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Prefazione a "Raffaele Sciortino, Obama nella crisi globale, Abiblio Trieste"

di Augusto Illuminati

Alla vigilia delle elezioni di mid-term, per cui i sondaggi non si presentano troppo favorevoli, viene spontaneo rammemorare gli entusiasmi con cui due anni fa fu salutata l’elezione di Obama. Entusiasmo – americano ed europeo – in cui confluivano diversi orientamenti, valutazioni e illusioni. Innanzi tutto colpì il modo in cui un outsider riuscì a inserirsi nella crisi catastrofica del bushismo raddoppiata dalla crisi finanziaria. Intendiamoci, Obama (oltre ad essere un nero non tipico e non autoctono) era un outsider quando si oppose alla guerra irakena al suo inizio, non lo era più dopo il fallimento dell’avventura medio-orientale e la disfatta del governo federale sui diritti civili e la gestione di Katrina. Tuttavia non aveva in mano la macchina del partito democratico e forse la maggioranza dei quadri di quel partito riteneva troppo rischioso mettere in gara contro gli sfiatati repubblicani un candidato di colore, per di più considerato poco patriottico o addirittura “socialista”. L’ascesa contro la potenza del clan Clinton fu resa possibile dall’aver captato la spinta di base al cambiamento con un ricorso accorto alla mobilitazione capillare soprattutto delle nuove generazioni via Internet. Scontato fu chiamare a raccolta il voto nero, più lento e complicato conquistare il consenso della classe lavoratrice bianca flagellata dalla crisi.

Decisivo fu l’appoggio di una sezione decisiva del grande capitale, disperato per l’evidente impossibilità di salvare il sistema senza buttare a mare alcuni dei responsabili del disastro.

La campagna per le primarie e poi quella per l’elezione furono due capolavori di seduzione mediatica e di retorica democratica, sulla base oggettiva di una riconosciuta esigenza di cambiamento dopo lo sfacelo del bushismo e sotto i colpi della crisi. Ovvio che del programma obamiano facesse parte la restaurazione almeno parziale del compromesso ruolo strategico mondiale degli Usa e una ridefinizione del rapporto con la Cina e con l’Europa. Il riaggiustamento in termini valoriali era direttamente incarnato nel corpo (nella pelle, nella biografia familiare) del candidato. come sempre accade, l’investimento in aspettative e illusioni eccedeva la concreta possibilità di realizzazione nel breve termine, ma a questo si aggiunse (fuori degli Usa) una serie di speranze del tutto incongrue già in partenza, in cui si sovrapponevano la paccottiglia veltroniana sui Kennedy, gli equivoci prodiano-dalemiani su Clinton e l’Ulivo mondiale, gli entusiasmi net-libertari dell’ultima generazione. E il legittimo desiderio dei pacifisti di veder rinnegata la politica irakena e lo sconcio di Guantanamo. Qui il bilancio di delusioni fu più amaro perché, se molto faticosamente la partita irakena veniva avviata a chiusura riconoscendo la sconfitta, Guantanamo restò in piedi (fu solo congelato) e soprattutto l’Europa non guadagnò quanto altre aree del mondo (Asia, America centro-meridionale) dal nuovo multilateralismo obamiano. Anzi, ne risulta chiaramente ridimensionata.

Il vero punto dirimente (e qui Obama non aveva fatto promesse disattese) è stato l’Afghanistan, dove fu spostato tutto l’impegno militare statunitense, in sostanza rimproverando a Bush di aver sbagliato bersaglio e di essersi impantanato sul terreno sbagliato, finendo per favorire l’Iran e per trascurare il terreno principale di manovra di al-Qaeda e degli ambigui militari pakistani. giusta correzione tattica, peccato che la partita in Af-Pak, malgrado surge e droni, sia egualmente persa, con danni collaterali non meno mostruosi delle stragi dei due Bush. Qui, a differenza da Guantanamo, non c’è stato voltafaccia: l’investimento militare in quella direzione era stato preannunciato, solo che era una missione impossibile e Obama non aveva una strategia di disimpegno integrale, che anzi non sta nelle possibilità di un Paese che vuole mantenere un’egemonia ormai declinante. Per altre ragioni, di tradizione diplomatica, di elettorato interno americano e di degenerazione simmetrica del sistema israeliano e palestinese, è insolubile anche il puzzle Palestina e questo complica ogni manovra sullo scacchiere medio-orientale e iraniano.

Di come Obama abbia cercato di controllare la crisi finanziaria e produttiva, contenendo i danni e salvando il sistema, con interventi quantitativi e qualitativi ben inferiori a quelli del New Deal (e, aggiungerei, senza la brillante ricaduta ideologica e culturale dell’èra roosveltiana), di questo tratta a lungo ed egregiamente questo libro e non vado ad anticiparlo. Ne riprendo solo una rapida constatazione, che vale un po’ per tutta la politica interna di questa presidenza: Obama non è stato abbastanza energico da modificare i rapporti di forza fra le classi, neppure intendendo per tale l’eterogenea combinazione chiamata middle class, cioè l’insieme dei blue collars e degli strati bassi e intermedi dei white collars e dei produttori indipendenti, tuttavia ha fatto abbastanza per irritare gli avversari politici e buona parte della classe dirigente, così da scatenare una reazione populista di destra molto pericolosa. La sua scelta di operare prevalentemente sul piano simbolico e retorico ha scatenato violente avversioni (al cui cuore ci sono un sempre più esplicito razzismo e rigurgiti fondamentalisti), mentre la scarsa incisività delle misure economiche e sociali (nonché le impopolari concessioni alle banche e al big business) non gli hanno conciliato il favore dei settori più colpiti dalla crisi. L’infezione debitoria endogena e l’esposizione verso la Cina sono state corrette in ben magra misura.

Del resto, non solo Obama non ha avuto il coraggio di Roosevelt, ma proprio i dispositivi keynesiani (malgrado le nostalgie della sinistra italiana) non funzionano più. Il riformismo non trova le condizioni ottimali in una fase discendente del ciclo politico internazionale. Di qui la caduta verticale nei sondaggi presidenziali e il calo virtuale dei voti per il rinnovo parlamentare di mid-term, con l’effetto collaterale di spaventare i candidati democratici e di spingerli verso destra. Superfluo ricordare i salvataggi dei responsabili della crisi – già lo fa Sciortino – e la via crucis della riforma sanitaria e della regolazione della finanza. Le incertezze sulla politica ecologica, nonostante la grancassa sulla green economy, e la sfortunata concomitanza della riapertura delle trivellazioni petrolifere con il disastro Bp nel golfo del Messico hanno piazzato la ciliegina sulla torta.

Per paradosso, mentre la sinistra delusa scivolava nell’atonia, è stata la destra liberista ed evangelica a rialzare la testa, radicalizzando le proprie posizioni rispetto alla campagna elettorale, quando il candidato ufficiale repubblicano era il moderato e rispettabile Mccain e l’estremista e improbabile Sarah Palin era soltanto un’imbarazzata concessione. Ora la leadership repubblicana si è spostata sulle posizioni della Palin (tanto cara agli atei devoti del nostrano «Foglio»), o meglio è sparita lasciando il campo al movimento dal basso (ma finanziato dall’alto) del Tea Party, che sembra aver assorbito le tattiche organizzative e il ricorso all’immaginario (con valori invertiti) di cui si era fatto forte Obama nel 2008. Nel medio periodo (2012) il successo di tale movimentismo populista potrebbe perfino favorire una ricandidatura di Obama contro un esponente troppo sbilanciato a destra, ma nel breve certamente interrompe l’egemonia democratica nelle camere, rendendo molto più faticoso l’ottenimento di risultati concreti: l’attuale svolta fiscale a sinistra di Obama vale solo da programma elettorale, non ha e non avrà i numeri per tradursi in provvedimenti di legge, mentre la modestia degli investimenti in opere pubbliche non dovrebbe modificare sensibilmente la situazione occupazionale. gli eccessi dei vari pastori isterici aggravano inoltre l’ostilità antiamericana in aree strategiche quali il Pakistan e l’Indonesia – altrove non ce n’era bisogno.

In conclusione, il vero fallimento di Obama sta sul piano della restaurazione di un ruolo egemonico statunitense anche in un contesto bi- o tripolare. La moltiplicazione dei teatri regionali impone una ricontrattazione continua, con la rinuncia a ogni ridisegno complessivo degli assetti geopolitici e dei mercati finanziari. A maggior ragione si dimostrano vacue le illusioni della sinistra italiana ed europea di affidare prima ai Clinton poi a un nuovo messia la riscossa che sono incapaci di preparare a casa loro. Riscossa che (storia vecchia) dipende in primo luogo dall’uso delle proprie forze, dal costituirsi in elemento autonomo e conflittuale che parla con gli oppressi di là dell’Atlantico e forse soprattutto di là dal Pacifico. Abbiamo già sperimentato a Torino e Melfi quanto pesa Detroit. Sarebbe il caso ora di capire cosa significano gli scioperi di Shenzhen.

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