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Giù nel Calderone? La nuova Guerra Fredda

a cura di: Ezio Bonsignore

Le nazioni scivolarono oltre l’orlo, giù nel calderone bollente della guerra, senza la minima traccia di timore o di sgomento…”David Lloyd George, Primo Ministro del Regno Unito (1916-1922)

sfondo abbonamentiTra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, con l’approssimarsi del centesimo anniversario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, molti commentatori e analisti tracciavano dei paralleli tra l’intrico di rivalità imperialiste, opposti revanscismi e velenosi nazionalismi che portò l’ Europa al suicidio nel 1914, e il crescente rischio di conflitti tra i paesi rivieraschi del Mare della Cina Meridionale per il controllo delle preziose risorse naturali della regione. Questi paralleli partivano tutti dal presupposto che situazioni del genere riguardassero, appunto, soltanto dei paesi remoti ed “estranei”, mentre l’ Occidente poteva tranquillamente continuare a condurre il suo modello brevettato di imprese militari neo-colonialiste (vedasi “interventi umanitari”, “operazioni di appoggio alla pace”, “guerra al terrorismo”, “responsabilità di proteggere”), senza correre alcun rischio diretto.

Ma poi è venuta la crisi dell’Ucraina (più esattamente, “in” Ucraina) a ricordarci che pur se le cause profonde delle guerre “vere” risiedono sempre nelle rivalità strategiche, economiche e geopolitiche tra le Potenze, Lloyd George aveva ragione: la scintilla che dà fuoco alla polveri viene spesso fornita da gravi errori di calcolo, terribili passi falsi, totale incapacità di comprendere le motivazioni dell’avversario e di prevederne le reazioni e, soprattutto, arrogante convinzione della propria assoluta superiorità – hubris, per dirla con i Greci. Questo è ciò che avvenne ai paesi europei nel 1914, e questo è dove siamo oggi: sull’orlo del calderone bollente della guerra.

 

Con tutta evidenza, e al di là di una tambureggiante propaganda che per essere faziosa e volgare non è meno sciocca, gli eventi in Ucraina sono stati determinati da 3 fattori: una diffusa opposizione popolare alle politiche dell’allora Presidente Yanukovich, e più in generale alla sua gestione del potere; la presenza di forti organizzazioni di estrema destra e neo-naziste, che hanno fornito la “massa di manovra” per il “putsch” di febbraio, che cacciò Yanukovich; e l’appoggio fornito dall’Occidente (dapprima in modo nascosto, e poi apertamente dichiarato) ai disordini. Ed è altrettanto evidente che tra questi 3 fattori, quello di gran lunga più importante, e senza il quale la crisi non sarebbe mai scoppiata, è stato appunto l’appoggio occidentale.

La crisi in Ucraina è stata alimentata, e condotta al punto di deflagrazione, nel quadro di una deliberata manovra degli Stati Uniti, con l’appoggio dell’Unione Europea (anche se non necessariamente dell’Europa in quanto tale). Questa manovra aveva, e ha, 3 obiettivi principali:

 

- Effettuare un “cambio di regime” a Kiev per completare il processo di continua espansione a est della NATO che è in atto da 20 anni, portando l’ Ucraina nell’Alleanza e ampliando così la zona sotto controllo americano sino al cuore dell’Eurasia. Per ulteriori dettagli in merito al senso e alle implicazioni di questa espansione, posso risparmiarmi troppe parole invitando a leggere “La Grande Scacchiera” di Zbigniew Bzrezinski.

- Sfruttare, allo stesso tempo, l’inevitabile reazione russa per dare l’avvio ad una nuova Guerra Fredda, ricreando condizioni di tensione e ostilità permanente tra l’Occidente e la Russia. Questo per ridare un senso e uno scopo alla NATO, riportando così tutti i paesi europei sotto il fermo controllo militare e politico dell’Alleanza (cioè di Washington), e per porre fine al processo di rapida integrazione economica e dipendenza reciproca, soprattutto nel settore energetico, che è (era) in corso tra alcuni importanti paesi dell’Europa Occidentale e la Russia.

Questo vale soprattutto in relazione alla Germania, la cui politica di penetrazione commerciale a est, seguita sin dalla riunificazione con forti vantaggi, non era più tollerabile a Washington (e neppure, detto per inciso, in un paio di altre capitali europee). E’ curioso a questo proposito notare come molti, anche tra quanti comprendono con chiarezza le origini e gli scopi della crisi, attribuiscano alla Germania il ruolo di principale complice di Washington – mentre il realtà ne è la vittima.

- Riacquistare la propria completa libertà di manovra in Medio Oriente, superando e di fatto azzerando l’abile politica russa che l’anno scorso rappresentò il fattore decisivo nel far abortire all’ultimo momento il previsto attacco alla Siria.

Di fronte a questa manovra americana apertamente aggressiva (nel senso letterale del termine, in quanto indirizzata a provocare degli importanti cambiamenti strategici a favore degli interessi americani), la Russia di Putin ha degli obiettivi limitati e difensivi, che in pratica consistono nel tamponare i danni e preservare il più possibile lo status quo ante.

Il primissimo obiettivo russo, che doveva essere perseguito a tutti i costi, era quello di impedire che la base navale di Sebastopoli cadesse in mani NATO o comunque filo-americane, tagliando così fuori la Russia dal Mediterraneo. A questo proposito, Putin si è mosso con grande rapidità e decisione. Al di là di questo, il Cremlino non ha alcun reale interesse ad annettersi il Donbass, e men che meno a “invadere l’ Ucraina”. Mira, invece, ad impedire che l’Ucraina possa mai entrare nella NATO, e se possibile a tenerla fuori anche dalla EU, mantenendola invece nella posizione di “stato cuscinetto” sostanzialmente neutrale. Idealmente, questo dovrebbe avvenire in base ad un accordo o magari ad un contro-golpe filo-russo, ma si potrebbe anche provare a mantenere uno stato di guerra civile “dormiente”, ma semi-permanente – un po’ come a Cipro. Questo potrebbe essere l’obiettivo che il Cremlino sta perseguendo con l’armistizio attualmente in vigore.

Il comportamento suicida dell’Europa non è spiegabile in termini razionali - almeno, non sulla base dei fatti così come sono conosciuti. Pur con la plateale constatazione che Washington sta deliberatamente cercando di spingere i paesi europei in una rovinosa guerra economica con l’URSS, e pur con l’acuta consapevolezza che questa guerra economica potrebbe sfociare in qualcosa di molto più sinistro, le principali capitali europee si sono subito allineate con le tesi e i voleri americani, in modo quanto meno acritico. Si sono così messe in atto delle sanzioni, che stanno ulteriormente aggravando una crisi economica già pesante, e il cui unico obiettivo pratico consiste nell’impedire ai paesi europei qualsiasi possibilità di evasione sia pur parziale dall’area del dollaro, e in ultima analisi nel riportarli sotto controllo americano anche per quanto riguarda gli approvvigionamenti energetici. Si può capire Londra, si può capire Parigi, si può capire anche la UE in quanto tale - ma gli altri? Cosa li muove, quali obiettivi perseguono/credono di perseguire – o, forse più realisticamente, quali pressioni, ricatti, blandizie e corruzioni sono stati messi in atto nei confronti dei loro rappresentanti politici?

Si può forse ancora sperare che Merkel, l’unico capo di governo europeo degno di una qualche stima, finisca - pur nella sua costante linea politica di evitare a tutti i costi che la Germania resti isolata in Europa - per dare la preferenza alla tutela degli interessi nazionali (e di riflesso europei), e agisca di conseguenza. Ma questa è, appunto, solo una speranza.

Al momento attuale, Washington ha di fatto già largamente ottenuto 2 dei suoi 3 obiettivi: il cuneo che è stato artificialmente piantato tra l’Europa e la Russia continua ad allargarsi, e la “guerra al terrorismo” in Medio Oriente è ripresa ed è anzi stata estesa alla Siria. A quest’ultimo proposito, non so quanti si siano soffermati a riflettere sul fatto che gli Stati Uniti e i loro “volonterosi” alleati stanno agendo senza alcun mandato dell’ONU, scavalcando e anzi ignorando completamente il Consiglio di Sicurezza. Obama ha così perfezionato e codificato il precedente stabilito da Bush Jr. per l’attacco all’Iraq e, prima di lui, da Clinton in Kosovo nel 1999. Ma l’obiettivo principale, e cioè portare l’Ucraina sotto controllo NATO, continua a rimanere elusivo: i 5 miliardi di dollari che, come Nuland ha comunicato, sono stati investiti per il “cambio di regime” in Ucraina, non hanno ancora fornito tutti gli utili previsti.

La Russia, dal canto suo, è riuscita a mettere a segno un paio di buone parate, ma è costretta sulla difensiva e non sembra essere in grado di formulare – o comunque di svolgere – una strategia di ampio respiro per opporsi alle azioni americane. L’Europa ovviamente non conta, così come non contano gli Ucraini, dell’est come dell’ovest, nazionalisti o filo-russi, se non come pedine del “Grande Gioco”.

Su scala globale, giocando la carta ucraina mentre allo stesso tempo sta perseguendo energicamente il suo “Asia Pivot” per accerchiare e contenere la Cina, Washington ha però commesso un errore geopolitico gravissimo: allarmare e sfidare contemporaneamente i suoi 2 principali avversari (politici, strategici ed economici), spingendoli così ad uno storico riavvicinamento che, a tutti i fini pratici, corrisponde alla formazione di una alleanza anti-americana, e che quasi certamente non si sarebbe mai verificato in circostanze diverse. L’accordo da 400 miliardi di dollari per la fornitura di gas naturale russo alla Cina, firmato il 21 maggio scorso, ha delle implicazioni strategiche a medio/lungo termine ancora più pesanti dei suoi enormi aspetti economici, che meriterebbero un articolo a parte.

Con la crisi in una situazione di stallo, e con la ben concreta prospettiva che il prevedibile prossimo collasso economico e finanziario dell’Ucraina porti a nuove violenze di piazza, il rischio che il mondo sta correndo è duplice. Da un lato, è purtroppo ben concepibile che l’Amministrazione Obama faccia un qualche monumentale passo falso (accogliere l’Ucraina nella NATO, o magari alzare il tiro e puntare ad un “cambio di regime” in Russia), che costringerebbe Putin a reagire sul serio. Dall’altro, non è certo escluso che le pressioni interne, e/o un aggravamento della situazione militare nel Donbass, finiscano per spingere il Cremlino a mosse sconsiderate – diciamo, invadere davvero l’Ucraina e annetterne tutta la parte orientale. Come già nell’agosto 1914, esiste quindi il rischio che azioni avventate, reazioni e contro-reazioni portino a conseguenze imprevedibili ma molto, molto pesanti.

Il raggio di speranza, in fondo al Vaso di Pandora della crisi ucraina, è fornito dal fatto che un conflitto diretto tra la NATO e la Russia rimane completamente inconcepibile in termini razionali, così come lo è stato sin dalla metà degli anni ’50 – e non si sarà mai abbastanza grati per l’esistenza delle armi nucleari. E’ infatti sin troppo chiaro che un siffatto conflitto diretto finirebbe inevitabilmente per portare ad uno scambio nucleare totale, che non lascerebbe alcun vincitore. Gli Stati Uniti e la NATO non dispongono quindi di alcuna opzione militare davvero credibile contro la Russia, e naturalmente il contrario è ancora più vero.

In una crisi governata da attori razionali, questa dovrebbe essere la considerazione principale – come lo fu all’epoca della crisi dei missili cubani. C’è però da chiedersi se la situazione attuale corrisponda ancora a questi parametri. L’esperienza storica lo dimostra: le nazioni possono “scivolare oltre il bordo, giù nel calderone bollente della guerra” per tracotanza, per hubris o per pura e semplice stupidità.

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