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Honduras: colpo di stato. E Washington?

Fabrizio Casari

Sono le sei del mattino a Tegucigalpa, quando duecento soldati golpisti circondano la casa del Presidente della Repubblica in carica, Manuel Zelaya. I golpisti entrano sparando, afferrano il presidente, lo colpiscono ripetutamente e lo trascinano a bordo di un camion militare. Lo portano in una base dell’aereonautica militare alla periferia della città e quindi a bordo di un aereo di Stato che decolla; destinazione San José de Costa Rica. Chiusa con la forza anche l’emittente vicina al governo, Canale 8. Sequestrati gli ambasciatori di Cuba, Venezuela e Nicaragua e la Ministra degli esteri honduregna Patricia Rodas. Dal Costa Rica Zelaya ha rilasciato un’intervista a Tele Sur dove si é detto “vittima di un sequestro, un colpo di Stato, un complotto di un settore dell’esercito”. Ha poi chiesto a Obama “di chiarire se ci sono gli Usa dietro il golpe. Se gli Usa negano l’appoggio ai golpisti, questo insulto al nostro popolo e alla democrazia può essere evitato”. Concetti ripetuti poche ore dopo in una conferenza stampa da San Josè. Da parte sua, Obama si è detto “profondamente preoccupato per l’arresto del Presidente” ed ha chiesto “a tutte le parti di rispettare le norme democratiche”. Parole blande e rituali. Non certo una condanna, almeno nei termini che sarebbe stato lecito attendersi.

Parole semmai che chiariscono l’atteggiamento dell’ambasciatore statunitense, che con straordinario e certamente casuale tempismo, aveva lasciato l’Honduras poche ore prima del golpe per urgenti impegni a Washington. Evidentemente l’ambasciatore esegue ordini. Con questo nuovo “agire non agendo”, la nuova amministrazione Usa, che a Teheran sostiene di non interferire, a Tegucigalpa invece interferisce, dando il via libera ai golpisti. Da due giorni, infatti, le strade della capitale erano invase dai militari in assetto di guerra agli ordini dei vertici politici e militari golpisti. Se Obama si fosse “preoccupato” prima, visti anche i legami di totale dipendenza delle forze armate honduregne da quelle Usa, avrebbe potuto fare ben altro che ordinare al suo ambasciatore di lasciare il paese.

Durissima invece la presa di posizione dell’Organizzazione degli Stati Americani, che per bocca del suo Segretario Generale, Manuel Insulza, hanno condannato con parole di fuoco il golpe e intimato l’immediato rilascio del Presidente. Stessa posizione l’ha assunta l’Unione Europea, che in una dichiarazione emessa al margine del vertice di Corfù, afferma che “questa operazione costituisce una violazione inaccettabile dell’ordine costituzionale in Honduras e la Ue chiede l’immediata liberazione del Presidente ed il rapido ritorno alla normalità costituzionale”. Ma é Hugo Chavez a dire le parole più dure: "Se la nostra ambasciata viene occupata e il nostro ambasciatore viene aggredito, interverremo militarmente per diffendere la sovranità del venezuela. Non permetteremo che dei gorilla occupino la scena diplomatica. L'autoproclamato presidente Micheletti o finisce agli arresti o all'esilio. Non lo lasceremo nemmeno giurare da presidente".

Zelaya aveva indetto una consultazione popolare per verificare la possibilità di votare, insieme alle elezioni per la Presidenza e per il Parlamento, un’Assemblea Costituente che riformasse la Costituzione vigente, scritta su dettato dell’allora ambasciatore Usa John Negroponte, direttore delle operazioni terroristiche statunitensi in America centrale negli anni ’80. Zelaya aveva chiesto alle forze armate di sostenere logisticamente la consultazione, ma queste si erano rifiutate categoricamente. Il presidente decise quindi di rimuovere il Capo di Stato Maggiore della Difesa, ma la Corte Suprema ordinò il reintegro del militare.

Ma quella della consultazione popolare per riformare la Costituzione, per i poteri oligarchici e militari dell’Honduras è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ben altre le “colpe” di questo Presidente che a livello internazionale si era impegnato in una politica completamente opposta a quella fino ad oggi seguita da un paese considerato da sempre la portaerei statunitense in centroamerica: ingresso nell’ALBA, rapporti strettissimi con Ortega, Chavez e Morales.

Coerentemente con ciò, in politica interna aveva decisamente invertito la rotta storica del suo partito. Manuel Zelaya, infatti, sin dal suo insediamento, aveva preso le distanze dall’oligarchia nazionale e dai militari, chiudendo affari privati a spese dello Stato, perseguendo l’evasione fiscale delle grandi imprese, eliminando il monopolio dell’importazione dei combustibili che rendeva multimilionaria una sola impresa, combattendo l’importazione di armi e medicine che l’editore dei due principali giornali svolgeva in libertà da decenni e, insieme a questo, cancellando i contratti che vedevano assegnare decine di milioni di dollari annui dei fondi presidenziali ai suoi giornali. Ha invece aperto la casa presidenziale ai settori popolari, inaugurando un auditorio pubblico dove i funzionari e i ministri del suo governo dovevano rispondere alle domande che poneva la popolazione.

Nonostante non avesse una maggioranza parlamentare a suo sostegno - sostituita da un rapporto strettissimo con i settori popolari e i sindacati - Zelaya riuscì ad imporre per decreto un incremento sostanziale del salario minimo. Tutto questo, ovviamente, ha inasprito lo scontro con i poteri oligarchici e militari del paese e i media, in mano a poche famiglie, non hanno cessato un momento di attaccarlo e deprestigiarlo in ogni modo.

Persino la volontà d’indire la consultazione popolare per riformare la Costituzione è stata presentata solo come opportunità di cercare la rielezione alla presidenza, mentre si trattava di cancellare una Carta che consegna, né più né meno, il Paese ai suoi padroni, impedendo per legge qualunque pronunciamento popolare, qualunque referendum, sia per questioni di politica estera che interna. Che possano essere i settori popolari a parlare o a poter riscrivere la Costituzione, a costoro non passa nemmeno per la testa. I settori popolari devono stare zitti e a casa, il loro Presidente in esilio. Questo è l’Honduras, la Repubblica delle banane che volle farsi Paese. Vicino, forse troppo vicino, al muro del "giardino di casa".

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