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effimera

Il mondo altro in movimento

di Marco Calabria

La prefazione di Marco Calabria all’edizione italiana dell’ultimo libro di Raúl Zibechi, giornalista e studioso uruguaiano: Il “mondo altro” in movimento. Movimenti sociali in America latina  (traduzione di Francesca Caprini ed Enzo Vitalesta, Nova Delphi Libri, Roma 2018)

UruguayA tener fermo lo sguardo sul mondo, si rischia di perdere la velocità dei sogni. Bisogna saperlo muovere, lo sguardo, per comprendere quel che esprime chi rifiuta l’ordine delle cose esistente e per coltivare la speranza di poter cambiare. La speranza, forse oggi più che mai, è la vita che si difende, ma deve potersi alimentare di una confidenziale relazione con la realtà. Solo così riesce ad accendere il motore molecolare dei movimenti nelle società, a far sì che l’energia chimica delle idee si converta in forza sociale meccanica. Dobbiamo muoverci di continuo anche noi, naturalmente, dobbiamo affermare la libertà del movimento, per noi e per tutti, imparare o re-imparare a spostarci liberamente dal luogo fisico e simbolico che c’è stato assegnato. Se c’è un tratto che forse spicca più d’ogni altro, nel tenace lavoro di scavo che Raúl Zibechi fa da decenni nei percorsi più profondi di emancipazione dei movimenti popolari, è proprio la capacità di guardare le prospettive dinamiche, di mettere in discussione, giorno dopo giorno, quel che sembrava accertato a una prima lettura dei fatti, la capacità di re-imparare dalla realtà. Ne abbiamo avuto una testimonianza diretta, quanto illuminante, in occasione del suo secondo viaggio alla Realidad, compiuto a vent’anni di distanza dal primo: «Pensavo d’aver capito abbastanza cose sullo zapatismo e invece non avevo capito la parte essenziale».

Qualcosa di non molto diverso accade nella sezione più rilevante di questo nuovo lavoro sui movimenti dell’América Latina. Vale a dire nella meticolosa rilettura critica di un saggio breve che lo stesso Zibechi aveva scritto quindici anni prima sul ciclo di lotte emerso negli anni a cavallo del cambio di secolo.

Si tratta di un testo denso e ancora di grande interesse, che oggi fornisce l’occasione per un rigoroso esame a posteriori, quello esposto nel capitolo 1, segnato dall’approfondimento e dall’ampliamento dello sguardo dell’autore. Il cambiamento di prospettiva messo in atto da Zibechi non lo produce solo il fluire del tempo, che ha comportato la scomparsa o il ripiegamento di movimenti importanti implosi a causa dei problemi interni, cooptati dai governi o involuti e riassorbiti dentro gli apparati istituzionali. È un cambiamento reso possibile da un rilevante numero di scarpinate in tutto il continente, fatte con l’intento di raccontare “da vicino”, di accompagnare l’azione dei soggetti collettivi che modificano la realtà con la passione e l’umiltà di una funzione di servizio.

Quei movimenti, scrive Raúl, una volta arrivati alla piena maturità, non rappresentavano più un rischio di de-stabilizzazione per sistemi politici che avevano imparato, grazie anche all’azione di governi in gran parte progressisti, a disinnescarne la creatività e la potenza. Le scale della complessità e la portata storica sono ben differenti, ma tutta l’esperienza del Novecento insegna che in fondo perfino ogni rivoluzione politica resta inevitabilmente minacciata dal ritorno dello stato delle cose che l’ha preceduta. In altri termini, per dirla con le parole di un timoniere cinese – il più inviso e il più lontano dall’egemonia culturale e dal pensiero coloniale dell’Occidente tra i rivoluzionari del secolo scorso – non appena si cessa di “remare controcorrente” il vecchio sistema riemerge. Una preoccupazione, questa, che oggi investe solo gli orizzonti e il pensiero critico dei movimenti anti-sistemici. Le forze politiche, al di là del segno di sinistra, di destra o “post-ideologico” che esibiscono, sembrano ovunque e da tempo assuefatte a un regime di alternanza dei governi che affronta le grandi questioni sociali con il medesimo approccio.

 

Nel sótano del mondo

L’approccio, del resto, segna sempre in modo indelebile quel che viene dopo, in modo particolare quando riesce a far tesoro della memoria. Uno degli approcci più rimossi dalle culture di quel che resta delle sinistre politiche mondiali contemporanee è quello che assume l’autocritica, un punto di vista che invece Zibechi continua a considerare per le sue analisi esercizio di straordinaria utilità: «Nel 2003, quando scrissi quel testo sulle tendenze e le sfide dei movimenti sociali latinoamericani, avevo una visione molto limitata dell’autonomia. La pensavo solo in relazione allo Stato, ai partiti, alla Chiesa. Oggi, con l’approfondimento del modello neoliberale, penso che l’autonomia si costruisca solo in tempi lunghi e che possa e debba investire ogni aspetto della vita, dalla produzione alla giustizia, dal potere all’immaginario». Un ampliamento dello sguardo di dimensioni analoghe, rispetto all’analisi del passato, investe il concetto di “territorio”. Un concetto aperto già in diversi libri scritti da Zibechi e, a suo avviso, giunto adesso in molte e diverse pratiche dell’América Latina a una maturità tale da diventare la chiave di volta della costruzione di “mondi nuovi” sottratti a quelli egemonici. Senza territori “propri”, ripete spesso Raúl, chi vive nel sótano (il sottoscala) del mondo, cioè nella zona del “non-essere” descritta da Frantz Fanon, dove il rispetto della vita umana da parte dei poteri dominanti è un valore risibile, non potrà costruire alcuna autonomia, né poteri non-statali né auto-governo.

Dopo l’autonomia e i territori, il terzo elemento sottostimato, nell’analisi fatta da Zibechi nei primi anni del Duemila, sarebbero i movimenti delle donne e femministi, i soggetti più dirompenti e plurali dell’attuale panorama planetario dei movimenti di massa. Ci prendiamo la libertà di usare il condizionale solo perché ci pare di poter affermare che nei suoi testi il rilievo contundente della specificità del ruolo giocato dalle donne come soggetto non sia mai mancato. Lo ricordiamo bene ancora prima: negli articoli sui movimenti dei disoccupati argentini del Que se vayan todos dell’insurrezione del 2001, così come in quelli sui blocchi stradali aymara sfociati nella guerra del gas in Bolivia (2003). D’altro canto, per un analista così attento al “come” lottare e all’espressione di potenza estranea agli apparati dello Stato, sarebbe stato curioso trascurare la critica più radicale delle gerarchie e del potere nelle società latinoamericane, fuori e dentro i movimenti sociali e indigeni. Certo, con più di qualche perplessità sull’etimologia dell’aggettivo “militante”, Zibechi resta soprattutto un giornalista, un giornalista poco incline al cielo delle teorie. Ne deriva una manifesta difficoltà “soggettiva” nel racconto dei movimenti femministi: “Se non possiamo sentire la sofferenza della violenza e del disprezzo sulla nostra pelle, di quale cambiamento possiamo parlare nell’oppressione maschile? La de-costruzione del ruolo oppressivo maschile non è un tema teorico: non basta dirsi contro il privilegio, né andare ai cortei dell’8 marzo. Non sappiamo dove collocarci, né come muoverci ma dobbiamo provare”.

L’ultimo tema che ci pare indispensabile evidenziare, nell’analisi retrospettiva di Zibechi, tocca un altro nodo essenziale, in modo particolare per la costruzione di mondi nuovi, quello della relazione tra i movimenti e l’educazione. Si tratta di qualcosa che va ben oltre la gestione, pur autonoma, dei percorsi scolastici e formativi, perché investe la funzione riproduttiva stessa del superamento della centralità dello Stato e di quella del logos, la forma di comunicazione privilegiata dalla cultura occidentale. Com’è noto, la questione educativa è stata alla base dell’elaborazione sulla conoscenza e sulla cosiddetta “trasmissione” dei saperi per molti dei movimenti più significativi dell’América Latina, dai Sem Terra brasiliani agli stessi zapatisti, per fare solo due esempi. Alla luce dei quindici anni presi in esame, Zibechi segnala la presenza di tre processi simultanei: la statalizzazione burocratica dell’educazione popolare, l’emersione di forme “organiche” alle culture dei popoli e l’auto-educazione di comunità finalizzata alla costruzione di soggetti collettivi e spesso rivoluzionari. È, ovviamente, il terzo processo quello che sta più a cuore a Raúl, laddove le comunità non sono viste come soggetti identitari senza tempo ma come forme dell’azione politica in divenire dei popoli che lottano e resistono al modello egemone creato in questi anni dall’estrattivismo. Se in Europa le esperienze educative più avanzate sono riuscite almeno a rompere con l’idea di una scuola dove l’insegnante dispensa dall’alto il sapere agli allievi, in molte regioni latinoamericane, in particolare in quelle con rilevante presenza di popolazioni indigene, educarsi non può che significare avvicinarsi e prepararsi alla condivisione e alla dimensione comunitaria della vita. Anzi, di quel complesso conoscitivo di usos y costumbres sostanzialmente intraducibile che è noto come buen vivir.

 

Una categoria obsoleta

Sarà bene precisare qui, tuttavia, che mentre con lo spettacolare e pretestuoso arresto di Lula in Brasile sembra potersi completare la parabola discendente dell’egemonia progressista su buona parte dei governi sudamericani, il panorama dei movimenti dell’América che non parla inglese non è affatto azzerato. Resta in piedi, però, davvero poco proprio dei grandi soggetti organizzati che erano stati determinanti perché il vento di “centro-sinistra” si alzasse sui palazzi del potere politico. Sono pochissimi quelli riusciti a mantenersi vivi, quelli in grado di re-inventare una propria presenza significativa autonoma dal quadro politico istituzionale. Vanno emergendo invece movimenti nuovi, talvolta poco visibili ma spesso di straordinario interesse, difficili da interpretare e (per fortuna) da classificare. È soprattutto grazie a Raúl Zibechi, accusato spesso dall’informazione più autorevole della sinistra continentale di non difendere a sufficienza le sinistre di governo dagli attacchi delle destre emergenti, che ne abbiamo conosciuto l’esistenza. Sono nati soprattutto per resistere all’estrattivismo e alla crescita esponenziale della violenza contro los e soprattutto las de abajo. Gli zapatisti chiamano questa nuova fase offensiva del capitalismo la tormenta, il tempo più devastante della Quarta guerra mondiale contro l’umanità, altri preferiscono diverse espressioni legate per lo più al concetto di estrazione del capitale per despojo, per espropriazione. Per quel che riguarda l’América Latina, Zibechi ne sottolinea da tempo il tratto neo-coloniale, orientato a ri-conquistare i territori e ad eliminare anche fisicamente la popolazione “di scarto”, i poveri, soprattutto quando la loro presenza ostacola gli insaziabili appetiti predatori sui beni comuni.

A chi, come l’autore di queste pagine, non ha perso la consuetudine e il gusto di chiedersi come sia possibile fare in modo che un pianeta che corre verso l’autodistruzione possa invertire la rotta, capita spesso di apprezzare un libro quando la sua lettura è capace di cambiare alcune delle domande di fondo che siamo soliti porci. La crisi planetaria e forse irreversibile della rappresentanza politica consegna ai movimenti responsabilità cruciali nell’inversione di quella rotta: dal ripensamento di un’idea non liberale né dispotica della democrazia alla necessità impellente di inventare forme del tutto inedite di collegamento e organizzazione delle lotte. La più rilevante domanda di fondo che ci pare pongano queste pagine è se sia ancora opportuno servirsi della categoria di “movimenti sociali”, una categoria nel corso degli anni sempre più utilizzata come campo di studio, spesso solo accademico o sociologico, un elemento tra gli altri per qualsiasi sistema politico moderno. Si tratta di un interrogativo che, ovviamente, non riguarda l’angusto spazio di definizione di un linguaggio politicamente adeguato ma rimanda alla sostanza del cambiare il mondo o, meglio, del costruire mondi nuovi. A maggior ragione per chi, come Raúl, rifiuta con nettezza di marcare una distanza “professionale” tra il soggetto e l’oggetto di uno studio sui movimenti nella società.

Zibechi, non da oggi, per l’América Latina preferisce parlare di “società in movimento”, segnalando la specificità “regionale” di una presenza di relazioni sociali molto eterogenee che rifiutano la collocazione assegnata dal sistema per poter sopravvivere e riprodurre la vita. Abbiamo avuto l’opportunità di discutere a fondo con lui la scelta di questa espressione già quindici anni fa, in occasione dell’uscita del suo secondo volume italiano, quello dedicato all’insurrezione argentina del 2001, intitolato proprio “Genealogia della rivolta. La società in movimento”. Era il 2003, l’inizio del percorso che il corpo centrale di questo libro prende in esame. Oggi, Zibechi riempie di nuovi contenuti quell’espressione annotando che non ha più senso considerare la segmentazione classica di movimenti dei lavoratori, dei disoccupati, dei contadini e poi delle donne, dei neri, degli indigeni, etc. Una segmentazione che nasce e continua ad assumere in modo sostanziale un contesto politico legato agli Stati, all’ambito nazionale. L’azione collettiva in América Latina, spiega – citando un suo riferimento culturale essenziale, il sociologo peruviano Anibal Quijano -, proprio in virtù della dominazione coloniale, risente del fatto che gli Stati-nazione furono costruiti senza una previa democratizzazione delle società, come invece avvenne in Europa, ma escludendo le maggioranze nere, indigene e meticce. Sarebbe questo rilievo storico saliente a rendere più sensato parlare di “società in movimento”, oppure di “popoli” o “nazioni” che lottano per la sovranità e l’auto-determinazione, la dizione utilizzata per lo più da quegli stessi soggetti.

 

L’importanza di raccontare

Lo ripetiamo: non si tratta di una scelta linguistica più o meno corretta, c’è ben altro. Per Zibechi, il movimento delle società latinoamericane non aspira solo a reclamare diritti negati dagli Stati ma costruisce realtà differenti da quelle dominanti in ogni aspetto della vita. “Diversamente da quel che accade in altre parti del mondo, e in particolare nel Nord”, scrive, “i popoli organizzati hanno recuperato terre e spazi, hanno creato “territori”, proprio perché los de abajo non hanno un luogo nelle società estrattive”. Per questo hanno bisogno, qui e ora, di creare spazi nei quali possano sentirsi sicuri, di territori auto-controllati e difesi da loro stessi. In quegli spazi avranno la possibilità di creare relazioni che non riproducano il mondo egemonico, gerarchico, patriarcale, coloniale e capitalista.

È un’opzione che riguarda solo i movimenti latinoamericani? Chi si appresta a leggere questo libro in Italia, un paese per molti versi allo sbando ma ancora immerso nei privilegi europei e del Nord del pianeta, potrà valutare se sia venuto anche qui il tempo di liberarsi di quell’idea segmentata e sociologica dei movimenti. Se, insomma, la Val di Susa, la lotta territoriale più significativa in questi decenni, le scuole che aprono i cortili ai quartieri, le esperienze antirazziste dei presìdi in difesa della libertà di migrare, le autogestioni di centinaia di spazi sociali in cui si pratica il “ribellarsi facendo” non segnino, anche qui, uno spartiacque nella storia dei movimenti. Certo, l’attenzione mediatica, quella che interpreta (e determina) a colpi di sondaggi elettorali l’opinione pubblica prevalente, resta concentrata sulle prorompenti evoluzioni dei “populismi” di governo. Eppure, non sembra probabile che quelle evoluzioni possano dar vita alla disciplina necessaria alla creazione di un nuovo ordine politico. Difficilmente, anche da questa parte dell’oceano, ci si potrà logorare ancora a lungo esigendo cambiamenti veri da chi non ha alcuna intenzione di produrli; non sarà facile continuare a sperare che la soluzione delle crisi possa arrivare sostituendo a un potere nefasto un altro potere che si presume meno criminale.

Per questo è così importante che i movimenti di resistenza e ribellione che nascono e rinascono nelle società – soprattutto quelli che vedono le persone comuni diventare soggetti collettivi – siano raccontati con la capacità di muovere lo sguardo e la passione che si mostra in questo libro. Poco più di cento anni fa, nel suo Los de Abajo, il romanzo più popolare sulla rivoluzione ai tempi di Villa e Zapata, Mariano Azuela raccontava una storia messicana di ciechi ubriachi, che sparano colpi senza sapere perché né contro chi, in un paese che puzza di polvere da sparo e di frittura di taverna. Oggi, los de abajo di Raúl Zibechi hanno un altro odore, un profumo di speranza per il mondo intero.

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Note dei traduttori

Abbiamo tradotto questo libro attraverso un lavoro collettivo per riportare adesso, in ogni possibile spazio di confronto, una visione “altra”. A partire dalle esperienze dei movimenti latinoamericani, e in particolare dalle analisi sviluppate nel passato, questo nuovo contributo di Raul Zibechi aiuta a comprendere la vita pulsante dei movimenti e quanto sia sfuggente la dinamica dei cambiamenti che ne scandisce tempi e direzioni.

Inevitabilmente i pensieri di Raul Zibechi ci spingono – prima come individui – a indagare dentro di noi: cosa siamo diventati? Successivamente, come attivisti e militanti, ci obbligano ad una semplice quanto profonda riflessione: cosa sono i movimenti oggi? E quali mondi nuovi lasciano intravvedere i loro molteplici percorsi? Raul Zibechi, attraverso un’analisi critica retrospettiva durata quindici anni del panorama latinoamericano, tenta di rispondere a queste domande.

Le risposte che Zibechi incontra sono applicabili, pur con le necessarie declinazioni, anche da noi in Italia ed in Europa: un fermento di pratiche ed azioni in difesa dei beni comuni, delle dimensioni collettive; le spinte propulsive dei nuovi femminismi, la difesa dei territori, le alternative solidali all’economia estrattivista e alla speculazione finanziaria: sono fenomeni che ritroviamo anche nel nostro Paese, perché sono reazioni di comunità che ricercano nuove coesioni e spazi di lotta.

La costruzione di forme di democrazia oltre le istituzioni statali, che possano travalicare i gioghi dell’economia neoliberista; la ricerca di nuovi spazi oltre la disgregazione dei tessuti sociali. La voglia di bellezza, di solidarietà, di speranza. Di un futuro più umano e in connessione con la Natura. Sono i passi che risuonano anche nel nostro immaginario militante e collettivo.

Mai come adesso appare utile quanto necessario confrontarsi sui nuovi scenari politici e sociali espressi dai movimenti del presente, senza dimenticare il passato, e la lettura che ne abbiamo dato. Dal disincanto si apre quindi una strada verso l’incanto di un “mondo altro”.

Associazione Yaku


 

Immagine in apertura: Encuentro de Arte Urbano en la ciudad de Mercedes, Uruguay 2015

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