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il rasoio di occam

Le tre missioni di Nietzsche

di Sossio Giametta

È vero che Nietzsche non si può e non si deve capire? Chi era e che cosa ha fatto? A fronte delle tre crisi: della filosofia, della civiltà cristiano-europea e della religione, ha compiuto tre missioni: distruzione della filosofia concettuale a favore del moralismo; trasfigurazione del tramonto dell’Occidente in poesia e filosofia tragica e d’altra parte legittimazione e accelerazione della crisi; fondazione della religione laica, meta della modernità

“Ho letto come sempre con piacere il Suo saggio sul Crepuscolo degli idoli di Nietzsche, che non conosco o non ricordo. La Sua scrittura chiara ed efficace mi aiuta, come sempre, a capire. Ma, una volta che ho capito, il pensiero complessivo di Nietzsche mi sfugge. Mi appassiona, mi avvince, ma alla fine mi sfugge.” Così mi scrisse, il 30 aprile 1997, Norberto Bobbio, un faro della cultura italiana, che mi onorava della sua amicizia.

La difficoltà di comprendere Nietzsche è così diffusa, che in Italia è finita in una canzone di un noto cantante pop, “Zucchero” Fornaciari. La canzone si domanda e ripete: “Nietzsche, che dice? Boh, boh!”

Lo strano è che questa difficoltà c’è con Nietzsche, che scrive in modo chiaro, e non con pensatori che scrivono in modo oscuro, come Heidegger, Hegel, Schleiermacher ecc. Si può allora dire anche di lui ciò che egli ha detto dei filosofi tedeschi, che sarebbero tutti degli “Schleiermacher”, cioè facitori di veli? oscuratori?

Certo, questa non era la sua intenzione. Anzi, la sua intenzione era esattamente il contrario. Egli voleva essere un portatore di luce.

Ma allora, dove sta la difficoltà?

La difficoltà sta sia dalla parte degli interpreti, sia dalla parte delle molteplici e intricate missioni di Nietzsche.

Per quanto riguarda gli interpreti, io parlo di solito del “bue squartato”.

Cioè ogni interprete si ritaglia dalla carcassa del bue una bella bistecca e se la cucina a modo suo. Così offre sempre qualcosa di sostanzioso. Ma non si preoccupa di tutto quel che lascia. Ciò fa sì che le interpretazioni di Nietzsche siano state finora tutte parziali e tutte diverse tra loro. È mancato cioè uno studio di Nietzsche come problema globale, dentro e fuori della storia della filosofia. E però solo uno studio di tutto Nietzsche, di tutti i suoi aspetti essenziali tra loro collegati, può fornire il criterio per giudicare i suoi aspetti singoli. Solo il significato del tutto determina il significato delle parti. Ma il significato del tutto, appunto, è rimasto finora inesplorato, perché non si è trovato il filo che collega i diversi aspetti. Inoltre, negli interpreti prevale un interesse assimilante, attualizzante, strumentalizzante. Una ricerca puramente interpretativa, storico-critica, è finora mancata.

D’altro lato c’è il contenuto del pensiero di Nietzsche. Esso è così complesso, intricato e plurivalente che molti hanno rinunciato a capirlo nel suo insieme, come a sciogliere i nodi aggrovigliati dei suoi molteplici e contrastanti talenti. Altri predicano addirittura che non si deve neanche tentare di capirlo.

Dice per esempio Rüdiger Safranski: “Di Nietzsche non si può venire a capo. Neanche lui è venuto a capo di se stesso” (“Mit Nietzsche kann man nicht fertig werden. Er ist auch nicht mit sich fertig geworden”).

Per Jaspers “Nietzsche è inesauribile. Non rappresenta un problema che possa essere risolto nella sua interezza”. E per Gottfried Benn, che tale giudizio riporta nell’Introduzione ai Ditirambi di Dioniso,[1] questa è una “frase assai significativa! Con criteri europei moderni in realtà Nietzsche non può essere risolto, egli appartiene alle ‘Parole primordiali’” [Urworte].[2]

Si arrende perfino il grande biografo di Nietzsche, Curt Paul Janz. Egli spiega, più chiaramente, che Nietzsche ha

lasciato un’opera che ci starà sempre davanti come uno stimolo, che nella sua molteplicità offre bensì varie possibilità di accesso e di interpretazione, ma non potrà mai essere abbracciata nella sua totalità da un singolo osservatore, misurata da un singolo rielaboratore. Collocare Nietzsche nella sua epoca e nel fluire dei secoli, nel contesto del suo ambiente e in quello delle correnti spirituali che risalgono fino ai primordi dell’antichità classica, è impresa che fuoriesce dai canoni interpretativi normali.[3]

Insomma, secondo costoro, Nietzsche non si può capire. Ma può la critica dichiarare forfait solo perché un’interpretazione si presenta a prima vista, e magari anche a seconda vista, come “impossibile”, ossia come più difficile di altre? E si può, d’altra parte, sostenere di un qualsiasi autore ciò che Safranski, Jaspers, Benn, Janz e altri sostengono di Nietzsche: che sfugge all’analisi, “échappe à l’analyse”, come disse un critico francese di Beethoven dopo un concerto, quasi che Nietzsche o Beethoven fossero fuori o al di sopra del genere umano? Nel genere umano anche il genio più grande è inscritto con una sua chiara funzione. Il genio è infatti l’estrema risorsa dell’umanità nelle sue crisi più difficili.[4] Dunque la difficoltà di capirlo corrisponde in genere alla difficoltà di capire la crisi stessa a cui il genio è la risposta. Perciò non resta che affrontare questo problema e cercare di risolverlo con i mezzi a nostra disposizione.

Ma per capire l’albero cominciamo dal seme, per capire la quercia cominciamo dalla ghianda, per capire l’opera di Nietzsche, cominciamo dall’uomo. Non si dice, infatti, che lo stile è l’uomo?

Domandiamoci: chi era Nietzsche? Nietzsche era un uomo di animo nobile, un allievo dei classici, per sua natura mite e affettuoso, amante della virtù e della verità, ma che non sopportava, aveva orrore della falsità. La falsità, però, è talmente mescolata in tutte le cose umane, specie nelle grandi, che opporsi ad essa, se l’opposizione è audace, tenace ed efficace, significa scatenare un terremoto. È quello che fece Nietzsche. La sua opera non è, per così dire, un’azione ma una reazione, una reazione alla falsità. Egli diceva di sentire la falsità all’odore e proclamava: “Il mio genio è nelle mie narici”.[5]

Ma che cosa significa ciò? Significa, anzitutto, che l’opera di Nietzsche è una grande ricerca morale, come riconosce Benedetto Croce, che parla del “nobilissimo intento morale dell’opera sua” come “suo intimo impulso”. La lotta contro ogni forma di falsità – contro la menzogna, l’ipocrisia e l’illusione – nei sistemi filosofici e nei costumi, nelle religioni, nelle morali, nelle istituzioni e nelle tradizioni, contraddistingue tutte le manifestazioni di Nietzsche, al punto da costituire il criterio chiave per interpretarle.

Un criterio di interpretazione unitario dunque esiste, come esiste un’unità e una coerenza sotto la ricchezza e la varietà, contro tutto ciò che si dice in contrario.

Ma significa anche un’altra cosa. La medaglia ha il suo rovescio. Nietzsche non era, in senso stretto, un filosofo. Era un moralista applicato alla filosofia. Esistono due categorie di pensatori: i filosofi e i moralisti. In Francia, che è la nazione più ricca di moralisti, questi – Montaigne, Pascal, Diderot ecc. – fanno parte della letteratura e non della filosofia, come invece Descartes, Malebranche e Bergson. Nietzsche stesso fa valere questa fondamentale distinzione in più luoghi della sua opera, ma soprattutto nell’aforisma 5 di Opinioni e sentenze diverse:

In tutti i tempi i filosofi si sono appropriati i detti di coloro che scrutano gli uomini (i moralisti) e li hanno corrotti, – proprio quando credevano di elevarsi in tal modo al di sopra di essi, – col prenderli in senso assoluto e col voler dimostrare come necessario ciò che dai moralisti era inteso solo come indicazione approssimativa o addirittura come verità di un decennio, particolare a un paese o a una città.

Qual è la differenza tra moralismo e filosofia?

Il filosofo si basa sulla logica, sui concetti, sul principio di ragione nelle sue tre forme: principio di identità, principio di non contraddizione e principio del terzo escluso. Questo principio aristotelico serve a dimostrare le proposizioni filosofiche, ma non può dimostrare se stesso, perché ogni tentativo di farlo sfocia in un regresso all’infinito. Il moralista si basa invece sull’esperienza e sull’acutezza del suo senso morale. Nel saggio giovanile, secondo molti mai superato, Su verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche nega la conoscenza in base alla mancanza di ponte tra l’intelletto e la realtà. Per lui i concetti sono immagini, “rappresentazioni”, finzioni, accettate tradizionalmente come verità. La logica è una macchina autoaffermativa che rende pensabile quello che non lo è, cioè la realtà. Essa funziona in base a cose uguali, ma nel mondo non ci sono cose uguali. Ingabbia la realtà ma non la penetra, dunque è incapace di conoscerla.

Al posto della logica Nietzsche pone la psicologia, che, nell’aforisma 23 di Al di là del bene e del male, definisce signora delle scienze, per preparare la quale esistono le altre discipline.

Le verità di Nietzsche sono verità morali, non filosofiche. L’unica grande verità filosofica, il nichilismo, egli la raggiunge non con la logica, ma con la psicologia. Psicologizza prima l’individuo, poi i gruppi, quindi i popoli e infine quel grande individuo che è l’umanità stessa. Così scopre che sia la conoscenza sia la morale hanno un senso intraumano, antropomorfico, non sono valide in assoluto, perché sono al servizio di quello che per lui – come già per Spinoza, da lui eletto a suo “grande precursore” – era l’essenza fondamentale dell’uomo, il conatus suum esse servandi, lo sforzo di conservare il proprio essere.

Ma così facendo, Nietzsche, il filosofo Nietzsche, come anche noi senza difficoltà lo chiamiamo, distrugge la filosofia, non solo in quanto sistema, ma anche in quanto concatenazione concettuale in genere. E questa è appunto la prima delle sue tre missioni fondamentali, corrispondenti ai tre aspetti della crisi europea: 1) crisi della filosofia; 2) crisi della civiltà; 3) crisi della religione. La distruzione della filosofia a favore del moralismo, cioè la sostituzione dello studio della realtà di cui l’uomo è parte con lo studio dell’uomo sull’uomo immerso in ciò che è diverso dall’uomo, è una rivoluzione copernicana. Nietzsche la esprime appunto così: “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una x”.[6]

Così la realtà è diventata una “x”. Cioè è inafferrabile, impensabile. Anzi non esiste come una qualunque stabile costituzione delle cose. È semplicemente l’altro dall’uomo, che si può per comodità anche chiamare “accadimento”. Se però non esiste la realtà, “una realtà”, non esiste neanche la verità. Perché la verità è ciò che corrisponde alla realtà. Che cos’è allora quella che chiamiamo verità? “La verità è la specie di errore senza di cui una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere”.[7] Ecco, questa è la verità per Nietzsche. “Ciò che decide da ultimo – egli dice – è il valore per la vita”. La verità, cioè, è ciò che favorisce il nostro sforzo di conservare il nostro essere, dunque è qualcosa di strumentale, un’utilità. Inoltre, poiché nel conservare è incluso il potenziare, e anzi lo sforzo del potenziamento prevale, secondo Nietzsche, su quello della conservazione, egli teorizza la Volontà di potenza al di sopra della Volontà di vivere di Schopenhauer e della Volontà di conservarsi di Spinoza.

Ma se la verità non è più il criterio della filosofia, quale sarà allora il criterio della sua validità? Nietzsche non esita: è valida quella filosofia che aiuta i forti nella lotta contro i mediocri. In questa lotta i forti, secondo lui, sono destinati a soccombere, perché i mediocri hanno dalla loro la forza del numero.

In corrispondenza con la negazione della conoscenza e della morale, cioè della Verità e del Bene, Nietzsche afferma la visione dionisiaca.

Dioniso è il dio della pura esistenza, della pluralità contraddittoria senza aspirazioni di redenzione, senza giustificazioni fondate su valori originari; è il dio del libero gioco delle forze naturali, dei contrasti irriducibili, non componibili in un senso superiore, delle infinite metamorfosi, della creazione e della distruzione, senza origine, fine, identità, essenza, verità. Ogni presunta origine, fine, identità, essenza, verità, riconduce a forze che non hanno origine, fine, identità, essenza, verità; tutto ciò che è ritenuto stabile e provvisto di senso, si rivela fluido e insensato, ogni supporto viene meno.

Tutti i tentativi di redenzione della finitezza e limitatezza umana sfociano in altrettante negazioni della vita. Nel teatro della vita tutto è maschera. Tutte le verità affermate nella storia sono altrettante maschere che nessuna verità fondante può smascherare. Perché non c’è nessuna verità che porti a un fondamento primo, a una pienezza, che possa inibire il godimento temporaneo e occasionale del dominio delle forze primarie, attive, sulle forze secondarie, reattive. Le prime, nobili, affermano la vita aggredendo, assoggettando, dominando; le seconde, basse, si oppongono a tutto ciò che esse non sono, si adattano alle prime, congiurano contro di loro e, con la forza del numero, le separano da “ciò che può”, ossia le esautorano e le dominano; ma non come azione, bensì come reazione, come sottrazione del loro potere. Questo è ciò che accade nel cristianesimo, in cui la morale degli schiavi diventa creativa, mette in campo per risentimento i concetti di buoni e cattivi, di colpa e cattiva coscienza, e scalza la morale aristocratica dei forti.

Queste idee sono confermate negli aforismi 230, 257 e 259 di Al di là del bene e del male. In essi si afferma rispettivamente 1) la ri-naturalizzazione dell’uomo, cioè la liberazione o ripulitura del “terribile testo di base homo-natura” dalle “molte vanitose e fantasiose interpretazioni e significazioni aggiuntive che sono state finora scarabocchiate e spennellate” su di esso; 2) la necessità di una casta aristocratica, violenta e barbarica, per ogni elevazione del tipo “uomo”; la necessità della gerarchia e del pathos della distanza, ossia di un fossato tra la casta e il popolo, e la necessità della schiavitù. Ciò perché 3) “La vita stessa è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di ciò che è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, incorporazione e perlomeno, nel caso più moderato, sfruttamento”.

Se a tutto questo aggiungiamo la negazione della libertà del volere e quindi della responsabilità:

l’uomo non è da tenere responsabile per niente, né per il suo essere, né per i suoi motivi, né per le sue azioni, né per i suoi effetti;

Nessuno è responsabile per le sue azioni, nessuno per il suo essere; giudicare equivale a essere ingiusti.[8]

nonché la “trasvalutazione di tutti i valori”, che traduce e riduce tutti i valori spirituali a valori naturali, fisici, esaltando “le splendide creature sotto il sole cocente: tigri, palme e serpenti a sonagli”, vale a dire la belluinità, l’animalità selvaggia, bisogna dar ragione a Croce, che pure fa parte dei suoi ammiratori, quando dice che Nietzsche “depresse valori spirituali ed espresse ideali di rapacità e di ferocia”.

Fu questa la conseguenza di un indebito sviluppo sistematico di quella che era stata una grande intuizione demistificante (la trasvalutazione), da parte di un pensatore che non era un filosofo in senso stretto, capace di sviluppi sistematici, ma un moralista. Con ciò comunque egli contravveniva alle legge da lui stesso proclamata nel citato aforisma 5 di Opinioni e sentenze diverse, e dimenticava il patere legem quam ipse tulisti.

Fece come “fa il viandante che vuole sapere quanto sono alte le torri di una città: abbandona la città”.[9] Per soppesare, da moralista, il valore sostanziale della filosofia, che è la sua forza, Nietzsche abbandonò la città. Ma una volta uscito dalle mura, non poté più rientrarvi. E quando filosofò sistematicamente, tentazione alla quale non seppe resistere, perduto com’era nel sogno del capodopera, dell’ Hauptwerk, fece disastri.

Ora, è strano notare come i risultati di questo percorso strettamente filosofico, strettamente personale, avulso da ogni politica, di uno scrittore che non fu mai uno scrittore politico ed ebbe sempre in disdegno la politica, coincidano puntualmente con i disvalori innescati dalla crisi di civiltà (negazione della realtà, della verità, della moralità, della libertà del volere, della responsabilità ecc.), che maturò nella seconda metà dell’Ottocento. Questi disvalori sarebbero poi scesi nel popolo, si sarebbero coagulati in correnti politiche e sarebbero sfociati, una prima volta dopo trent’anni e una seconda dopo cinquanta anni, in due spaventose guerre mondiali, che avrebbero segnato la fine del primato europeo nel mondo.

Una così puntuale coincidenza di un percorso strettamente individuale con il corso della crisi di una civiltà e di un continente sembra un miracolo. Ma naturalmente non si tratta di un miracolo. Si tratta del fatto che la crisi storica investiva allora tutte le attività umane, si irradiava nella morale, nell’arte, nella politica, nella filosofia eccetera, sicché, senza rendersene conto, Nietzsche, che si vantava di essere lo spirito più indipendente dell’epoca e il più inattuale, si trovava ad essere una creatura della crisi e il più attuale degli attuali; e la sua filosofia, tendente a valorizzare un neopaganesimo nutrito di valori antichi: la virtù, la gara, la guerra, la gerarchia, la patria e il sangue, si sarebbe scontrata con la filosofia e l’azione di Marx, che raccoglieva nel comunismo i valori opposti, i valori nuovi portati dal cristianesimo: la solidarietà, l’uguaglianza, la dignità di tutti, l’amore, la pace, l’internazionalismo.

Dunque da un lato Nietzsche, come pensatore-poeta, fece quello che fanno in ogni epoca i pensatori e i poeti, cioè trasfigurò la crisi storica in poesia e filosofia tragica: e questo fu il frutto del suo libero genio; dall’altro, trascinato inconsciamente dalla corrente dominante, conferì corpo spirituale alla crisi (di autodistruzione) della civiltà cristiana, la legittimò e l’accelerò, costruendo quello che alla fine sarebbe diventato, grazie a tutte le sue negazioni e affermazioni, il cuore spirituale del fascismo.

Questa fu, in questo senso duplice, la sua seconda missione.

Nietzsche ne compì però anche una terza. Essa si collega alla stessa crisi e riguarda il suo aspetto più spirituale: la religione.

Con i rivolgimenti causati dal risveglio dei valori antichi e dalla nuova scienza nell’umanesimo e nel Rinascimento, il cristianesimo, che era giunto alla sua massima realizzazione ed era ormai incamminato sulla strada della corruzione, come è di tutti gli organismi invecchiati, cominciò a ritirarsi dalle coscienze europee. Subì poi il duro colpo della Riforma di Lutero e il suo posto fu preso sempre più, nei secoli che seguirono, dalle tendenze secolarizzanti. Nel suo rapporto con la laicità si creò quello che Spinoza dice che avviene con la teologia e la filosofia: quanto più si alza il piatto della bilancia della filosofia, tanto più si abbassa quello della teologia, e viceversa.

Dette tendenze laicizzanti, però, senza l’ausilio della fede e del Dio padre, del Dio provvidente, avevano grande difficoltà a sostituire la religione, della quale l’uomo ha un naturale bisogno. Perché facevano appello all’intelletto e non all’anima. Questo processo laicizzante, consistente nel sostituire Dio con la natura, si sviluppò dunque da allora oscillando in due direzioni parallele: una negativa, scettica, pessimistica, e una positiva, affermatrice, ottimistica, non senza ripetuti tentativi da parte dell’una di incorporare l’altra.

I protagonisti di questi due rami della laicizzazione dell’Europa sono i protagonisti della cultura (Kultur) europea: Nicola Cusano, Erasmo da Rotterdam, Lutero, Giordano Bruno, Giulio Cesare Vanini, Montaigne, Descartes, Pascal, Hume, Kant, Hegel, Stirner eccetera eccetera, fino al picco della tendenza negativa con Schopenhauer e la sua scuola, Philipp Mainländer, Julius Bahnsen e Eduard von Hartmann. Questi ultimi furono l’ultima grande provocazione in senso negativo, ed è ad essa, a Schopenhauer in particolare, suo “perfetto antipode”, che Nietzsche più immediatamente risponde con la sua tendenza affermatrice, rappresentata soprattutto da Così parlò Zarathustra.

Schopenhauer e i suoi discepoli si erano essi stessi opposti a quella che era stata l’ultima grande provocazione in senso contrario. Dopo il tentativo di Cartesio di “portare il cristianesimo a compiuta efficacia innalzando la ‘coscienza scientifica’ alla sola coscienza vera e valida”,[10] il tentativo di Pascal di ri-saltare con una “scommessa” dal campo laico a quello cristiano, dopo il tentativo di Leibniz di fare ingoiare all’uomo il male del mondo come una purga sgradevole ma benefica, e il tentativo di Hamann di rovesciare l’illuminismo col ricorso al cristianesimo profondo, c’era stato il grandioso tentativo di Hegel di divinizzare il mondo portando la filosofia al cristianesimo, invece che il cristianesimo alla filosofia.[11]

Con lo Zarathustra, in cui si esprime con la massima forza la tendenza affermatrice che è la caratteristica principale del suo genio, Nietzsche fonda la religione laica. Questa passa attraverso la radicalizzazione del pessimismo schopenhaueriano, fondato sull’ineluttabile dipendenza dell’uomo dalle sue condizioni di esistenza, come parte infinitesimale di un immenso organismo, l’universo, alle cui leggi è sottoposto (religione dunque dell’umiltà e non della superbia, come sostiene Benedetto XVI), e l’affermazione dell’essenza divina della vita, di cui tutti gli esseri sono partecipi. L’essenza sublime e beatificante della vita non può essere negata, ma solo oscurata o impedita dalle circostanze o condizioni di esistenza. Dunque slancio, passione, entusiasmo, amore della vita sono giustificati nonostante tutti i possibili orrori e tragedie dell’esistenza. Questa è la grande novità predicata in sostanza da Nietzsche.

Come tale la religione laica di Nietzsche-Zarathustra supera quella predicata da Spinoza, da Nietzsche eletto a suo “grande precursore”. Al desensualizzato amor dei intellectualis spinoziano, infatti, Nietzsche contesta la mancanza della passione, dell’ardore, del “sangue” (quanto a lui, dice: “io amo il sangue”). Può darsi che Spinoza intendesse questo amor dei intellectualis in maniera calda e non fredda, e si limitasse a usare un’espressione fredda per coerenza con l’“odine geometrico” (scientifico) impresso al suo capolavoro, L’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico. Egli ha infatti anche un’altra espressione che appare fredda, ma che potrebbe essere intesa nel senso più caldo, specialmente da coloro che considerano Spinoza un mistico, come, in Italia, Giorgio Colli, Piero Martinetti e Luigi Pareyson: “L’uomo conosce l’eterna e infinita essenza di Dio”. Sta di fatto però che amor e intellectualis sembrano cozzare e Nietzsche critica Spinoza, nell’aforisma 198 di Al di là del bene e del male, per la sua fede nella “distruzione delle passioni per mezzo della loro analisi e vivisezione”, mentre nell’aforisma 372 della Gaia scienza definisce l’amor dei intellectualis uno “scricchiolio”.

Quando, composto il primo Zarathustra, Nietzsche non sapeva quale valore, quale senso esso potesse avere, e lo domandava agli amici oltre che a se stesso, Peter Gast sentenziò: “È una sacra scrittura”. Ciò lo illuminò, lo aiutò a capire se stesso, finché non ebbe più dubbi. Parlò allora dello Zarathustra come “la Bibbia del futuro, la massima esplosione del genio umano, in cui è racchiuso il destino dell’umanità”.[12]

Ciò nonostante, in seguito si fece riassorbire dallo Zeitgeist e dai dibattiti dell’epoca, agitata dai venti selvaggi della reazione alla decadenza e impegnata soprattutto nello scalzare gli ostacolanti valori cristiani. Come suprema antenna e strumento dell’epoca, Nietzsche si distaccò pian piano dalla sua più grande e gloriosa conquista, celebrata nello Zarathustra appunto, per tornare a combattere il cristianesimo non più con l’eccellenza, con la divinità della vita concepita laicamente, ma con la lotta corpo a corpo, con lo scontro aperto. Ma ciò vuol dire che il suo genio si oscurò. Da Al di là del bene e del male in poi, attraverso la Genealogia della morale, il Crepuscolo degli idoli, L’Anticristo e Ecce homo, egli precipitò in una specie di monomania, si dedicò a uno scontro personalissimo col cristianesimo dai toni stridenti, esagerati e in definitiva grotteschi.

Nietzsche era stato sempre agitato dal genio religioso. Questo cercò di venire in luce in tutti i modi, anche per vie traverse: nell’adolescenza come adesione appassionata al cristianesimo, che però, per la sua stessa radicalità, sfociò nella negazione; poi con la teoria dell’Eterno Ritorno, che egli concepì appunto come religione e di cui si pensava, sia pure con raccapriccio, destinato ad essere il maestro.

Ma l’Eterno Ritorno era contraddittorio. Pensato come stimolo a una vita degna, di cui ci si potesse compiacere per l’eternità, dunque come incitamento morale, guardava al futuro ma saltava il passato. Se l’Eterno Ritorno è veramente eterno, la nostra vita attuale non è che la pedissequa ripetizione di quella che è dall’eternità e tale sarà per l’eternità, immutabilmente. Dunque nessuno sforzo per il suo miglioramento è possibile e ha senso. In tal modo il progettato incitamento morale si capovolge in deprimente fatalismo. Pertanto l’Eterno Ritorno, come religione, non funzionava.

Funzionava invece quello che egli, in opposizione a Schopenhauer, chiamava il “pessimismo dionisiaco” o pessimismo della forza. A patto però di distinguere i due elementi che erano in esso intrecciati. Il dualismo in filosofia è di solito un problema. Ma qui esso sarebbe stato la soluzione. Il dualismo ha in effetti due corni: l’essenza divina e beatificante della vita e le condizioni di esistenza, che possono essere ostacolanti e impedienti fino all’orrore. Nella vita le due cose si fondono e confondono, ma sono diverse e vanno distinte.

Nietzsche esemplificò in Goethe il grande vessillifero di questa nuova religione. Oggi se ne può aggiungere un altro che c’è stato dopo: Bertrand Russell. Questi, in particolare nel suo libro On God and Religion, si manifesta seguace della religione laica, senza esservi stato spinto da Nietzsche ma, evidentemente, per la maturità dei tempi. Ma già prima di Russell c’era stato in Italia Croce, che in particolare col suo saggio Perché non possiamo non dirci cristiani, propugnò la religione laica, a sua volta non spinto a ciò da Nietzsche.

Ma se per proclamare questa religione nella sua chiarezza c’è bisogno dei filosofi in veste di profeti religiosi, per seguirla non c’è bisogno di filosofia, di teoria: la potenza, la bellezza e la divinità della vita, cioè l’eterna e infinita essenza di Dio, come dice Spinoza, le sentono tutti, come pure, d’altro lato, le terribili condizioni d’esistenza.

Come fondatore della religione laica, Nietzsche raggiunge dunque Lutero, non soltanto come genio linguistico, quale è da tutti riconosciuto, ma anche come genio religioso.

In conclusione due immagini che possono dare una chiarezza intuitiva:

1)   L’opera di Nietzsche è come il globo terrestre, con una superficie fredda e rigida e con un nucleo infuocato, magmatico, che preme verso l’esterno. Il cuore di questo nucleo è il genio religioso, che solo sporadicamente trova vie di sfoogo.

2)   Così parlò Zarathustra illumina le opere precedenti e susseguenti come il sole i suoi pianeti, dove è da notare che il sole è immensamente più grande dei pianeti. Questi sono le opere scettiche, in funzione di difesa e di offesa, che spazzano via tutte le false credenze per far posto all’alto e sereno tempio dello Zarathustra. Questo si può anche configurare come un sacro monte, attorniato alla base dalle opere scettiche (la “filosofia” di Nietzsche).

 

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NOTE
[1] F. Nietzsche, Ditirambi di Dioniso, Guanda, Parma 1967, p. 21.
[2] Ibidem.
[3] C.P. Janz, Vita di Nietzsche, III volume, Roma-Bari 1982, p. 215.
[4] Questa non era l’idea di Nietzsche, per il quale l’individuo non deve servire nessuno, neanche l’umanità. Quanto a se stesso, nella lettera del 25 novembre 1888 a Heinrich Köselitz dice: Mi sono posto […] al di là, non al di sopra di ciò che conta ed è in auge oggigiorno, ma al di sopra dell’umanità”. Ma bisogna considerare che era prossimo a impazzire.
[5] Ecce homo, “Perché io sono un destino”, 1.
[6] Frammento postumo 2 [127] 5, autunno 1886.
[7] Frammento postumo 34 [253] aprile-giugno 1885.
[8] Umano, troppo umano, 39.
[9] F. Nietzsche, La gaia scienza 380.
[10] Max Stirner, Der Einzige und sein Eigentum (L’unico e la sua proprietà), Reclam, Stuttgart 2011, p. 92 (… das Christentum zu vollendeter Wirksamkeit zu bringen, indem sie das “wissenschaftliche Bewusstsein” zum allein wahren und geltenden erhob).
[11] Come ultimo ostacolo Nietzsche non vede Schopenhauer, ma il cristianesimo, che era e restava il suo più grande nemico, e a cui correva sempre il suo pensiero: “Persino il cristianesimo diventa necessario: solo la forma suprema, più pericolosa, più seducente del no alla vita ne sfida la suprema affermazione” (Frammento 25 [7] dicembre 1888-gennaio 1889). Nel frammento 14 [25] primavera 1888 aveva indicato tuttavia in Schopenhauer, oltre che in Vigny, Dostoevskij, Leopardi e Pascal, il principale ostacolo al pessimismo classico o della forza.
[12] F. Nietzsche, lettera del 26 novembre 1888 a Paul Deussen.

 

Sossio Giametta è nato a Frattamaggiore (Napoli) nel 1929 e vive a Bruxelles. Collaboratore di Colli e Montinari all’edizione Nietzsche, ha tradotto tutte le opere del pensatore tedesco, oltre a quattro volumi di frammenti postumi e a opere di Cesare, Spinoza, Goethe, Hegel, Schopenhauer, Freud. Ha pubblicato libri di saggistica filosofica e letteraria e un libro di narrativa, Madonna con bambina e altri racconti morali (2006). Il suo ultimo libro è L’oro prezioso dell’essere. Saggi filosofici (Mursia, 2013).

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