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Siria, Iraq, Iran, Kurdistan, Libia

Il Mondo prigioniero della guerra imperialistica permanente

di Giorgio Paolucci

guerra na siria og«Il capitalismo è il racket legittimo, organizzato dalla classe dominante»

La definizione qui sopra non è, come si potrebbe pensare, di K. Marx, ma di uno che di racket se ne intendeva: Al Capone[1]. E l’imperialismo -aggiungiamo noi – è la sua espressione più compiuta. La prova più evidente che sia effettivamente così è data dall’infuriare della guerra ormai in ogni un angolo del pianeta, tanto più se ricco di qualche materia prima o perché situato in una posizione di importanza geostrategica come è il caso del Medioriente.

Esso ha la sfortuna di essere terra di mezzo fra Oriente e Occidente e di conservare nel suo sottosuolo grandi giacimenti di petrolio. Le due condizioni dovrebbero assicurare alle popolazioni che lo abitano un elevato grado di benessere socioeconomico come a poche altre al mondo; invece vi regna una barbarie che non conosce limiti. Fatta eccezione per le ristrette fasce delle borghesie locali e dei loro lacchè, a dare un senso alla vita della maggioranza dei suoi abitanti è solo qualche avanzo di speranza di poter assistere al sorgere e al tramonto del sole anche il giorno dopo. O di fuggire in un altrove, ovunque esso sia, purché lontano da quella quotidianità in cui a farla da padrona assoluta è la fame, la violenza più cinica e feroce e la morte sempre appostata dietro ogni angolo.

È che il petrolio non è solo una fonte energetica di primaria importanza, ma anche un efficace strumento di appropriazione parassitaria di plusvalore.[2]

Infatti, essendo il petrolio quotato in dollari, a ogni sua variazione corrisponde anche una variazione del valore del dollaro e dei suoi rapporti di cambio con tutte le altre valute. Muta quindi il prezzo del petrolio e di conseguenza una quota più o meno grande del plusvalore estorto al proletariato su scala mondiale, si sposta senza colpo ferire da una parte all’altra del pianeta a favore o a sfavore di questa o quella fazione della borghesia internazionale anche di una stessa nazionalità a seconda della fonte da cui derivano i loro profitti (industria, finanza commercio ecc.) Per la Federal Reserve - che stampa e vende dollari, cioè, pezzi di carta inconvertibili come se fossero concretissime merci prodotte negli Usa- è invece sempre prevalente l’interesse affinché si formi un prezzo del petrolio normalmente più alto di quello risultante dal solo rapporto fra domanda e offerta per avere un dollaro che valga mediamente di più del suo effettivo valore, realizzando così una rendita di dimensioni enormi e comunque tale da risultare indispensabile per la sostenibilità del gigantesco debito pubblico e della spesa militare statunitensi. Il controllo delle fonti e delle vie commerciali dell’oro nero è dunque un pilastro fondamentale su cui poggia il primato imperialistico americano. Di fatto si tratta di una vera e propria tangente imposta su tutte le transazioni internazionali regolate in dollari e di cui quelle petrolifere costituiscono la gran parte. Ne discende però che se la tangente è inferiore all’incremento del prezzo del petrolio, vi è piena convergenza fra gli interessi dei paesi esportatori e quelli della Federal Reserve ad avere un prezzo maggiorato; nel caso però la tangente sia maggiore dell’aumento del prezzo, gli interessi divergono. Ed è proprio l’ampliarsi di questa divergenza che, nel corso del tempo, ha spinto molti paesi sia importatori che esportatori ad impiegare per tutte le loro transazioni commerciali mezzi di pagamento meno onerosi del dollaro. Al mutare quindi del contesto e/o della politica monetaria della Federal Reserve, gli amici di ieri si ritrovano il giorno dopo l’un contro l’altro armati e i nemici stretti alleati.

L’euro, tanto inviso a Trump, nasce proprio con l’intento quanto meno di limitare l’entità di questa tangente.[3]

Per la medesima ragione è stato eliminato prima il regime di Saddam Hussein e successivamente quello di Gheddafi. Il primo voleva quotare il petrolio iracheno in euro e il secondo voleva addirittura impiegare le riserve auree libiche per creare una moneta pan-africana con cui sostituire, almeno negli scambi intercontinentali africani, sia il dollaro che il franco della comunità francese dell’Africa (Cfa)[4].

 

Il declino del dollaro

Nel corso del tempo e con l’acuirsi della crisi, il sistema dei pagamenti internazionali incentrato sul signoraggio del dollaro è risultato sempre più insostenibile, in primis, per i paesi dell’Unione europea, per alcuni produttori e infine per la Cina divenuta nel frattempo la fabbrica del mondo e il maggior sottoscrittore dei titoli del debito pubblico statunitense. E già da qualche tempo la Cina, forte della straordinaria potenza del suo apparato produttivo, ha stipulato accordi con diversi partner commerciali per regolare il proprio interscambio non più mediante il dollaro ma: o con apposite monete di conto (India e Giappone) o con l’euro (Ue) o con rubli e/o renminbi (Russia). La conseguenza è stata una forte riduzione degli acquisti di dollari e di titoli espressi in dollari, principalmente quelli del debito pubblico statunitense. La sola Cina, dal febbraio 2018 a al febbraio 2019, ha ridotto i suoi acquisti di buoni del tesoro americani di circa 46 miliardi di dollari e dal 2015 in poi la stessa cosa hanno fatto tutte le maggiori banche centrali sottoscrivendone mediamente il 19 per cento in meno per ogni asta e provocando così una significativa riduzione del flusso di cassa della Federal Reserve e del governo. Tutto ciò mentre, a causa dell’incremento della spesa militare e della riduzione delle imposte a favore dei più ricca voluta da Trump, il rapporto fra deficit e Pil ha raggiunto la cifra record del 4,5%[5] e il debito pubblico ha superato i 23 mila miliardi dollari, «la più gigantesca cifra mai registrata nella storia dell’umanità»[6].

 

Il primato energetico

Per farvi fronte, non potendo bombardare Pechino, Mosca, Tokio o Bruxelles, l’amministrazione Trump ha per prima cosa stracciato l’accordo antinucleare con l’Iran e inasprito ulteriormente le sanzioni contro di esso per rafforzare il blocco delle sue esportazioni petrolifere. La stessa cosa ha fatto con il Venezuela e Cuba in quanto sua protettrice. Nel contempo ha eliminato tutti i vincoli ambientali dando via libera alla cosiddetta shale revolution per produrre petrolio e gas con la tecnica del fracking fino al punto da poterli esportare e poter imporre così la supremazia americana oltre che in campo monetario anche in campo energetico. Principale destinatario del gas doveva essere – guarda caso – l’eurozona. Ufficialmente, non per meschini interessi di bottega, ma per liberarla dalla dominazione energetica russa non come 75 anni fa dal nazismo: «con i giovani militari ma con il gas della libertà ( freedom gas[7] Nel caso, però, che la nuova liberazione non fosse stata gradita -aveva precisato un anno prima Trump all’allora presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker e Bruxelles : «Non si fosse allineata alle sue richieste ne sarebbe scaturita una tempesta di guai: tasse sulle autovetture comunitarie, in particolare tedesche, e sanzioni mirate alle società partner di Gazprom nel consorzio Nord Stream 2». E intanto la Commissione europea avrebbe dovuto mettere «a disposizione delle esportazioni di gas naturale liquefatto (gnl) prodotto negli Usa almeno 11 terminali di ricezione nelle aree di interesse da lui indicate [8].

 

Shale: un mercato senza cervello

Ma, come recita il vecchio adagio: tra il dire e il fare c’è dimezzo il mare, in questo caso di mezzo ci sono state le precipue caratteristiche dello shale gas. Gli Usa, infatti, hanno sì raggiunto già lo scorso settembre la tanto agognata indipendenza energetica e potuto esportare nel 2019 circa 89 mila barili/giorno di petrolio, ma non un solo metro cubo di gas ha attraversato l’Oceano. Non solo perché delle 11 stazioni chieste da Trump non ne è stata allestita neppure una, ma soprattutto perché, come ha commentato lapidario l’amministratore delegato della BP Bob Duddley: «Shale is a market without brain (Lo shale è un mercato senza cervello»[9]. E ancor più lo è il mercato dello shale gas. Trattandosi, infatti, di uno scarto di risulta del processo di raffinazione del petrolio da scisto, viene comunque prodotto anche se non ha un sufficiente sbocco di mercato per la semplice ragione che per essere commercializzato deve essere opportunamente depurato e l’attuale rete delle raffinerie americane – quasi tutte di proprietà delle Big oil- non è minimamente attrezzata né per raffinarlo né per stoccarlo. Così viene o distrutto, con gravi danni ambientali, o ceduto a prezzi prossimi allo zero trascinando al ribasso anche il prezzo del gas naturale passato dai 4,40 dollari per btu (British Termal energy, l’unità di misura dell’energia in uso nel mondo anglosassone) del dicembre 2018 ai 2,24 dollari per btu del dicembre scorso per cui: «Attualmente…gran parte dei piccoli e medi perforatori sono sull’orlo o già in bancarotta, per la resistenza degli investitori a finanziarli senza profitti».[10] Insomma, come per una sorta di nemesi, quello che doveva essere il gas della libertà dell’Europa si è trasformato in un boomerang che si è ritorto contro i liberatori.

Nel frattempo, l’occupante, la Russia, non è stato a guardare e ha portato a termine la costruzione del Turkish Stream, il gasdotto che, bypassando l’Ucraina, fa giungere il gas russo direttamente in Turchia e fra non molto anche in Bulgaria che «…Inizierà a usufruire di Turskish Stream dalla stazione di compressione Stradnza-2 …ottenendo ogni anno 2,9 miliardi di metri cubi di gas. Grazie al fatto che il gas entrerà nel Paese dalla Turchia, Sofia sarà in grado di ridurre i costi di transito del 5%». Dopo la Bulgaria sarà il turno della Macedonia e della Serbia e «Risalendo l’Europa Turkish Stream potrebbe diventare interessante anche per l’Ungheria e l’Italia».[11] Inoltre, entro la primavera del 2021 - come lo scorso 12 gennaio nel corso di una conferenza stampa congiunta, hanno confermato Putin e la cancelliera Merkel, anche il gasdotto russo-tedesco North Stream 2 sarà completato nonostante le sanzioni varate lo scorso dicembre dall’amministrazione Trump contro le società europee che lavorano alla sua costruzione. Sibillino è stato al riguardo il commento della cancelliera: «Non dipendiamo dalla Russia per approvvigionamento di gas. Trump ci ripensi[12]

D’altra parte, perché pagare molto di più un qualcosa che si può acquistare per molto meno e per di più di migliore qualità?

Avrebbe avuto un senso qualora fosse stato ancora incombente – ammesso che lo sia mai stato - il pericolo costituito dall’Orso Sovietico, ma non certo dopo il suo disfacimento. Oggi, ha più bisogno la Russia di vendere il suo gas che l’Unione europea di acquistarlo. Di gas ce ne sarebbe in abbondanza se cessassero anche solo le guerre in Medioriente e rimosse le sanzioni contro Iran e Venezuela che impediscono lo sfruttamento di moltissimi giacimenti. Nondimeno, i paesi dell’Opec e la Russia, per limitare la tendenza al ribasso dei prezzi di gas e petrolio, anche a causa della crescente competitività dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, si sono recentemente accordati per contingentarne la produzione.

Insomma, la battaglia del gas scatenata da Trump per imporre la dominazione energetica a stelle e strisce è quasi persa. E così: «Dalla favola del freedom gas, l’amministrazione Trump è passata alle punizioni da infliggere ai bad actors (cattivi attori). Che questa volta sono europei…[e] il grande bad actor (Opec+ Russia - n.d.r.)».[13] Come si diceva più sopra, sono state punite con durissime sanzioni le società europee impegnate nella costruzione del North Stream 2; mentre contro l’accordo fra l’Opec e la Russia è stata rispolverata una vecchia legge antitrust che dovrebbe essere approvata dalla Camera dei rappresentanti già nei prossimi giorni. Nel caso di approvazione: «Hanno fatto sapere dall’Arabia Saudita e da molti paesi Opec, verrà adottata una politica per spingere i prezzi petroliferi sotto i 30 dollari/ barile “per distruggere l’industria dello shale degli Stati uniti”».[14]

Il controllo di ogni giacimento di gas o pozzo di petrolio ha quindi assunto una valenza tale da non potere essere delegato neppure al più fedele degli alleati.

 

L’invasione turca del Royava

Così è bastato che con la sconfitta dell’Isis, l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est (Rojava) - in cambio di un’ampia autonomia della regione - potesse concordare con Assad una qualche forma di pacifica convivenza perché la Casa Bianca concedesse alla Turchia il via libera per invaderne il territorio e porre sotto il diretto controllo dei marines i pozzi del Nord – Est siriano. E ciò mentre le Ypg, il braccio armato dell’amministrazione autonoma curda, stavano ancora combattendo contro Daesh sostanzialmente al posto dei marines.

 

L’Iran ossia la Cina

Come per Enrico IV di Borbone Parigi valeva bene una messa, così per l’America di Trump l’oro nero val bene non solo il Rojava ma anche il rischio (o la speranza?) di uno scontro aperto con l’Iran fino al punto di assassinare, in perfetto stile racket, il potente generale iraniano Soleimani. Ovviamente, non certo per essersi distinto per la feroce repressione di ogni movimento di protesta tanto in Iran quanto in Iraq ma, ufficialmente, perché sarebbe stato in procinto di ordinare e dirigere attentati contro basi militari e ambasciate statunitensi in Medioriente. In realtà l’obiettivo vero era colpire il più stretto partner economico e commerciale dell’Iran, la Cina: «L’Iran – sottolinea M. Dinucci su il Manifesto del 9 gennaio u.s. – ha un ruolo di primaria importanza nella Nuova via della Seta varata da Pechino nel 2013, in fase avanzata di realizzazione: essa consiste in una rete viaria e ferroviaria tra la Cina e l’Europa attraverso l’Asia centrale, il Medio Oriente e la Russia, abbinata a una via marittima attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Per le infrastrutture viarie, ferroviarie e portuali in oltre 60 paesi sono previsti investimenti per oltre mille miliardi di dollari. In tale quadro la Cina sta effettuando investimenti per circa 400 miliardi di dollari: 280 nell’industria petrolifera, gasiera e petrolchimica; 120 nelle infrastrutture compresi oleodotti e gasdotti. Si prevede che tali investimenti, effettuati in un periodo quinquennale, saranno successivamente rinnovati. Nel settore energetico la China National Petroleum, società di proprietà statale, ha ricevuto dal governo iraniano un contratto per lo sviluppo del giacimento off-shore di South Pars nel Golfo Persico, la maggiore riserva di gas naturale del mondo».[15]

Impedire che tutto ciò si realizzi è, dunque, davvero questione di vitale importanza perché non costituirebbe soltanto la definitiva sconfitta della sola guerra del gas, ma anche la perdita del controllo di una delle più importanti via del commercio mondiale che verrebbe deviato dalle attuali rotte marine, ora quasi tutte sotto la protezione della marina americana, sulla terraferma.

È in corso uno scontro davvero globale. É nello stesso tempo scontro monetario, economico, geopolitico e militare. Nessuno può perderlo ma, paradossalmente, rebus sic stantibus - neppure vincerlo senza rischiare, a propria volta, il tracollo quasi come in caso di sconfitta.

 

La guerra dei dazi

Al riguardo dice molto il sostanziale fallimento della politica dei dazi promossa dall’amministrazione Trump nei confronti della Cina e dell’Europa. Dovevano favorire il rientro in patria delle attività produttive che le grandi imprese transnazionali americane, allettate dal bassissimo costo del lavoro, hanno nel corso del tempo delocalizzato in varie parti del mondo e soprattutto in Cina, Messico e nel Sud-est asiatico. Con il loro rientro, oltre alla creazione di diversi milioni di nuovi posti di lavoro, sarebbe dovuta tornare in attivo anche la bilancia commerciale americana, da un’eternità in passivo cronico e gli Usa sarebbero tornati a essere, come nei primi decenni dopo la Seconda guerra mondiale, il primo esportatore del mondo, giusto lo slogan elettorale trumpiano: America great again! Dopo tre anni, di tutto ciò nulla si è avverato e il deficit commerciale anziché ridursi è passato: «Dai 735 miliardi di dollari del 2016 agli 874 miliardi del 2018. E a settembre del 2019 aveva già toccato il medesimo volume di tre anni prima».[16]

Poco importa se in buona fede o per mere ragioni elettorali, si è ignorato, o fatto finta di ignorare che la delocalizzazione delle imprese è stata necessaria per ricostituire i margini di profitto fortemente erosi dall’erompere, a partire dagli Usa nei primi anni ’70 del secolo scorso, della crisi del saggio medio del profitto. Infatti, grazie alla introduzione della microelettronica e dell’informatica nei processi produttivi, è stato possibile frammentare ogni singola fase del ciclo produttivo e localizzarla in posti anche molto distanti fra di loro ma dove esistevano condizioni di mercato più favorevoli, specie quelle del mercato del lavoro. Dei telefonini della Apple, per esempio, non un solo componente è prodotto negli Stati Uniti: sono prodotti in circa un centinaio di paesi diversi, dall’America latina all’Europa dell’Est, Giappone, Vietnam e così via per poi essere assemblati dalla famigerata Foxxcon[17] cinese. Il risultato è che del plusvalore complessivamente estorto ai proletari nelle diverse fasi produttive, il 50 per cento finisce alla Apple che ne possiede il brevetto e il marchio nonché per il fatto che tutte le transazioni sono regolate in dollari; in Cina ne resta circa il 2 per cento.

Ora, un eventuale dazio all’importazione di telefonini, poiché non potrebbe non scaricarsi sul prezzo di vendita, provocherebbe inevitabilmente anche una riduzione della loro domanda danneggiando innanzitutto l’Apple che dalla delocalizzazione della produzione trae il vantaggio maggiore. È quindi interesse comune a tutti gli attori coinvolti a che il dazio non oltrepassi la soglia oltre la quale il danno subito dall’esportatore non si riverberi anche sull’importatore. Nello stesso tempo, però, ognuno di essi, per l’accrescersi dei capitali da remunerare e il protrarsi della crisi mondiale, ha necessità inderogabile di accrescere la quota di plusvalore da trattenere per sé. E lo fa non solo incrementando lo sfruttamento della forza lavoro ma anche cercando di esercitare un maggior controllo sui diversi segmenti della filiera e nuovi mercati di sbocco per le proprie merci e capitali – vedasi la Nuova via della Seta) e/o utilizzando un mezzo di pagamento meno svantaggioso del dollaro. Permangono, quindi, contemporaneamente sia gli interessi che accomunano i vari attori sia quelli che confliggono. E così è anche per la guerra che poi altro non è che il prolungamento del conflitto economico sul terreno militare.

Non si può non combatterlo e non si può perderlo senza andare incontro alla totale rovina; ma dati i legami che intercorrono fra i contendenti, paradossalmente neppure vincerlo senza condurre alla rovina anche il vincitore. Nulla esclude che, anche solo per una sorta di eterogenesi dei fini, ciò possa accadere; quel che è certo, però, è che la guerra, con il suo macabro corteo di barbarie, è destinata a essere sempre più essa stessa la normalità e che le si potrà porre fine soltanto sradicando il modo di produzione capitalistico da cui trae origine. Fa, dunque, molta specie dover constatare che sono ancora tanti coloro che, pur dicendo di richiamarsi al marxismo e all’internazionalismo rivoluzionario, incapaci di coglierne il carattere prettamente imperialistico, e perciò facilmente ingannati dall’involucro ideologico con cui essa viene di volta in volta camuffata (di liberazione nazionale, di religione etniche, tribali ecc.), fanno a gara a chi si schiera per primo ora a favore dell’una ora dell’altra fazione della borghesia internazionale come se potesse essercene una meno sfruttatrice e schifosa dell’altra. Mai come oggi, invece, l’alternativa: rivoluzione comunista o barbarie è stata così netta.

* * * *

Di seguito pubblichiamo, in formato audio (mp3), un ulteriore approfondimento sull'uccisione del generale Qasem Soleimani:

2020 -1 13- Questione mediorientale 

di Giorgio Paolucci. [file MP3 di 60 MB]


Note
[1] Le Capitalisme, n. 65/ 2005 – pag. 5. Cit. da Hervé Kempf in Per salvare il pianeta dobbiamo farla finita con il capitalismo – Ed. Garzanti - 2010
[2] Sulle modalità mediante le quali tale appropriazione ha luogo cfr: G. Paolucci -http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/161-subprimemarx
[3] Cfr. G. Paolucci – L’euro della discordia - http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/187-eurodiscordia
[4] È la moneta imposta dalla Francia a 14 sue ex colonie di cui la Banca centrale francese garantisce la convertibilità in euro a un cambio prefissato ma a tutta una serie di condizioni fra le quali l’obbligo per le banche centrali di questi paesi di accantonare il 50 per cento delle loro riserve presso quella francese e il diritto del ministero del Tesoro di Parigi di partecipare alla definizione delle loro politiche monetarie.
[5] Fonte: A. Plateroti – Guerra dei dazi, l’arma di Xi è la fuga dai bond americani- Il sole 24 ore del 12.05.2019
[6] Dario Fabbri – L’America tra impero e libero arbitrio -Limes n. !2/2019
[7] È quanto ha dichiarato il 2 maggio scorso a Bruxelles il segretario statunitense all’Energia Rick Perry – Margherita Paolini – Il primato energetico Usa ha i piedi di argilla- Limes n. !2/2019 – pag. 101.
[8] ib. 101
[9] Ib. pag. 108
[10] Cfr. ib. pag.107
[11] Yurii Colombo – Al via il Turkish Stream. Putin incontra ErdoganIl Manifesto del 9 gennaio 2020
[12] Cit. tratta da: Yurii Colombo - Zelensky sotto tiro, le scuse degli ayatollah non bastanoil Manifesto del 12 gennaio 2020.
[13] Art cit. Limes n.!2/2019 – pag. 110.
[14] Ib.
[15] M. Dinucci – La Cina non solo gli ayatollah, sotto tiro Usa in Mediorienteil Manifesto del 9 gennaio u.s.
[16] Diego Fabbri – L’America tra impero e libero arbitrio – Limes cit.
[17] Cfr: Xu Lizhi – Mangime per le macchine - Ed. Istituto O. Damen - http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/libro-di-poesie-xu-lizhi/373-mangimemacchine
Letture consigliate
G.Paolucci -Tutti insieme appassionati contro l’Isis e tutti. E tutti l’un contro l’altro armati http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/internazionale/58-asia/382-isisappassionati
G. Greco – Guerra sempre più globale e nuovo ordine mondiale - http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/politicasocieta/406-guerra-sempre-piu-globale-e-nuovo-disordine-mondiale

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