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eticaeconomia

L’imperialismo colpisce ancora

di Paolo Paesani

gillray plumpuddingHa ancora senso parlare di imperialismo? E se la risposta è sì, che forma assume l’imperialismo, inteso come forma organizzata di sfruttamento, nel mondo post-coloniale, post-moderno e globale di oggi? Queste domande hanno animato due incontri che hanno avuto luogo, pochi giorni fa, presso le Facoltà di Economia dell’Università Roma3 e di Scienze Politiche della Sapienza.

A fornire l’occasione per questi incontri è stata la recente pubblicazione, per i tipi della casa editrice Routledge, di un volume dal titolo “The changing face of Imperialism”. Il volume, curato da Sunanda Sen (Jawaharlal Nehru University) e Maria Cristina Marcuzzo (Sapienza Università di Roma), raccoglie quattordici saggi che analizzano la teoria e la prassi dell’imperialismo e i suoi legami con l’idea di potere, adottando una prospettiva multidisciplinare, indubbiamente “di sinistra”, ma fondata sull’analisi rigorosa dei fatti e sulla costruzione di modelli interpretativi , non su semplici slogan.

Dal confronto fra le curatrici del volume e alcuni colleghi, tra i quali chi scrive, è emerso tutto il disagio della teoria economica contemporanea nei confronti del tema del potere e la tendenza a relegarlo tra il fallimenti del mercato (potere di monopolio, Big business, potere dei manager nelle grandi tecnostrutture) o a nasconderlo dietro la cortina di fumo della teoria dei giochi.

Il libro, adotta un approccio diverso e tratta l’imperialismo, il potere e i conflitti che ne accompagnano l’esercizio come aspetti essenziali del capitalismo e dei rapporti economici fra le nazioni e al loro interno, partendo dalla premessa che il capitalismo industriale e post-industriale è ormai diffuso dovunque e che la globalizzazione lancia una sfida all’idea tradizionale di un mondo in cui i paesi sviluppati sfruttano sistematicamente quelli intrappolati nel sottosviluppo.

Questi due fatti rendono necessario rivedere concetti-chiave come Centro e Periferia, Nord e Sud, Primo, Secondo e Terzo mondo. Nella realtà delle catene di approvvigionamento globale (global supply chain) il Nord e il Sud sono ovunque e si riflettono nella disuguaglianza dei redditi e della ricchezza fra i paesi e al loro interno.

Alcuni saggi, fra quelli contenuti nel volume curato da Sen e Marcuzzo, identificano uno dei tratti essenziali dell’imperialismo contemporaneo nell’esistenza di una comunità finanziaria globale, priva di legami nazionali, autosufficiente e sempre meno legata all’industria.

Presentando nessi causali che meritano attenzione e approfondimento, il volume analizza le caratteristiche ideali che un paese deve avere per attrarre i membri di questa comunità con i vantaggi che ciò può comportare: piena libertà ai movimenti internazionale di capitale, tassazione e spesa pubblica contenute, bassa inflazione, tassi di cambio e d’interesse ragionevolmente stabili, adesione ai principi del libero scambio e una regolamentazione leggera.

In un ambiente del genere, i capitali esteri possono trovare un impiego profittevole senza perdere la possibilità di spostarsi rapidamente, qualora le circostanze o le politiche adottate dai singoli paesi lo rendano necessario. In questo modo, la comunità finanziaria globale esercita il suo potere “imperiale” sui singoli stati, condizionandone la struttura economica e le scelte di policy.

Dal dibattito sono emerse le contraddizioni di un simile modello, che raccomanda a tutti i paesi, indistintamente, di fondare la propria crescita sulle esportazioni, sull’austerità e sulla competitività di sistema, limitando la possibilità di adottare politiche di tipo keynesiano, mirate a combinare piena occupazione e stabilità dei prezzi con il pareggio (e non il surplus) nei conti con l’estero.

Nel contesto di questo modello, si delinea un ordine internazionale basato sull’esistenza di quattro livelli distinti. Il primo è occupato dal paese egemone, gli Stati Uniti, che fornisce liquidità e potere d’acquisto al resto del mondo, attraverso un ampio deficit commerciale, reso sostenibile dallo status del dollaro e dalla forza economica e militare.

Nel secondo livello troviamo i paesi sviluppati che si specializzano nella produzione e nell’esportazione di beni ad alto valore aggiunto, tecnologicamente avanzati. Questi paesi, di cui la Germania e il rappresentante per eccellenza, registrano surplus cospicui nei conti con l’estero, fonte di attività finanziarie da reinvestire nella costruzione di catene di approvvigionamento globali attraverso gli investimenti diretti all’estero.

Il terzo livello è quello dei paesi emergenti, specializzati nella produzione e nell’esportazione di beni industriali di contenuto tecnologico e valore aggiunto intermedio. Questi paesi, fra cui collochiamo la Cina, godono di un surplus nei conti con l’estero e di una certa solidità finanziaria e sono il terminale ricevente degli investimenti diretti dall’estero proveniente dalle economia più sviluppate.

Infine, l’ultimo livello è occupato dalle economie in via di sviluppo o sottosviluppate che si specializzano nella produzione e nell’esportazione di materie prime e beni industriali a basso valore aggiunto e a basso contenuto tecnologico. Questi paesi, situati soprattutto in America Latina e in Africa, pur esportando molto non riescono a realizzare un surplus nei conti con l’estero e sono dipendenti dal resto del mondo sia sul versante commerciale sia su quello finanziario.

In un mondo con queste caratteristiche, gli squilibri globali sono la norma come ricorda, fra l’altro, Marcello De Cecco in un saggio del 2012 citato nel volume. Questi squilibri sono l’esito di una concorrenza basata sulle esportazioni ad oltranza, un gioco concorrenziale con i suoi vincitori (i paesi in surplus strutturale) e i suoi vinti (costretti all’indebitamento e più o meno vulnerabili a seconda della posizione occupata nella gerarchia globale).

La partecipazione a questo gioco concorrenziale giustifica la liberalizzazione dei mercati, la compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori, lo sfruttamento dell’ambiente, il ricorso a oltranza all’outsourcing, al sub-appalto, alla delocalizzazione e, in parallelo, la specializzazione produttiva secondo il principio dei vantaggi comparati, che porta alcuni settori a crescere e altri a scomparire, impoverendo la matrice produttiva dei singoli stati.

L’India, alla quale sono dedicati i saggi raccolti nella terza e nella quarta parte del volume, costituisce un laboratorio perfetto per verificare la validità di questa interpretazione. Il saggio di Utsa Patnaik (Jawaharlal Nehru University) dedicato all’India durante il periodo coloniale, mette in luce il suo ruolo come fattore di equilibrio nei pagamenti internazionali della Gran Bretagna, impegnata a estrarre il surplus prodotto nell’economia indiana (sotto forma di materie prime, prodotti alimentari e proventi della tassazione) per finanziare il deficit commerciale britannico nei confronti degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa continentale (su questo Cfr. M. De Cecco, Moneta e Impero, Donzelli 2016 a cura di Alfredo Gigliobianco).

Sunanda Sen si concentra sull’impiego dei lavoratori indiani, assunti a contratto, per lavorare nelle piantagioni zuccheriere britanniche di Trinidad, delle Mauritius e della Guiana Britannica, a seguito dell’abolizione della schiavitù in Gran Bretagna fra il 1833 e il 1840. Sen descrive le durissime condizioni alle quali venivano sottoposti questi lavoratori ma anche i conflitti all’interno del capitalismo britannico fra i proprietari delle piantagioni e le banche che li finanziavano, interessati a tenere alto il prezzo dello zucchero grezzo e più basso possibile il costo del lavoro, e le industrie britanniche impegnate e raffinare lo zucchero e interessate alla riduzione del costo della materia prima.

Partendo da questa narrazione, che si arricchisce con il saggio di Sabyasachi Bhattacharya (Association of Indian Labour Historians) sull’introduzione di tutele formali a protezioni dei lavoratori indiani e dei loro salari, fra il 1919 e il 1947, l’ultima parte del volume di concentra sull’India di oggi, sugli aspetti positivi e su quelli negativi di un sviluppo basato sui servizi più che sull’industria, tanto da spingere alcuni a classificare l’India come un esempio di de-industrializzazione precoce.

In un contesto del genere, lo sviluppo del settore finanziario non appare in grado di innescare meccanismi moltiplicativi di rilievo, come osservano Sukanya Rose e Abhishek Kumar, partendo dall’analisi della matrice Input-Output per l’economia indiana e effettuando alcuni test di causalità. Rimane la fragilità di un modello di sviluppo sbilanciato, in cui una élite di super-ricchi, membri a tutti gli effetti della comunità finanziaria globale, coesiste affianco di una moltitudine di poveri e poverissimi che sembra difficile poter assorbire all’interno di un sistema produttivo, in cui la componente manifatturiera tende a indebolirsi, e in cui permane e si rafforza la dipendenza dai produttori cinesi e dai consumatori statunitensi.

La presenza della Cina aleggia in molti dei saggi che compongono il volume ma nessuno è dedicato direttamente a questo paese, candidato, secondo alcuni osservatori, a sostituire gli Usa nel ruolo di potenza egemone nello scacchiere dell’Asia e del Pacifico e secondo altri a rimanere intrappolato nella middle income trap.

Al termine della lettura del volume non si può non pensare ai molti limiti di un modello di sviluppo basato sulla conquista dei surplus commerciali e sulla ricerca della competitività a oltranza. Il protezionismo, e i conflitti che lo accompagnano, non sembra offrire una via di uscita rispetto ai problemi che questo modello presenta e che il volume pone in evidenza in maniera molto efficace. E’ innegabile che dal commercio internazionale e dalla globalizzazione degli ultimi decenni siano derivati vantaggi e non solo ma questo libro ci pone di fronte all’esigenza di immaginare un nuovo ordine economico globale. E per immaginarlo possono essere utili queste parole di Keynes, che risalgono al 1933:

Idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma cerchiamo di far sì che i beni vengano prodotti al proprio interno quanto più ragionevolmente e convenientemente possibile; e soprattutto che la finanza sia essenzialmente nazionale. Nello stesso tempo, però, chi cerca di liberare un paese dai suoi intrecci internazionali dovrebbe procedere adagio e con cautela. Non è questione di strappare le radici ma di abituare lentamente una pianta a crescere in una direzione differente.

Comments

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Francesco Cimino
Sunday, 10 June 2018 12:22
Gli autori sembrano respingere qualsiasi protezionismo come soluzione degli attuali mali, eppure la citazione di Keynes, da loro approvata, implica proprio il ricorso ad una dose di protezionismo: come si potrebbe altrimenti " far sì che i beni vengano prodotti al proprio interno quanto più ragionevolmente e convenientemente possibile; e soprattutto che la finanza sia essenzialmente nazionale" ?. La contraddizione, temo, è tipica dell'odierna sinistra: temendo di cadere nel nazionalismo, rinuncia di fatto a combattere la "globalizzazione liberista". Accordi internazionali diversi da quelli attuali servirebbero, certo. Ma dobbiamo accettare che il mondo è( ancora? )troppo diversificato per esser unito e che i diritti sono garantiti solo da una comunità politica, la quale a livello mondiale non esiste.
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