Le ragioni del profitto sulla linea di sangue tra Israele e Gaza
di Andrea Pannone
In questo articolo Andrea Pannone ragiona sulle cause strutturali del conflitto palestinese, guardando alle logiche che muovono gli interessi materiali ed economici delle potenze occidentali, Stati Uniti in primis. L'autore ci spiega come la nuova natura degli Stati nazionali sia inseparabile dagli interessi dei maggiori gruppi economico-finanziari. In questo contesto sono proprio i settori della difesa e militare ad essere maggiormente integrati a questo sistema, che si avvia ad essere uno dei principali settori trainanti dell'economia.
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Leggendo in queste settimane commenti e articoli dei media mainstream sul nuovo drammatico conflitto tra Israele e palestinesi, è difficile non riconoscere un (più o meno) intenzionale processo di allontanamento dalla comprensione delle sue reali cause, peraltro non dissimili da altri conflitti bellici attualmente in corso su scala planetaria, pur nelle loro specifiche manifestazioni geografiche, storiche e culturali. Il punto è perfettamente sintetizzato da Emiliano Brancaccio in un post su Econopoly: «Più che occuparsi di comprensione dei fatti, i “geopolitici” di grido paiono affaccendati in una discutibile opera di persuasione, che consiste nel suscitare emozioni e riflessioni solo a partire da un punto del tempo scelto arbitrariamente. Essi ci esortano a inorridirci e a prender posizione, per esempio, solo a partire dalle violenze di Hamas del 7 ottobre 2023, mentre suggeriscono di spegnere sensi e cervelli sulla trasformazione israeliana di Gaza in un carcere a cielo aperto, o su altri crimini e misfatti compiuti dai vari attori in gioco e anteriori a quella data. Inoltre, come se non bastasse l’arbitrio del taglio temporale, ci propongono di esaminare i conflitti militari come fossero mera conseguenza di tensioni religiose, etniche, civili, ideali. Quasi mai come l’esito violento di dispute economiche».
Come appena accennato, oltre alla perenne guerra di Israele contro i palestinesi ci sono infatti almeno altre 22 le guerre «ad alta intensità» (cioè anche con armamenti pesanti) che sono attualmente in corso nel mondo: tra questi si possono ricordare i conflitti in Siria, Yemen, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, nord del Mozambico, Nord Kivu e Ituri della Repubblica democratica del Congo, Tigray in Etiopia nonché ancora in Iraq, Nigeria, oltre alla guerra russo-ucraina, quella turca contro i Kurdi, e altre ancora (si veda a questo link). Ovviamente non tutte queste guerre sono «l’esito violento» di dispute esclusivamente o prevalentemente economiche tra le parti in gioco come nel caso, ad esempio, della guerra tra Israelo-Palestinese; quantunque, come ancora evidenzia Brancaccio, in questa circostanza «non dovrebbe esser difficile individuare qualche elemento “economico” in uno scontro fra due popoli caratterizzati da elevati tassi di crescita demografica e destinati a contendersi un risibile fazzoletto di mondo». Ad ogni modo, «il principale fattore di innesco degli sciagurati comportamenti umani verso la guerra» è visto da Brancaccio ed altri come il risultato dell’attuale svolta degli Stati Uniti, tutt’ora potenza egemone del capitalismo mondiale, verso un «protezionismo unilaterale», sia di tipo commerciale che finanziario, finalizzato a scongiurare il rischio di una «centralizzazione dei capitali» in mani orientali – la Cina in primo luogo, ma anche vari altri detentori di debito statunitense situati a est, e in piccola parte persino la Russia – la cui espansione nella fase di globalizzazione ha reso il debito estero e la competitività statunitense sempre più difficili da gestire con vantaggio[1]. Questo cambio di strategia sarebbe secondo l’economista napoletano «la causa prima dei famigerati «accordi di Abramo» del 2020 e dei trattati ad essi correlati». Tali accordi, stipulati da Trump ma portati avanti anche da Biden, miravano a «normalizzare» le relazioni di Israele con i grandi produttori arabi di energia, e più in generale con i paesi a maggioranza musulmana ricchi di risorse naturali, riposizionando questi paesi nel blocco economico occidentale, ancora fortemente bisognoso di gas e petrolio. Il destino del popolo di Gaza e della Palestina, però, non trovava spazio dentro la suddetta soluzione negoziale, lasciando le complesse problematiche di quell’area fondamentalmente irrisolte e pronte ad incendiarsi. All’interno di questa cornice concettuale, ritiene Brancaccio, è possibile inquadrare il sanguinoso e indifendibile atto terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 e l’odioso assedio che il governo di Israele sta perpetrando ai danni della striscia di Gaza, provocando una vera ecatombe di civili e bambini[2]. Il risultato di ciò è quello di esasperare pericolosamente i contrasti e le tensioni tra gli attori coinvolti nella regione[3], facendo da potenziale anticamera per l’esplosione di un conflitto bellico su scala molto più estesa.
Sebbene l’approccio proposto da Brancaccio – ponendo al centro gli interessi materiali ed economici che alimentano i conflitti tra Stati e popoli – rappresenti un notevole passo avanti nella lettura di ciò che sta avvenendo in Medio Oriente, a nostro parere si rende necessario un ben più radicale cambio di prospettiva nella comprensione della logica dei conflitti contemporanei. Riteniamo infatti che solo ad uno sguardo «superficiale» gli Stati nazionali – in particolare alcuni tra essi – possano apparire oggi quali i soggetti principali dell’architettura geopolitica mondiale, ossia entità coese che cercano di perseguire i propri interessi attraverso strategie politiche, economiche e militari, tenendo conto della loro ubicazione territoriale e delle sfide e opportunità ad essa associate. Questo perché, se pure possiamo ancora identificare chiaramente le organizzazioni statali e la loro collocazione internazionale, è molto più difficile separare la loro logica di azione dagli obiettivi strategici dei principali gruppi economico-finanziari che dominano la scena mondiale a partire dalla grande crisi del 2007-2008. Tali gruppi, primariamente in virtù dell’accesso a un’ampia disponibilità di credito a buon mercato – resa possibile dalle politiche di «allentamento quantitativo» delle Banche Centrali per fare fronte alla crisi –, hanno accumulato un’enorme quantità di risorse pecuniarie non tanto dall’attività di produzione di beni e servizi, quanto piuttosto dall’impressionante crescita inflazionistica dei loro asset finanziari non riproducibili (come ad esempio titoli, azioni, beni immobili ecc.), verso il cui acquisto e ri-acquisto (buyback)[4] sono state dirottate molte risorse in precedenza destinate all’investimento produttivo. Alcuni di questi gruppi poi – quali ad esempio quelli legati all’industria farmaceutica, al comparto digitale e al settore della difesa – hanno poi potuto beneficiare di alcuni drammatici eventi della nostra storia recente, quali la fase pandemica da Covid-19 e lo scoppio del conflitto russo-ucraino, per realizzare un considerevole incremento di valore dei titoli azionari ad esse relativi[5]. Laddove poi, in precedenza, una considerevole parte di profitti sembrava scaturire dal progresso tecnologico, ora i guadagni dipendono sempre più dalla capacità di protezione legale della tecnologia da parte delle aziende e da altre forme di esclusione, che rendono i loro stessi asset sempre più appetibili, in quanto ci si aspetta che anche molti altri investitori scommettano sulla loro specificità e cerchino di acquistarli, contribuendo così a farli crescere di valore.
Proprio l’elevato grado di accumulazione pecuniaria conseguito da alcuni gruppi di interesse, che si è configurato come un vero e proprio «sabotaggio» del tradizionale meccanismo di formazione della ricchezza basato sullo sfruttamento del lavoro proprio delle economie capitalistiche[6], ha permesso loro di esercitare un considerevole potere di influenza e condizionamento delle politiche dei governi e delle istituzioni internazionali, inscindibilmente intrecciate con quegli stessi gruppi secondo il sistema delle «porte girevoli»[7]. In altri termini, la geopolitica non rappresenta tanto le relazioni tra gli Stati e le nazioni quanto le relazioni tra gruppi di interesse capitalistico che, attraverso un’area geografica e uno specifico contesto politico istituzionale, trovano espressione più o meno coesa e coerente. Questo è vero non solo per gli Stati Uniti e le altre economie capitalistiche, ma anche nelle potenze, come la Cina e la Russia, in cui lo Stato centralizza la maggior parte delle funzioni economiche e politiche[8].
È allora solo all’interno di questo quadro di riferimento che può essere correttamente interpretata e compresa la drammatica evoluzione del nuovo conflitto tra Israele e palestinesi, dove circa il 70% della popolazione civile viene spinta dalle azioni militari di Tel Aviv a fuggire a sud/sud-ovest della Striscia, al confine con l’Egitto, schiacciata su un varco (Rafah) tuttora invalicabile. Ma come si può credere che un simile esodo possa servire a liberare gli ostaggi catturati da Hamas nell’attacco del 7 ottobre, o addirittura ad estirpare definitivamente l’organizzazione, la cui testa è lontana da Gaza e il cui braccio armato si muove tra cunicoli e gallerie sofisticate con vie di fuga verso l’Egitto (https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-21/viaggio-tunnel-business-e-arma-strategica-hamas-164800_PRN.shtml)? Ha senso condurre un tipo di azione militare che, oltre a macchiare lo Stato di Israele e gli israeliani con l’accusa di genocidio, rischia di «impantanare» le sue truppe di assalto in una battaglia sfibrante «tra le macerie» di Gaza City, dove chi si difende ha più vantaggi di chi attacca e le perdite possono essere molte, più di quelle che l’opinione pubblica israeliana riesca ad accettare? Con quali prospettive, infine, si può sperare di stabilizzare una regione in cui la popolazione che la abita è stata così ferocemente dilaniata? È lecito pensare che una reazione di una simile portata mascheri in realtà bene altro che «il diritto di Israele a difendersi»?
Su 972Magazine, un webzine ebraico di notizie e opinioni di sinistra, si pubblica uno scoop su un documento del ministero dell'Intelligence israeliano nel quale si valuta l'idea di espellere la popolazione da Gaza e mandarla verso il Sinai per poi immaginare una loro permanenza sulla penisola egiziana. Non è la linea ufficialmente perseguita dal governo, è uno scenario tra gli altri, che è il lavoro dell'intelligence preparare, ma è un segnale di uno dei filoni di pensiero che guida le politiche del governo Netanyahu e dei suoi alleati nazionalisti di destra. Ma anche in questo caso quale sarebbe il vero vantaggio per Israele? Alcuni hanno sostenuto che la risposta risiede nella possibilità di mettere definitivamente le mani sulle riserve energetiche dei palestinesi, finora inutilizzate. Sappiamo infatti da alcuni anni che il territorio palestinese occupato si trova al di sopra di importanti riserve di petrolio e gas naturale, nell’area C della Cisgiordania (circa il 60% dell’area a cui è negato l’accesso ai palestinesi) e sulla costa mediterranea al largo della Striscia di Gaza. Questi ultimi giacimenti sono parte del più ampio giacimento del bacino del Levante (650 miliardi di metri cubi di gas e 1,7 miliardi di barili di petrolio)[9], che si estende dal Sinai egiziano fino alla Siria, scoperto nel 2010 e da allora sotto il pieno controllo di Israele attraverso una grande compagnia israeliana, la New Med Energy, attualmente consorziata con la multinazionale Chevron, una delle più importanti aziende petrolifere statunitensi, che ha il compito di gestire tutti i principali giacimenti di risorse energetiche di Tel Aviv[10]. Secondo una stima dell’UNCTAD del 2019 (vedi nota 7), queste «risorse comuni» avrebbero potuto permettere di distribuire e condividere circa 524 miliardi di dollari tra Israele e palestinesi e «promuovere la pace e la cooperazione tra i vecchi belligeranti», osserva lo studio. Ovviamente questo non è avvenuto e la mancata possibilità di utilizzare le risorse di propria pertinenza, che avrebbe richiesto la costruzione di impianti di estrazione dedicati in un’area resa inaccessibile ai palestinesi, è stata sempre (e giustamente) considerata come un sopruso perpetrato ai loro danni dal governo israeliano. È però poco credibile che il governo di Netanyahu stia spingendo i palestinesi a evacuare dalla striscia di Gaza per appropriarsi di quelle risorse energetiche, visto che quelle stesse risorse sono piuttosto limitate rispetto a quelle che Tel Aviv già controlla – a cui va aggiunto il nuovo giacimento offshore di Tamar scoperto nel 2009 – e che negli ultimi anni hanno trasformato Israele in un esportatore netto di gas. Il punto in realtà è che le tensioni e l’instabilità nella regione, acuite al massimo livello dopo l’attacco del 7 ottobre, hanno offerto al governo israeliano – oltre alla possibilità di prolungare la sua fragile esistenza – il pretesto per manipolare ad arte l’erogazione del flusso del gas, da cui la richiesta a Chevron di interrompere l’estrazione dallo stesso giacimento di Tamar e il flusso della risorsa esportata verso Egitto e Giordania. Questo «segnale» è stato sufficiente per la ripresa della tendenza alla speculazione rialzista sul mercato internazionale dei futures 2024 (https://www.lesechos.fr/finance-marches/marches-financiers/les-cours-du-petrole-senvolent-apres-loffensive-du-hamas-contre-israel-1985665), riproponendo il tema della volatilità dei prezzi che avevamo già vissuto, in forma esponenzialmente maggiore, nel 2022, con lo scoppio del conflitto russo-ucraino. Un eventuale prolungamento dell’interruzione dell’attività estrattiva e/o una sua estensione ai giacimenti del bacino di Levante, a causa del protrarsi dell’occupazione militare della Striscia di Gaza, finirebbe allora per comprimere un mercato globale del gas già molto rigido, aumentando la volatilità sul mercato dei futures, dove grandi speculatori possono lucrare sulle continue variazioni dei prezzi. In sintesi, imprese energetiche multinazionali (ovviamente non solo quelle statunitensi), società finanziarie e grandi fondi speculativi sono quelli che possono trarre il massimo vantaggio dall’estensione e dalla prosecuzione di un conflitto armato che, oltre all’inaccettabile tributo di sangue, non ha alcuna possibilità di stabilizzare l’area e portare benefici alle parti coinvolte nel conflitto. Ovviamente, non sono solo le imprese energetiche e le speculazioni sui titoli energetici a trarre enormi vantaggi della svolta militare del governo Netanyahu. Non a caso i titoli delle società che producono armi, a cominciare da Lockheed Martin per finire con Leonardo, hanno registrato in queste settimane sensibili aumenti nel prezzo dei loro titoli[11]. Gli speculatori scommettono infatti sull’aumento della domanda di missili, artiglieria e altre tecnologie militari che i venti di guerra dovrebbero alimentare, trasformando le aspettative del prossimo futuro in immediate plusvalenze finanziarie. È interessante a riguardo mettere in luce chi sono gli azionisti più rilevanti delle società che producono armi. In Lockheed Martin, quattro grandi fondi, Vanguard, Black Rock, State Street e Geode Capital Management possiedono circa il 35% del capitale, mentre arrivano quasi al 40 in Northrop Grumman Corporation e al 30% in Raytheon (ora RTX). In Boeing «si fermano» al 20% e in Halliburton superano il 32%. Nei giorni successivi agli attacchi di Hamas in Israele, Biden ha annunciato che gli Stati Uniti si stavano già muovendo per inviare ulteriori munizioni e missili intercettori Iron Dome prodotti da Raytheon e Rafael, un appaltatore militare israeliano. Sono state inviate a Israele anche nuove spedizioni di piccole bombe guidate da 250 libbre prodotte dalla Boeing, così come ulteriori attrezzature che convertono le vecchie bombe grezze in munizioni «intelligenti» a guida di precisione (https://www.startmag.it/economia/guerra-israele-hamas-industria-armi/). L’aumento della domanda che prima veniva (e continua a venire) dall’Ucraina, ora da Israele e domani da chissà quale tra gli altri conflitti «pesanti» ancora in atto nel mondo e pronti a infiammarsi, sta dando ai produttori di armi e ai fornitori di tecnologie di cybersecurity la certezza di poter contare su ordini sostenuti per aumentare la produzione. Non va poi trascurato il rischio concreto che la distribuzione dei sistemi d’arma occidentali alle milizie ucraine dopo lo scoppio della guerra con la Russia, in condizioni di difficile controllo del territorio e di un elevatissimo tasso di corruzione negli apparati pubblici di Kiev, possa essere parzialmente dirottata sul mercato clandestino e sul dark web, rafforzando organizzazioni criminali e gruppi terroristici, tra cui la stessa Hamas ed Hezbollah, e alimentando la prosecuzione dei conflitti locali. È bene ricordare, infatti, che la mafia ucraina è ramificata anche in Medio Oriente e Caucaso e che almeno due battaglioni di jihadisti ceceni combattono al fianco degli ucraini in contrapposizione alle truppe di Mosca e ai governativi ceceni filo-russi presenti anch’essi in questo conflitto (https://www.analisidifesa.it/2022/03/i-rischi-della-belligeranza/)[12].
L’industria militare e della difesa – che agisce da tempi in piena sinergia con i cosiddetti giganti digitali[13] – si avvia a diventare l’unico settore delle economie capitaliste che potrebbe generare nuovi posti di lavoro e non essere afflitto da eccessi di capacità produttiva, come avviene da anni per tutte le altre principali industrie (vedi Pannone 2023). Anzi, le necessità di ammodernamento degli arsenali potrebbero anche richiedere considerevoli investimenti per adeguare rapidamente la produzione potenziale dei sistemi d’arma, così da essere in grado di rispondere in tempi sufficientemente rapidi in un periodo in cui le tensioni tra le superpotenze si sono intensificate. Sotto questo profilo il complesso militare-industriale rappresenta un’area di convergenza sempre più importante per comporre interessi capitalistici diversi e spesso antagonisti – quali, ad esempio, quelli finanziari e quelli manifatturieri[14] – e per garantire che l’industria statunitense rimanga solida, in un momento in cui si profila un nuovo rallentamento globale delle economie. Testimonianza di questa consapevolezza è rappresentata dalla richiesta urgente di Biden al Congresso, nei giorni successivi all’attacco di Hamas, di una variazione di bilancio di 106 miliardi di dollari «per finanziare le esigenze di sicurezza nazionale dell’America, per sostenere i nostri partner cruciali, tra cui Israele e Ucraina». Biden ha ancora affermato: «Vorrei essere chiaro su una cosa… Inviamo attrezzature all’Ucraina che si trovano nelle nostre scorte. E quando usiamo i soldi stanziati dal Congresso, li usiamo per rifornire i nostri magazzini, le nostre scorte con nuove attrezzature. Attrezzature che difendono l’America e sono prodotte in America. Missili Patriot per batterie di difesa aerea, prodotti in Arizona. Proiettili di artiglieria fabbricati in 12 stati in tutto il paese, in Pennsylvania, Ohio, Texas. E molto altro ancora. Sapete, proprio come durante la seconda guerra mondiale, oggi i patrioti lavoratori americani stanno costruendo l’arsenale della democrazia e servendo la causa della libertà (vedi link https://www.politico.com/news/2023/10/21/bidens-ukraine-aid-buy-american-00122823#:~:text=%E2%80%9CLet%20me%20be%20clear%20about,and%20is%20made%20in%20America)».
In conclusione, quello che si racconta come l’ennesimo e più sanguinoso capitolo di un conflitto che dura da 75 anni, si rivela, con la complicità determinante del governo israeliano, una straordinaria opportunità di profitto per i grandi gruppi economico-finanziari che dominano un’economia mondiale in forte rallentamento e che plasmano in modo coerente le decisioni degli Stati. Sebbene questi ultimi possano apparire come i soggetti attivi nella composizione di equilibri geopolitici funzionali al benessere delle popolazioni di cui sono espressione apparentemente coesa, le loro strategie politiche, economiche e militari, in realtà, non sono mai indipendenti dalle finalità «profit-seeking» dei principali gruppi di potere che ne condizionano e orientano gli indirizzi, quasi sempre a scapito dei bisogni e delle aspirazioni di convivenza civile della maggioranza degli individui. Si pone pertanto, per quest’ultimo conflitto come per gli altri tutt’ora in corso (vedi sopra), un interrogativo drammaticamente forte: come si può delegare agli attuali governi degli Stati nazionali o, peggio ancora, a istituzioni sovranazionali imbevute della stessa logica, il compito e la speranza di avviare un realistico processo di pacificazione internazionale, quando chi tiene i fili delle loro azioni alimenta continuamente e con cospicuo vantaggio i conflitti tra le parti?
Comments
Parte integrante di un sistema economico politico sociale religioso che può reggersi solo con un'economia di guerra, politicamente fascista, religiosamente genocida, (non possiamo negare di essere giudaico cristiani, cioè istruiti dall'infanzia a credere nel genocida Yaweh) non possiamo stracciarci i capelli contro un genocidio che è l'esito scontato di un sistema che ci dà tutto ciò che abbiamo (anche un livello d'istruzione che permetta il lusso d'indignarsi).
Il senso di colpa degli israeliani che restano in Israele pretendendo il genocidio LI UNIFICA! Il senso di colpa che ci attanaglia e che ci spinge a non guardare, ci unifica a loro! Le stragi ed i genocidi servono ad unificare anche quelli più “umanitari” che resisterebbero al farlo.
Il genocidio è dentro di noi e il VALORE del ns conto in baca si regge sull'economia di guerra, l'unico investimento produttivo che rimane e non a caso si espande.