica sul pianeta sta portando ad eventi climatici estremi sempre più frequenti che non possono essere negati nemmeno dai più scettici e che, come in parte dimostra il fallimento della Cop 26 di Glasgow, hanno ormai di fatto spostato la battaglia politica dal “se accadrà” al “quando e come” si raggiungeranno i cosiddetti “punti di non ritorno” e dal come riuscire ad organizzare la società per provare a rallentare ed attutire gli effetti. E tutto questo mentre l’ultimo documento dell’IPCC, il panel intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, pubblicato lo scorso agosto, ha ribadito ancora una volta come rispetto all’età pre-industriale sia stato registrato un aumento medio di 1,09°C della temperatura terrestre, e come, soprattutto, dal 1970 ad oggi questo aumento della temperatura sia stato “più rapido che in qualunque altro periodo di 50 anni degli ultimi 2000 anni”.

Insomma, che l’umanità sia diventata una forza geologica trasformatrice “cieca a se stessa” è ormai un fatto incontrovertibile. Il come, il perché e il quando questo sia accaduto è invece oggetto di un dibattito che, per le sue ricadute pratico-politiche, non può rimanere chiuso negli ambienti degli addetti ai lavori e non può nemmeno essere considerato una questione di lana caprina. Come ricorda Ian Angus in “Anthropocene”, un ottimo testo pubblicato in Italia nel 2020 per i tipi di Asterios, prima di riuscire affermarsi come termine di uso comune in realtà la parola Antropocene fu coniata ben due volte. La prima, nel 1922, dal geologo sovietico Aleksei Petrovich Pavlov per indicare l’arco di tempo a partire dalla comparsa dei primi uomini anatomicamente moderni, circa centosessantamila anni fa. Il termine venne utilizzato per alcuni anni dagli scienziati sovietici senza però mai essere accettato a livello internazionale. Successivamente, negli anni 80, fu invece il biologo marino Eugene Stoermer ad utilizzarlo in alcune sue pubblicazioni senza però riscuotere lo stesso successo che invece spettò pochi anni più tardi al chimico atmosferico Paul J. Crutzen che lo utilizzò nel 2000 in una sua relazione al meeting dell’International Geosphere-Biosphere Program (IGBP). In un articolo pubblicato nel 2007 insieme ad altri due Autori lo stesso Crutzen ipotizzò che l’Antropocene si fosse sviluppato in due fasi distinte. Una prima fase, quella dell’era industriale, dall’inizio del 1800 al 1945, dove la CO2 ha superato il limite superiore di variazione dell’Olocene; ed una seconda fase, quella della cosiddetta “Grande Accelerazione”, a partire dal 1945 e fino ai giorni nostri, in cui è iniziata la trasformazione più rapida e pervasiva nel rapporto tra uomo e ambiente. Questo modello “in due fasi” a cui si rifà anche Chakrabarty nel primo saggio, non è però sopravvissuto alla prova dei fatti. Il Gruppo di lavoro internazionale sull’Antropocene (AWG) istituito su richiesta dell’International Commision of Stratigraphy, il comitato dell’International Union of Geological Sciences (IUGS) responsabile della scala temporale geologica, ha avanzato negli anni più di una dozzina di proposte per poter datarne l’inizio. Sebbene differissero anche notevolmente l’una dall’altra esse possono essere distinte in due grandi gruppi identificabili come quelli di un primo e di un recente Antropocene. Le tesi di un primo Antropocene furono subito abbracciate dai conservatori proprio perché di fatto minimizzavano i recenti cambiamenti del sistema terreste. Come ha spiegato Clive Hamilton infatti la tesi del primo Antropocene “gradualizza” la nuova epoca in modo che non rappresenti tanto una rottura dovuta principalmente all’uso dei combustibili fossili, ma un fenomeno strisciante causato dal crescente impatto dell’uomo sull’ambiente. Cioè fraintende la rapidità, gravità, durata e irreversibilità dell’Antropocene, portando ad una grave sottovalutazione ed insufficiente caratterizzazione del tipo di risposta umana necessaria per rallentarne l’insorgenza ed attenuarne l’impatto. Un errore in cui, pur partendo da presupposti diversi, ci pare finisca per cadere lo stesso Chakrabarty.

Nel corso degli anni le varie proposte relative ad un primo Antropocene sono state analizzate e successivamente respinte dalla maggioranza dei membri dell’AWG tanto che nel gennaio del 2015 oltre i due terzi del gruppo di lavoro hanno firmato un articolo che collocava con estrema precisione e in funzione di alcune evidenze sperimentali l’inizio dell’Antropocene a meta del XX secolo, definendo lo stesso funzionalmente e stratigraficamente distinto dall’Olocene e frutto, stando alle parole del geologo Colin Waters, di “una transizione radicale da un mondo a un altro”, il che giustificherebbe il fatto di indicarlo come una vera e propria nuova epoca geologica.

Fatta questa precisazione torniamo dunque al libro di Chakrabarty, a quello che ci ha convinto e a quello che invece ci trova in completo disaccordo. Nel suo primo saggio l’Autore espone quattro tesi intorno alla crisi contemporanea cominciando col sottolineare come questa abbia comportato anche la crisi della secolare distinzione umanistica tra la storia naturale e la storia umana. Alla luce dell’ascesa dell’uomo ad agente geologico l’ambiente non appare più come lo sfondo inerte delle sue vicende storiche, ma come una matrice su cui esso agisce (e che a sua volta su di esso retroagisce) con effetti e su scale temporali fino ad ora inimmaginabili e con un umanità che passa dall’essere “prigioniera del clima” a creatrice dello stesso. Per dirlo con le parole dell’Autore

il riscaldamento globale antropogenico mette in evidenza la collisione – o lo scontro – di tre storie che di solito, dal punto di vista della storia umana, si presume operino con ritmi così distinti e diversi da essere considerate, a tutti gli effetti, processi indipendenti gli uni dagli altri: la storia del sistema terrestre, la storia della vita che include quella dell’evoluzione umana sul pianeta, e la più recente storia della civiltà industriale (che per molti è la storia del capitalismo). Senza volerlo, gli uomini si trovano ora a cavallo di tutte queste tre storie che operano su scale e velocità diverse.

Sulla scorta di queste considerazioni nella sua seconda tesi l’Autore avanza provocatoriamente l’ipotesi che esista un nesso inscindibile tra la lotta per la libertà in generale, e nello specifico per quella dai bisogni materiali che, pure se in forme contraddittorie, ha caratterizzato la modernità e il passaggio all’Antropocene. E lo fa fino a spingersi a chiedersi, retoricamente, se l’azione geologica umana non rappresenti, in fin dei conti, il prezzo che l’umanità deve pagare nel perseguire questa libertà. Quasi a suggerire, ma questa è una nostra interpretazione, che non ci sia alternativa alla catastrofe se non una qualche forma di neopauperismo, un tema su cui, in forme ancora più irricevibili, Chakrabarty torna nel secondo saggio quando scrive:

immaginate la realtà controfattuale di un mondo più equamente prospero e giusto formato dallo stesso numero di persone e fondato sullo sfruttamento di energia a basso costo derivata da combustibili fossili: un mondo di questo tipo sarebbe indubbiamente più egualitario e giusto – quantomeno in termini di distribuzione del reddito e della ricchezza – ma la crisi climatica sarebbe peggiore! (…) Ironicamente è grazie ai poveri – cioè al fatto che sviluppo è ineguale e ingiusto – che non immettiamo nella biosfera quantità di gas serra ancora maggiori di quelle odierne.

L’Autore sembra in questo modo rimuovere completamente la differenza (potenziale) tra una società fondata su un modo di produzione socialista, indirizzata alla produzione di valori d’uso per il soddisfacimento dei bisogni collettivi ed individuali e in cui è possibile determinare collettivamente cosa, quanto e come produrre e quella attualmente dominante fondata sulla produzione di valori di scambio e finalizzata all’accumulazione illimitata di capitale. Quasi che la differenza tra il socialismo e il capitalismo si sostanziasse solo ed esclusivamente in una differente distribuzione della ricchezza prodotta.

Ovviamente Chakrabarty non nega il legame tra la crisi climatica e il sistema economico dominante. Per usare ancora le sue parole:

è abbastanza evidente che la crisi del cambiamento climatico sia stata una necessaria conseguenza dei modelli di società da alto consumo energetico creati e promossi dall’industrializzazione capitalista, ma l’attuale crisi ha messo in evidenza anche ulteriori condizioni per l’esistenza della vita nella sua forma umana che non hanno una connessione intrinseca con la logica delle identità capitaliste, nazionaliste o socialiste.

Per l’Autore però la sola critica del capitale non sarebbe sufficiente ad affrontare questioni che sarebbero invece inerenti alla storia umana nel suo complesso, e a dimostrazione di questo ci sarebbe il fatto che contrariamente a quel che avviene nel capitalismo, in questo caso non ci sono scialuppe di salvataggio per i ricchi e i privilegiati. Ora, appare evidente anche all’osservatore più distratto che se quanto sostiene Chakrabarty potrebbe essere vero nel lunghissimo periodo e in un’ottica che potremmo definire catastrofica, diventa invece palesemente falso se si analizza la situazione nel breve e medio periodo o in un ottica di progressivo “adattamento” ai cambiamenti climatici. Uno scenario dove a pagare lo scotto delle diseguaglianze ambientali, intese qui sia come accesso alle risorse che come esposizione al rischio, sono e saranno classi sociali e popolazioni ben individuabili. Come ricorda Razmig Keucheyan probabilmente la “metafora” di cosa sia oggi l’ingiustizia ambientale, l’esempio a noi più vicino sia dal punto di vista culturale che da quello geo-economico, è ciò che avvenne nell’agosto del 2005 a New Orleans, quando l’80% della citta venne sommersa dall’uragano Katrina causando oltre un milione di sfollati e più di 2000 morti, in larga parte anziani e neri dei quartieri poveri, mentre i ricchi e i privilegiati non solo utilizzarono le loro “scialuppe di salvataggio” per allontanarsi incolumi, ma appena tornati alla normalità sfruttarono la crisi per gentrificare alcuni di quei quartieri poveri che erano stati svuotati dall’inondazione.

Il logico corollario di questa impostazione è dunque la proposta, da parte dell’Autore, di abbandonare ogni prospettiva “parziale” per iniziare invece a ragionare come “specie” in pericolo. Ci sembra di poter dire però che ancora una volta ciò che a prima vista sembrerebbe “ragionevole”, e che a dire il vero accomuna vaste aree del pensiero ecologista, rischia di condurre all’inazione politica, all’impossibilità di comprendere quali siano i “nemici” e quali i soggetti sociali realmente mobilitabili e organizzabili intorno alla questione della giustizia climatica e sociale, due aspetti impossibili da tenere separati. Per parafrasare il barbone di Treviri: i climatologi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo!

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