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Sartre, Recalcati, la fine delle ideologie e l’autobus 37

di Maria Teresa Fenoglio

Beauvoir Sartre Che Guevara 1960 CubaPer celebrare gli 80 anni della uscita di una delle più note pubblicazioni di Sartre, il romanzo “La Nausea”, Recalcati si esprime, nelle pagine di Repubblica (2 agosto 2018) a favore dell’incontro con la specifica realtà dell’Altro, in tutta la sua concretezza esistenziale, polemizzando con le ideologie umanistiche che ci allontanerebbero da un incontro conturbante.

“Ci vuole un tremore, una vertigine, uno squarcio per riaprire i nostri occhi di fronte alla Cosa informe dell’esistenza”. Proseguendo afferma: “Sartre sferra dei colpi mortali ad ogni forma di retorica umanistica: l’umanitaresimo comunista, socialista, cattolico, insomma ogni filosofia dei valori si schianta contro la Cosa dell’esistenza che la nausea rivela bruscamente nella sua pura contingenza. Una marmellata di buoni sentimenti rischia di nutrire la cultura dei diritti e dei valori cosiddetti universali.” E poi continua dicendo che “l’infima particolarità dell’esistenza” viene sublimata in forme ideologiche (Recalcati sembra identificarle tout court con quelle di destra) che, negando l’alterità, portano alla xenofobia. La conclusione è la seguente: “Perseguendo il valore assoluto dell’Uomo, lo sguardo dell’umanesimo retorico perde di vista la singolarità degli uomini”. Rimango profondamente turbata dai salti concettuali di Recalcati, dalle citazioni di un libro così profondo e significativo per la sua epoca, “La Nausea” di Sartre, decontestualizzato e utilizzato in relazione a scenari del tutto mutati; sconcertata infine da conclusioni che sembrano condurre artatamente il lettore al rigetto di ciò che, in parole più plebee e sicuramente meno accattivanti e colte, viene chiamato “buonismo”.

Recalcati fa ancora peggio: riconduce il “buonismo” (marmellata di buoni sentimenti) addirittura alla xenofobia. Come dicesse: rendetevene conto, siete tutti di destra. Provo allora a riprendere la lezione di Sartre consegnandola al nostro presente, perchè, è vero, il suo pensiero può esserci ancora di guida. All’epoca in cui Sartre scriveva si era negli anni ‘30. “La Nausea” fu scritta nel ‘ 32 e pubblicata nel ‘38, in un periodo storico attraversato da costruzioni ideologiche che miravano ad assegnare un senso universale ed univoco all’esistenza. Erano tempi in cui si dispiegavano in tutto il loro clamore l’ideologia comunista e quella nazifascista. In contrasto a tutto onesto, Il protagonista del romanzo viene a trovarsi di fronte alla basilare insensatezza della vita e alla sua irriducibile e tragica concretezza, tanto da essere invaso dalla sensazione di una nausea pervasiva. Il protagonista de La Nausea si rende improvvisamente conto di vivere all’interno di un contesto sociale (quello della cittadina provinciale di Bouville) in cui gli abitanti ritengono di appartenere a un universo scontato e permanente, infarcito di buoni miti.

A distanza di anni, nel 1997, Philippe Roth farà nel romanzo “Pastorale americana” osservazioni analoghe a proposito del protagonista totalmente americanizzato Lebov, un ebreo immemore delle sue origini, e della moglie irlandese, l’ex Miss New Jersey Dawn, sfortunati genitori della giovane terrorista Merry. La quale, con l’azione terroristica omicida, li ha entrambi strappati a quel mondo pacificato a cui sentivano di appartenere di diritto, il mondo degli americani di successo. Entrambi i contesti, quello di Bouville e quello del New Jersey, vengono squassati da pulsioni collettive a lungo riposte e compensate: negli anni ‘30 dal delirio nazifascista e dallo stalinismo. In epoca più recente dal terrorismo. Forze non esogene, ma frutto di una germinazione interna.

In un contesto come quello odierno, attraversato dalla sofferenza di popoli interi che bussano alle nostre porte e dalla xenofobia figlia dell’egoismo e della paura, la lezione di Sartre, e quella di Roth, è che gli sviluppi involutivi di una società e l’emergere di pulsioni primitive (la paranoia, l’appropriazione, il rancore, il diritto ad esistere nel mondo a scapito degli altri) sono da addebitare a fattori interni. L’ideologia, dice il Sartre degli anni ‘30, non è che una copertura alla difesa radicale ad avvicinare l’umano in tutte le sue contraddizioni e specificità. Il terrorismo, cioè la distruttività ideologica insensata, rivela per Roth il lato fittizio di un mondo sociale che si crede eterno e nega ogni voce dissonante. Tuttavia non è l’ideologia, cioè lo sforzo di dare un senso al mondo schematizzandolo, la protagonista, oggi, della nostra involuzione. Di fronte a cambiamenti rapidissimi e profondi del nostro mondo (migrazioni, guerre furiose, rischi ambientali, crisi economica) i soggetti sociali sembrano nuotare in acque tempestose ricorrendo di volta in volta a sestanti e salvagenti diversi, spesso ripescati nei magazzini dei ricordi.

Questi vetusti strumenti possono essere rappresentati di volta in volta dalle vecchie definizioni di classe con tanto di richiamo a un fantomatico “Partito”, dal sacro e immutabile villaggio degli antenati, dallo sporco negro del Missouri (o di Macerata), da ciò che non tradisce mai, come la famiglia tradizionale e via dicendo, seguendo percorsi sempre più semplificati e regressivi. In mezzo a queste acque turbolente sono molti oggi a pensare che non esista una risposta univoca; che, è vero, forse non esiste un “senso” universale delle cose, o invece forse esiste, almeno per chi possiede una fede religiosa. Oggi piuttosto vediamo agire la polarizzazione di idee preconfezionate e la regressione agli schieramenti contrapposti, che producono un arresto del pensiero. Ma proprio a fronte di questo sgretolamento di appartenenze rassicuranti, che a ben guardare è probabilmente il lato generativo della crisi, sono in molti ad aver deciso di ristabilire linee di confine strutturanti, assai vecchie e assai nuove, in grado di ancorare le singole soggettività senza che siano travolte dall’assoluto estemporaneo. L’ancoraggio è costituito dall’albero della nave di Ulisse, che consente di affrontare il mare al sicuro dai richiami delle sirene, grazie-è bene dirlo- al vigoroso slancio sui remi di marinai cui importa prima di tutto la salvezza e l’approdo di un gruppo.

L’albero a cui è legato Ulisse è proprio il valore assoluto dell’essere umano, a partire dal quale ogni singolo può essere guardato, ascoltato, accolto sulla base della sua individualità irriducibile. Mi schiero decisamente a favore del fronte di quello che Recalcati chiama “umanesimo retorico”, non in nome di una concatenazione di colti concetti, ma perchè sostenuta dalle azioni quotidiane di innumerevoli rematori: i volontari delle navi che soccorrono i migranti; i marinai civili e militari del nostro paese che grazie a un loro ideologico credo ritengono di voler continuare a rispettare le regole del mare; i gruppi più o meno organizzati, sono centinaia, di giovani e meno giovani, che hanno portato e portano aiuto nella Giungla di Calais, a Idomeni in Grecia, a Lesbo, ultimamente in Bosnia, enclave dove la polizia croata respinge con le armi e con i cani richiedenti asilo vittime dell’ottuso egoismo europeo. Non è più il tempo di Sartre, quando l’ideologia massificante gettava le basi di ogni forma di disumanizzazione.

Oggi la nausea viene dalla visione di ferite concrete inflitte ai corpi, di fronte alle quali molti, in nome del valore assoluto dell’essere umano, non arretrano, mentre molti, per scelta o per omissione, non lo fanno. Non arretrano i medici che curano i segni delle torture, non arretrano i soccorritori nelle emergenze, e nemmeno gli psicologi, che curano i traumi degli abusi, della tortura, e dell’incuria ambientale. Nessuno può dire che cosa direbbe o scriverebbe Sartre se vivesse ai giorni nostri. Ma non credo che rimarrebbe insensibile alla violazione dei diritti umani di cui si stanno rendendo responsabili i perpetratori dichiarati e seriali ma anche i sepolcri imbiancati della vecchia “sinistra”. Questi tanti che non si piegano a un mondo così com’è, quasi fosse il migliore dei mondi possibili, e nemmeno accettano, neppure gli psicologi, un riflusso verso l’ ”ineffabile umano individuale”, nauseante o esaltante che sia, assegnano al proprio agire significati spesso articolati e diversi. Da uno studio di questi gruppi risulta che le ragioni sono quelle che stanno da sempre alla base del volontariato umanitario, un tempo anche volontariato politico: lottare per l’ingiustizia sociale, perchè nessuno ce la fa da solo; sperimentare un rito di passaggio verso l’età adulta, altrimenti negato; vivere il proprio credo religioso; essere protagonisti dei nostri tempi e non solo spettatori; fare una esperienza socializzante. In senso meno sociologico e più profondo, alcuni sono spinti dal desiderio di curare nell’altro le proprie stesse ferite, come il Centaruro Chirone.

Altri vorranno guardare in faccia l’orrore, le sofferenze estreme a cui il cuore si ribella, senza esserne per sempre travolti, e perciò cercheranno il gruppo, il sostegno dei pari, per affrontare quell’orrore e renderlo parte della comune umanità. Tutti in certo qual modo sono equipaggi di una Open Arms del presente. Oggi, estate 2108, mi sembra assuma particolare valore il messaggiodi Benasayag, che invita ad abbandonare le promesse di una età dell’oro, anzi, a rinunciare al sentimento della speranza. La cultura occidentale, egli dice, si è costituita a partire da un “non ancora”, denso di promesse messianiche e da un futuro che faceva rima con promessa; esso “era” la promessa. Quell’epoca non ha prodotto solo distorsioni e orrori. Chi vi si è identificato ha contribuito a determinare migliori condizioni di lavoro e di vita, rapporti tra pari all’insegna della solidarietà. Esperienze generose, che hanno lasciato traccia. Ma la speranza per il futuro radioso ha anche portato molti protagonisti fuori strada producendo nel peggiore dei casi distorsioni gravi e iniquità peggiori di quelle che si volevano combattere.

La perturbazione che ne è seguita, questo scompiglio delle carte ed apparentemente drammatica mancanza di strumenti codificati di azione e interpretazione, sta tuttavia consentendo lo sviluppo di “una molteplicità di forme non deterministiche di razionalità” (Benasayag) Viviamo una tristezza diffusa, un senso di orfanato da appartenenze un tempo consolidate e rassicuranti. L’ideologia che le nutriva nascondeva spesso, e lo vedremo in tempi più recenti, una dipendenza paralizzante e una acritica, mai risolta, delega a Partiti che avevano nel frattempo deviato clamorosamente dalle proprie finalità originarie. Una crisi di tale portata ha delegittimato a tal punto i depositari originari delle linee guida collettive, o quelle che si ritenevano tali, da aprire uno spazio inedito e temibile ai rancori, agli odi, ai capri espiatori e a tutte le risposte più primitive all’angoscia. In crisi è il legame sociale, fin dalla forma più semplice e immediata, che lo precede e determina, l’empatia umana. Sempre Benasayag: “una crisi di tale portata ci investe con la sua forza d’urto, manifestandosi in una miriade di violenze quotidiane.

Sono quelli che in gergo chiamiamo “attacchi contro i legami”. La prospettiva anti-ideologica che si apre dinnanzi a noi, sta prima di tutto nell’assunzione, non strumentale al futuro, di una prospettiva etica: proteggere e salvare gli umani e l’umano. E in seconda istanza procedere radicati al presente nella convinzione, inspiegabile, irrazionale, la sola ad essere davvero terapeutica, anzi, la posizione terapeutica per eccellenza, che “questa tristezza si può vivere e superare”. Ci auguriamo, mi auguro, che gli intellettuali, i pensatori, gli scienziati, i tecnici, “quei saperi che dovrebbero aiutarci ad affrontare questo oceano di sofferenza individuale e collettiva”, non si sottraggano. Tra loro, nemmeno Recalcati.

Concludo con la citazione di un testimone del nostro tempo, Agide Melloni, l’autista dell’autobus 37 che a Bologna, subito dopo l’attentato che ricorre oggi, il 2 agosto 1980, fece la spola tra la stazione e le camere mortuarie. “Fino alle 7 di sera ho trasportato i corpi nella camera mortuaria di via Irnerio e poi, quando quest’ultima non è più bastata, in quella dell’Ospedale Malpighi, fino a notte fonda”. Si può solo immaginare lo strazio di quei viaggi, l’effetto del contatto con i famigliari, commenta il giornalista. Agide Melloni evita l’argomento e pronuncia queste parole: “Se hai delle motivazioni e inquadri il problema, senti di doverlo fare, rispondi allla situazione che hai intorno e trovi la forza di farlo” (Franco Giubilei, La Stampa, 2 agosto 2018).

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