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sinistra

La signora Ponza, il linguaggio, la conoscenza della realtà e il criterio della verità

di Eros Barone

Ebzo Cucchi 1024x768Signora Ponza: (con un parlare lento e spiccato) – che cosa? la verità? È solo questa:
che io sono, sì, la figlia della signora Frola –
Tutti: (con un sospiro di soddisfazione) ah!
Signora Ponza: (subito c.s.) – e la seconda moglie del signor Ponza –
Tutti: (stupiti e delusi, sommessamente) – oh! E come?
Signora Ponza: (subito c.s.) – sì; e per me nessuna! nessuna!
Il Prefetto: Ah no, per sé, lei, signora: sarà l’una o l’altra!
Signora Ponza: Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede.
(Guarderà attraverso il velo, tutti, per un istante; e si ritirerà. In silenzio.) 1

La verità e il mattino si rischiarano a poco a poco.

Proverbio tedesco

1. «Chi è la signora Ponza?»

Non vi è un linguaggio che non implichi un orientamento verso ciò che non è linguaggio. E proprio un siffatto orientamento è ciò che comunemente si chiama riferimento, laddove ciò a cui ci si riferisce è il mondo o l’oggetto che il linguaggio vuole descrivere o trasformare. In questo senso, il riferimento di un discorso non è quindi, come talvolta si dice, la realtà, ma la sua realtà, vale a dire ciò che il discorso sceglie o istituisce come realtà.

Una quantità di problemi particolari sono connessi al riferimento: problemi che rientrano al contempo nella logica, nella linguistica, nell’analisi del discorso, nella filosofia. Ma la loro comune radice va ricondotta allo statuto ambiguo di ciò a cui ci si riferisce, ossia al referente, il quale, per un verso, dev’essere esterno al discorso, e, per un altro verso, è richiamato dal discorso, e perciò in esso iscritto. Se è la mia parola a indicare ciò di cui parla, se è essa a specificare il proprio oggetto, come potrebbe venire smentita da quest’oggetto, che essa si dà da sé? Se tu puoi sapere di che cosa parlo io solamente tramite quel che io ne dico, come può allora ciò di cui parlo differire da ciò che ne dico?

Ma se il referente di un discorso non può smentire quel discorso senza perciò cessare di essere il suo referente, che senso ha distinguere uno dall’altro? Come ammettere una diversità fra due enti che non possono mostrar fra loro alcuna diversità?

Un esempio, trascelto per la sua originalità letteraria e filosofica, servirà a chiarire il dilemma. Si tratta di un esempio che è ricavato direttamente da una riflessione sulla parola ed è desunto da quella commedia di Pirandello il cui unico soggetto è proprio il referente: Così è (se vi pare). 2 Chi è la signora Ponza, referente dei due discorsi tra loro contraddittori, di suo marito e della signora Frola? Irridendo la curiosità, e cioè, in certi casi, lo zelo accanito nell’indagare ciò che sia “in sé stessa” la persona di cui parlano quei discorsi, Pirandello pone in risalto il dilemma fondamentale che domina tutta la riflessione sul rapporto tra la realtà e il referente. Se la parola si dà da sé il proprio oggetto, come conoscere quest’oggetto al di fuori di questa parola? E, non appena appare diverso da ciò che un discorso dice di lui, è esso ancora ciò di cui questo discorso parla? In altri termini, è possibile che la signora Ponza di cui parla la signora Frola sia non quale quest’ultima la presenta (cioè figlia sua e prima moglie di Ponza), ma quale la presenta un altro interlocutore, il signor Ponza (e cioè seconda moglie di lui, che l’avrebbe sposata dopo la morte della figlia della signora Frola)? 3

Cercando di ricostruire il procedimento intellettuale che Pirandello attribuisce al gruppo dei curiosi (la famiglia Agazzi, i Sirelli, la signora Cini, il prefetto), sarà da notare che costoro si trovano dinanzi a due discorsi antagonistici, ciascuno dei quali riguarda un referente a esso esterno: il che è una caratteristica comune a tutti i discorsi umani. Ma c’è di più: ciascuno di questi discorsi assume che il suo referente appartenga alla “realtà”, in modo che questo referente vien presentato come identico con quello dell’altro discorso: il signor Ponza e la signora Frola pretendono di parlare del medesimo ente reale, la signora Ponza; e in ciò essi non fanno altro che applicare al loro caso particolare una regola generale: io non potrei presentare il referente della mia parola come esterno a essa, se pensassi che la mia parola sia la sola che possa riferirsi a esso. L’esteriorità del referente è garantita dalla possibilità d’infiniti altri discorsi che si riferiscono, essi pure, a quello. Ora, questa comune pretesa dei due discorsi, di parlare del medesimo ente, è dai curiosi (i quali non sono meno ingenui e creduli che curiosi) accettata senza esitazione, mentre non vi sono affatto costretti, poiché non fanno essi stessi un discorso intorno alla signora Ponza. Il solo punto problematico è l’interrogativo «Chi è la signora Ponza?», ed è proprio su questo interrogativo che vogliono far cessare lo stallo fra i due discorsi. Dopo che si sono rivelati infruttuosi sia il confronto diretto (atto primo) sia il confronto coi discorsi di altre persone, viene loro l’idea di consultare il referente stesso, ossia la signora Ponza in carne e ossa, quella che esiste chiusa nel suo appartamento mentre gli altri parlano di lei.

Sennonché la morale della commedia, quale risulta dalle ultime battute, è che la signora Ponza, in quanto persona esistente, non può dire niente a coloro che parlano di lei, non essendo ella oggetto del loro discorso, essendo dunque, per loro, una realtà e non un referente; non può dire alcunché, se non a coloro che parlano di lei, che a lei si riferiscono: e cioè al signor Ponza e alla signora Frola. Ma tutto quello che lei può rivelare a questi ultimi è ciò che già era contenuto nelle loro parole: ella può soltanto confermare, e conferma ciò che ciascuno dice. Si può d’altronde affermare, qualora si assuma che il discorso problematico dei curiosi comporta esso pure un modo per riferirsi alla signora Ponza, che ella ha anche qualcosa da dire a loro. Ma le “rivelazioni” a loro fatte sono ancora un riflesso: esse riflettono l’incertezza sottesa al loro discorso. A loro, la cui asserzione oscilla tra due discorsi opposti, il referente si dà come fondamentalmente indeterminato, come dotato di una duplice natura, corrispondente ai due discorsi opposti, per mezzo dei quali lo si può mettere in discussione. Alla signora Ponza, dopo che questa ha detto di essere insieme e la figlia della signora Frola e la seconda moglie del signor Ponza, il prefetto chiede che cosa sia “per sé” (cioè, in effetti, per lui, per i curiosi), ottenendo la seguente risposta: «Per me, io sono colei che mi si crede».

Sia o no ragionevole condividere lo scetticismo pirandelliano, è comunque difficile non tenerne conto. Pirandello riassume in maniera esemplare il dilemma che s’incontra in qualsivoglia riflessione sulla tematica del riferimento. La parola, proprio per il fatto che richiede di essere posta in relazione con una realtà a essa esterna, vieta di concepire codesta realtà come diversa dall’immagine che di essa vien data. La realtà, se non è il referente di un discorso, è muta; e, se ne è il referente, pare condannata a rifletterlo. Sottrarsi a questo dilemma è stato uno degli scopi costanti di filosofi, logici e linguisti. In effetti, connessi alla tematica del riferimento vi sono problemi che, facendo capo alle questioni della verità, del significato, della conoscenza e dell’errore, rientrano nella logica, nella linguistica, nell’analisi del discorso e nella filosofia. Il paradosso centrale, che è costitutivo di questa articolata problematica, è che la parola da un lato non può non contenere un riferimento a qualcosa di esterno, dall’altro, costituendo - e non semplicemente ‘riguardando’ – un oggetto, lo proietta in un mondo, da essa distinto, che però non può essere esaurito dal discorso che di esso parla.

 

2. La teoria classica della verità e le obiezioni idealistiche

Come risponde a una simile posizione, che è poi quella dello scetticismo riproposta in una versione epistemologicamente scaltrita e letterariamente raffinata, la teoria classica della verità? 4 Quest’ultima afferma che la verità obiettiva o scientifica non può essere se non quella che rappresenta (riflette, rispecchia, esprime ecc.) una realtà indipendente nel suo esistere da chi la conosce e tale per cui il conoscere la rappresenti – sia pure per approssimazione e in senso relativo – così come è. La tesi del materialismo, ridotta ai suoi termini essenziali, è che il mondo fisico esiste indipendentemente da tutti gli uomini (passati, presenti e futuri) e che la scienza lo descrive in tale sua indipendenza così come è, anche se con strumenti mentali e categorie che sono storicamente e socialmente condizionati e prodotti. Diversamente, non avrebbe senso parlare di verità obiettiva.

Questa posizione rientra in un concetto classico della verità, che all’inizio della scolastica medioevale fu espresso nella ben nota formula di adaequatio intellectus et rei. Ma l’origine di questo concetto va ricondotta ai greci, e in particolare ad Aristotele, anche se non si trova in lui con le medesime parole. Naturalmente, la questione si situa al livello del problema della verità nel “discorso”, giacché in tutta la tradizione che va da Aristotele a Hegel, tradizione ereditata dal marxismo, il momento sensibile, o anche soltanto rappresentativo, è ritenuto insufficiente a definire compiutamente la verità obiettiva di un qualsiasi ente reale o esistente. La proposizione in quanto sede della verità non ha, osserva Aristotele, semplicemente carattere significativo (anche la preghiera è un discorso significante, «ma non dice né il vero né il falso»). 5 La proposizione invece è una connessione di elementi significanti che si riferisce all’oggetto e dice qualcosa in quanto collega o divide in conformità alla costituzione dell’oggetto. La misura (mensura) della sua verità, come dirà san Tommaso, è l’oggetto stesso. «Non perché noi ti riteniamo bianco tu sei bianco davvero, ma all’incontro, perché tu sei bianco, pensiamo il vero noi che ti diciamo bianco». 6 L’idea della adaequatio è dunque già operante in Aristotele.

Contro questa teoria classica (e, naturalmente, contro la sua radicalizzazione materialistica) sono ben note le obiezioni idealistiche. La prima obiezione, la più comune e banale, è che non si vede come la coscienza possa uscire da se stessa: è la obiezione che si fonda sull’assunto della eterogeneità di conoscente e conosciuto. È difficile fissare in che cosa consista effettivamente questa obiezione. Se eliminiamo dal termine ambiguo di “coscienza” tutti gli elementi psicologici e metafisici che vi sono incrostati, e lo collochiamo al livello della nostra problematica, ossia della verità nel discorso, quella affermazione significa soltanto che le proposizioni sono soltanto proposizioni. Sennonché una proposizione che è soltanto una proposizione non è né vera né falsa. Il carattere veritativo di una proposizione consiste nel suo vertere intorno a qualcosa, ossia nell’essere una relazione di elementi significanti che ha relazione a qualcos’altro. Quell’affermazione è perciò autocontraddittoria. Insomma, il carattere veritativo della proposizione – il suo vertere – comporta una eterogeneità radicale (radicale dal punto di vista puramente teoretico) del proprio oggetto. Se io dico che ho incontrato Marco per la strada, intendo dire che ho incontrato Marco in carne e ossa, e non la rappresentazione o il concetto di Marco. Questa eterogeneità è l’esistenza (in senso obiettivo). Ed è questa, fra l’altro, la ragione di principio per cui non è valido il famoso argomento ontologico per dimostrare l’esistenza di Dio. Una simile diversità (che si estende anche agli oggetti intorno a cui vertono le proposizioni enunciate dal matematico, almeno mentre le enuncia) è implicita nella nozione di adaequatio, che comporta l’idea del muoversi da una diversità antecedente. Dal canto suo, il materialismo soddisfa nel modo più pieno l’istanza di tale eterogeneità ed esprime quanto si è ora detto con l’uso del termine di “rispecchiamento” per indicare ogni forma di conoscenza.

La seconda obiezione è più seria e si potrebbe chiamare del “terzo incomodo”. Chi mai dice che la adaequatio si verifichi? Per appurarlo bisognerà porsi al di là della correlazione da essa stabilita fra conoscente e conosciuto, e così via all’infinito. Ma questa obiezione, per un verso, non fa che approfondire la natura di ciò che è verità: essa si realizza soltanto in processi, i quali comportano sempre un prima di essi. La nozione stessa di adaequatio implica appunto l’antecedenza di ciò che diviene oggetto e misura dell’adaequatio stessa, e nulla vieta che questo prima possa essere anche una proposizione, o un sistema di proposizioni, da confrontare e commisurare all’oggetto di nuove indagini. Per un altro verso, quella obiezione rinvia a un problema differente, ma inevitabile, che è quello del “criterio della verità”, laddove è fondamentale, dal punto di vista del materialismo dialettico, la risposta di Marx: «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è una questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero – isolato dalla prassi - è una questione meramente scolastica». 7

È essenziale, a questo punto, richiamare il carattere proprio di questo “criterio della prassi”, così come è stato chiarito da Lenin: «Il criterio della prassi – egli scrive – non può mai confermare o confutare completamente una rappresentazione umana, qualunque essa sia.». E aggiunge: «Anche questo criterio è talmente “indeterminato” da non permettere alle conoscenze dell’uomo di trasformarsi in un “assoluto”; ma nello stesso tempo è abbastanza determinato da permettere una lotta implacabile contro tutte le varietà dell’idealismo e dell’agnosticismo». 8 Si può dire, allora, che nell’àmbito di indeterminazione del criterio della prassi si svolge tutta la concreta storia empirica del conoscere umano, ivi comprese le sue elaborazioni teoriche.

Sussiste tuttavia una terza obiezione idealistica, che è la più impegnativa. Essa può venir tratta, indirettamente, dall’inizio della Fenomenologia dello spirito di Hegel ed emerge dall’analisi del linguaggio, la quale mette in luce il carattere di universalità di ogni proposizione apofantica, ossia di ogni asserzione che possa esser detta vera o falsa, anche di quelle che sembrano implicare la maggiore determinatezza sensibile di un qualsiasi oggetto indicato ed esplicitato in un’asserzione. La verità, al livello della proposizione, sembra così risolversi tutta nella idealità, così come la “coscienza sensibile” finisce col risolversi nell’universalismo del linguaggio. La risposta fu data da Feuerbach e ha un valore decisivo. Dice Hegel: «Per es., il qui è l’albero. Io mi vòlto, e questa verità è dileguata». 9 Osserva Feuerbach: «Questo va bene nella Fenomenologia, dove il voltarmi costa una piccola parola; nella realtà, invece, dove devo voltare il mio corpo pesante, il qui mostra di avere un’esistenza perfettamente reale anche dietro le mie spalle. L’albero limita le mie spalle; e mi scaccia dal posto che esso occupa. Hegel non confuta il qui quale è oggetto della coscienza sensibile, a differenza del pensiero puro, ma soltanto il qui e l’ora della logica». 10 Il senso, potentemente dialettico, della osservazione di Feuerbach è che tutta la verità del discorso logico assume significato dal suo opposto, da ciò che lo contraddice. Feuerbach tuttavia non fu in grado di vedere fino in fondo la portata della sua critica: di concepire il sensibile stesso così come egli, sia pure a livello embrionale, lo presenta nell’esempio citato (il voltare le spalle), ossia «quale attività pratica umana-sensibile». 11 Questo passo ancor più decisivo fu compiuto da Marx. Lo stesso criterio della pratica svanisce nella sua portata teoretica se la prassi stessa non è concepita non solo come “sociale” ma, irriducibilmente, anche come “sensibile” 12 (ancorché, in quanto umana, sia anche sempre intellettuale e finalistica). In ultima analisi è questo il nocciolo del materialismo dialettico.

 

3. La dialettica del rispecchiamento nella gnoseologia materialistica

Sul piano gnoseologico il pensiero, come la prassi dimostra, riesce a ricostruire una “immagine” della realtà. Tuttavia, non la “rispecchia” in una forma uguale: non solo è qualcosa di eterogeneo all’oggetto, ma è necessario mantenere l’eterogeneità per non incorrere nelle tipiche ipostasi idealistiche. Sennonché come può realizzarsi questa sintesi di elementi reali eterogenei, affinché ne derivi come risultato un giudizio vero, cioè verificato effettivamente, a posteriori, dalla prassi? Il fatto che ci sono conoscenze scientifiche, verificate nella prassi, e che tutte hanno in comune il rapporto complessivo con la prassi, che le rende “verificate”: scienze, e non, per esempio, “filosofia”. Per una gnoseologia materialistica questo è innanzitutto il fatto: che gli elementi eterogenei, pensiero e natura, nella conoscenza scientifica si combinano per produrre conoscenze, appunto “verità”, verificata nella prassi. Ma in quanto “filosofia” – teoria generale – il materialismo non potrà dire poi assolutamente niente di più: questo è il senso dell’aforisma marxiano contenuto nella seconda tesi su Feuerbach. 13 Dal punto di vista squisitamente gnoseologico, la teoria della verità obiettiva è teoria del metodo e dell’unità della scienza: essa esprime l’istanza dell’unità del sapere mostrando semplicemente che il sapere vero, a differenza di tutti gli altri, è uno, nella varietà necessaria dei suoi metodi concreti, perché è “verificato”, ossia è tale da ricostruire l’oggetto, e la prova di ciò è fornita dalla prassi.

Orbene, per chiarire la dialettica del rispecchiamento nella gnoseologia materialistica conviene prendere le mosse dalla seguente domanda: «perché non posso mettermi in rapporto diretto con la realtà, rinunciando fin dall’inizio al concetto dell’inizio?». Questa domanda va posta in relazione con un’altra profonda osservazione di Feuerbach (che spiega anche il lato critico negativo dell’argomentazione materialistica in gnoseologia): «L’essere è pensabile solo in modo mediato, mediante i predicati che stabiliscono l’essenza di una cosa.» 14 È questo “essere” che la gnoseologia materialistica chiama “materia”, laddove la “natura” è, da un lato, l’insieme degli oggetti delle scienze naturali (questo, va detto, è il solo enunciato che si possa formulare senza sottintesi metafisici) e dall’altro, su un piano diverso, l’éteron, cioè l’“altro”, elemento funzionale della prassi e della storia dell’uomo. Occorre distinguere qui tra “materia” e “natura” per non ipostatizzare il principio del movimento nella “ragione” o nella “natura”, che corrispondono ai due gemelli nemici del positivismo e dell’idealismo.

In merito al giusto concetto della dialettica è poi doveroso ribadire che la scoperta delle antinomie che nascono sulla base di una determinata teoria deve condurre, o all’eliminazione delle antinomie mediante la correzione di errori concettuali che siano intervenuti nella elaborazione della teoria, o all’abbandono completo della teoria stessa. La “contraddizione dialettica” non ha qui nulla a che fare, e non vi è dubbio possibile sul fatto che una teoria internamente contraddittoria, intrinsecamente antinomica, è erronea e falsa. Il principio logico di non-contraddizione vale assolutamente anche per il materialismo dialettico, e la dialettica marxista non implica il rifiuto della logica formale. D’altronde, il problema del rapporto della dialettica con la logica formale è uno dei problemi centrali della dialettica marxista, e non è certo possibile affrontarlo in questa sede.

 

4. In che cosa consiste la verità obiettiva

Il modo di considerare il problema della verità rivela, in forma specifica, il contrasto generale tra materialismo e idealismo. La verità può essere concepita fondamentalmente in due modi: come proprietà dei giudizi che si accordano con la realtà, ovvero come proprietà dei giudizi che si accordano con la coscienza, con i suoi princìpi e con le sue norme. Nel primo caso abbiamo una concezione materialistica, la teoria della verità obiettiva, detta anche concezione classica della verità; nel secondo caso, una concezione idealistica, propria delle cosiddette definizioni non-classiche della verità.

Orbene, dal punto di vista della concezione materialistica, l’assunto fondamentale è che la conoscenza non è costituita da un qualunque insieme di enunciati privi di rapporto con la realtà obiettiva e la prassi, ma al contrario da enunciati che nel loro insieme ci dànno un rispecchiamento valido del reale, talché l’intera argomentazione scettica cade nel nulla non appena la questione venga posta conseguentemente in questi termini, ossia nei termini della teoria della verità obiettiva. Il concetto del carattere obiettivo della conoscenza non implica soltanto che essa ci dia un rispecchiamento della realtà obiettiva, ma anche, e insieme, che questo rispecchiamento è il risultato della nostra attività, della modificazione della realtà, cioè della prassi. Non c’è conoscenza senza attività, teoria senza prassi. Il rapporto tra teoria e prassi abbraccia infatti un plesso di questioni straordinariamente articolato e in questa sede ci limiteremo ad accennare un solo lato: quello del ruolo della prassi nella genesi della teoria.

Gli idealisti di tutte le tendenze (compresa anche la variante scettica dell’idealismo soggettivo) hanno un tratto in comune: che nelle loro concezioni la prassi è tenuta accuratamente divisa dalla teoria. Che l’uomo mangi, beva e si vesta è una cosa; che esso filosofi è tutt’altra cosa. Ogni sforzo per mettere in evidenza il rapporto tra questi due momenti è considerato come un abbassamento della dignità della scienza e della filosofia, giacché il momento pratico della vita umana è ritenuto “il più basso”. È chiaro che, partendo da siffatti presupposti, si può ovviamente trattare il sapere in modo “autonomo”, in quanto lo si fa poggiare sulle nuvole. Se poi l’edificio faticosamente costruito dalla scienza si rivela, in questo modo, privo di fondamento, ciò non è colpa della scienza stessa, ma di coloro che hanno voluto trasportarla per forza nelle nubi della “pura teoria”: e tale è proprio il caso del celebre regressus in infinitum dello scetticismo. 15

Il materialismo dialettico procede nel modo opposto. Non costretto, come l’idealismo, a far poggiare la realtà sulla testa, esso mostra innanzitutto che l’uomo, per poter filosofare, deve mangiare, bere ecc., ossia esercitare un’intera serie di attività pratiche. Non vi è teoria senza prassi, anche se la prassi, a un livello più elevato, non può a sua volta far a meno della teoria. Ma dal punto di vista genetico non vi è dubbio che l’azione umana abbia preceduto la teoria umana. Le teorie non vengono formulate in modo autonomo, per partenogenesi, ma in stretto rapporto con la prassi e sulla base di essa. La conseguenza di questo fatto è che teorie scientifiche e sistemi filosofici non sono costruiti a partire “dal cominciamento” o “senza presupposti”, come afferma l’idealismo in generale, e in particolare lo scetticismo, giungendo inevitabilmente al regressus in infinitum. Introduzione al sapere in senso stretto, e quindi alla scienza, alla filosofia, alla teoria in genere fu l’attività umana, la trasformazione del reale: essa ha costituito il fondamento della conoscenza, che non abbisogna a sua volta di fondazione perché è l’inizio e la fondazione di ogni conoscenza. In questo senso, la fondazione della conoscenza è il riconoscimento della prassi come pietra di paragone della conoscenza vera. Essa è legata indissolubilmente al carattere oggettivo della conoscenza, al fatto che il mondo non è “creato”, ma rispecchiato nel nostro pensiero, talché noi, in ultima analisi, possiamo convincerci della verità della nostra conoscenza, ossia del suo accordo con la realtà, solo attraverso il controllo della previsione che immediatamente o mediatamente ne risulta, controllo compiuto per mezzo dell’attività pratica, per mezzo della prassi. La fondazione di questo controllo, nel senso della sua deduzione da un enunciato teoretico, non è necessaria, perché esso ci è dato a priori rispetto a qualsiasi altra premessa, come peraltro accade nel mondo animale in cui le forme embrionali della conoscenza sono legate proprio alla loro funzione pratica. Precisamente in questo rapporto sta la chiave d’oro che il materialismo dialettico ci offre. Vi sono determinati enunciati o tesi, che non esigono alcuna fondazione, e quindi alcuna applicazione di un criterio ad un altro criterio, poiché essi non ci sono dati, come sostiene l’idealismo, grazie a una convenzione, bensì perché la conoscenza è radicata nella realtà obiettiva e legata indissolubilmente alla prassi.

Sennonché, una volta che ci si è collocati sul terreno del materialismo dialettico, e quindi della teoria della verità obiettiva e dell’unità di teoria e prassi, svanisce l’intera problematica scettica del criterio della verità; abbandonato invece questo terreno, si è posti inevitabilmente di fronte all’alternativa: o scetticismo o convenzionalismo, e si è costretti ad accogliere, in una forma o nell’altra, conclusioni di tipo idealistico-soggettivo. In altri termini, l’elaborazione conseguente della teoria della verità obiettiva conduce al superamento del soggettivismo e, insieme con esso, di ogni argomentazione scettica. Lo scetticismo è un frutto dell’albero del soggettivismo, e sta e cade con esso: visto alla luce del materialismo dialettico, il problema dello scetticismo è uno pseudo-problema, sorto dalla separazione idealistica di teoria e prassi, e conseguentemente dall’impossibilità di comprendere la genesi della conoscenza, e della teoria in generale, a partire dalla prassi.

 

5. Il criterio marxista della verità: la prassi

Prima ancora di esaminare la problematica inerente al criterio della prassi, conviene soffermarsi sul concetto di “prassi”. Si è visto che il punto di partenza della critica marxiana al carattere contemplativo della filosofia, nelle Tesi su Feuerbach, è che questo filosofo concepisce l’oggetto sensibile «come intuizione», «non come attività umana sensibile, prassi». Poco oltre, analizzando il modo in cui Feuerbach concepisce l’attività umana, Marx osserva che «egli non concepisce l’attività umana stessa come oggettiva». 16 Da ciò risulta intanto che Marx concepisce la prassi come identica all’attività sensibile, oggettiva, dell’uomo, ossia a un’attività che è rivolta alla realtà oggettiva, laddove per Marx l’oggetto è anche il risultato dell’attività umana. In altri termini, l’oggetto non è soltanto obietto (‘Objekt’ = oggetto, nel senso di ciò che viene proiettato fuori dal soggetto) dell’intuizione, ma è anche il risultato dell’attività del soggetto, cioè della prassi. Nella concezione (non dualistica ma) monistica del materialismo marxiano soggetto e oggetto sono distinguibili ma non separabili. La distinzione tra soggetto e oggetto è allora metodologica, gnoseologica, non ontologica e organica.

La prassi è dunque un’attività dell’uomo che modifica la realtà. Per realtà non intendiamo però soltanto la natura, ma anche la società. Siccome l’uomo vive in un determinato ambiente naturale e sociale, il concetto di prassi non involge soltanto i rapporti tra l’uomo e l’ambiente naturale, ma anche i rapporti degli uomini tra di loro: la prassi è pertanto un’attività sociale dell’uomo, storicamente condizionata, diretta alla modificazione dell’oggettiva realtà naturale e sociale. In questa totalità della prassi umana la prassi della produzione e delle trasformazioni sociali ha una posizione dominante e svolge il ruolo fondamentale. Sulla sua base, e crescendo in un rapporto inscindibile con essa, si sviluppa una branca speciale della prassi: la prassi scientifica sperimentale. Essa soddisfa i bisogni della prassi produttiva e sociale, e in essa trova la spinta, il punto di partenza delle sue ricerche e le condizioni della loro realizzazione. Nel contempo, essa è specializzata, e fino a un certo grado autonoma: è la prassi, il cui compito immediato è la conoscenza.

Il criterio della prassi è senz’altro il criterio che gli uomini applicano in modo elementare nella vita quotidiana. Ma accade che proprio ciò che si verifica in modo elementare nella prassi della vita quotidiana non trovi riscontro che molto raramente nella riflessione filosofica: e i filosofi (i filosofi non marxisti) sembrano farsi in generale un punto d’onore non solo nel tener separata la prassi dalla teoria, ma addirittura nell’opporre la teoria alla prassi. 17 Per converso, la concezione marxista della prassi come ultimo e supremo criterio della verità costituisce un’eccezione nella storia della filosofia: un’eccezione, tuttavia, che non si è verificata per caso. Il marxismo è una filosofia che rispecchia gli interessi delle masse lavoratrici e si pone lo scopo di servire la causa della loro lotta. Già nella sua giovinezza Marx affermava che, così come la filosofia trova nel proletariato la realizzazione dei suoi fini, il proletariato trova nella filosofia (s’intende, nella filosofia rivoluzionaria) la sua arma teorica. 18 Infine, criticando, sempre nelle Tesi su Feuerbach, il carattere contemplativo della filosofia della sua epoca, Marx concludeva la sua disamina asserendo che la vecchia filosofia aveva solo interpretato il mondo, mentre si trattava ora di cambiarlo. 19

Il rapporto tra la filosofia rivoluzionaria e il proletariato trova espressione anche nella teoria marxista della verità. Abbiamo già citato la seconda delle Tesi su Feuerbach, in cui Marx osserva che il problema della verità obiettiva del pensiero umano non è un problema teoretico, bensì pratico, e che la sua separazione dalla prassi lo riduce a una mera questione scolastica. Questo rapporto trova espressione anche nella teoria marxista della verità. Questa tesi, che stabilisce il criterio della verità nella prassi, è una delle tesi fondamentali del marxismo, con le quali esso ha rivoluzionato profondamente la tradizione filosofica. Tra i classici del marxismo che hanno analizzato la connessione generale del problema della prassi merita di essere citato almeno Engels, il quale ha indicato non meno nettamente di Marx il criterio della verità nella prassi, trattando diffusamente questo tema in polemica con l’agnosticismo del suo tempo, che negando la conoscibilità della “cosa in sé” distorceva in realtà il vero carattere della nostra conoscenza. L’attacco engelsiano a questa tesi è interamente fondato sul criterio della verità fornito dalla prassi, di cui egli si serve come di una pietra di paragone della conoscenza: «Il nostro agnostico ammette pure che le nostre conoscenze sono fondate sui dati che riceviamo attraverso i nostri sensi; ma – si affretta ad aggiungere – come possiamo sapere se i nostri sensi ci forniscono delle rappresentazioni fedeli degli oggetti percepiti per mezzo di essi? E continua informandoci che quando egli parla degli oggetti e delle loro proprietà non intende in realtà questi oggetti e queste proprietà di cui non può saper niente di sicuro, ma semplicemente le impressioni che essi hanno prodotto sui suoi sensi. Non v’è dubbio che è difficile poter continuare solo con degli argomenti una tale maniera di ragionare. Ma prima di argomentare gli uomini hanno agito. ‘In principio era l’azione’. 20 E l’attività umana aveva risolto la difficoltà molto tempo prima che l’ingegnosità umana l’avesse inventata. ‘The proof of the pudding is in the eating’. Nel momento che facciamo uso di questi oggetti secondo le qualità che in essi percepiamo, sottoponiamo a una prova infallibile l’esattezza o l’inesattezza delle percezioni dei nostri sensi. Se queste percezioni erano false anche il nostro giudizio circa l’uso dell’oggetto deve essere falso; di conseguenza il nostro tentativo di usarlo deve fallire. Ma se riusciamo a raggiungere il nostro scopo, se troviamo che l’oggetto corrisponde all’idea che ne abbiamo, che esso serve allo scopo a cui lo abbiamo destinato, questa è la prova positiva che entro questi limiti le nostre percezioni dell’oggetto e delle sue qualità concordano con la realtà esistente fuori di noi. Quando invece il nostro tentativo non riesce, non ci mettiamo molto, d’abitudine, a scoprire le cause del nostro insuccesso; troviamo che la percezione che ha servito di base al nostro tentativo, o era per se stessa incompleta o superficiale, o era collegata in modo non giustificato dalla realtà coi dati di altre percezioni, il che noi chiamiamo un ragionamento difettoso. Nella misura in cui avremo preso cura di educare e di utilizzare correttamente i nostri sensi, e di mantenere la nostra azione nei limiti prescritti da percezioni correttamente ottenute e correttamente utilizzate, troveremo che il successo delle nostre azioni dimostra che le nostre percezioni sono conformi alla natura oggettiva degli oggetti percepiti. Finora non abbiamo un solo esempio che le nostre percezioni sensorie, scientificamente controllate, determinino nel nostro cervello delle idee sul mondo esterno le quali siano, per loro natura, in contrasto con la realtà, o che vi sia incompatibilità immanente fra il mondo esterno e le percezioni sensorie che noi ne abbiamo». 21

Il criterio della prassi consiste dunque nella prova cui le previsioni della teoria vengono sottoposte in base a determinati risultati dell’attività sensibile umana. Nondimeno, ci si può domandare se un siffatto criterio sia assoluto. In altri termini, la prova delle previsioni nella prassi è una completa garanzia della verità del nostro giudizio ed esclude ogni possibilità di errore? La risposta non può che essere negativa. Il risultato atteso può essere prodotto in virtù di circostanze secondarie anche se il giudizio era errato; oppure può accadere che il fatto previsto si verifichi in effetti, ma che il giudizio, su cui si fondava la previsione, fosse solo in parte vero: così avviene anzi il più delle volte. Nuove esperienze, che siano ripetizioni di quelle già compiute o che siano altre, che stanno in rapporto con altre conseguenze derivabili dal giudizio in questione, rivelano in questi casi, presto o tardi, l’erroneità totale o parziale del giudizio stesso. Infine, si dànno casi in cui il criterio della prassi non può essere applicato in forma immediata: per esempio, nel caso della correttezza di formule matematiche o della validità di leggi naturali generali. Il criterio della prassi viene allora applicato all’esemplificazione del giudizio: ma è impossibile controllare tutti i casi possibili di esemplificazione. È chiaro che in nessuno di tutti questi casi il criterio della prassi ha un valore assoluto. Esso, però, è abbastanza determinato, per dirla con Lenin, da poter far fronte agli argomenti che l’agnosticismo e l’idealismo gli oppongono.22

 

6. La differenza rispetto al pragmatismo nel modo di intendere il criterio della prassi

Poiché anche nelle filosofie pragmatistiche la prassi viene evocata come criterio della verità, contrapponendo questa concezione a quella “intellettualistica”, è opportuno chiarire la differenza rispetto al punto di vista del marxismo per evitare oscurità e fraintendimenti. In realtà, la somiglianza delle due concezioni del criterio della prassi è soltanto estrinseca e verbale, poiché i punti di vista filosofici del marxismo e del pragmatismo sono nettamente opposti.

La prassi è, per il marxismo, come si è visto, l’attività sensibile umana che modifica la realtà materiale; il criterio della prassi si esprime nel fatto che il prodursi dei risultati previsti di questa attività costituisce il termine di controllo della verità del giudizio sul quale era fondata la previsione. In questo senso, si può parlare di utilità, di funzione biologica, ecc., del giudizio, intendendo con ciò che il giudizio vero è uno strumento dell’attività umana, e per questo è utile.

La concezione pragmatistica della prassi è del tutto diversa. Essa non è qui prassi sensibile oggettiva, perché non ha senso, per il pragmatismo, parlare di realtà oggettiva; l’“utilità”, a sua volta, non è funzione della verità del giudizio, del suo essere in accordo con la realtà obiettiva, poiché il soggettivismo, che è alla base del pragmatismo, non può riconoscere una tale realtà. Il rapporto viene dunque rovesciato: il giudizio non è utile perché vero, ma vero perché è utile. I pragmatisti, quindi, operano la seguente inferenza logica: se ogni pensiero vero è utile, ogni pensiero utile è vero. Sennonché chiunque abbia una minima dimestichezza con la logica è in grado riconoscere il carattere fallace di tale inferenza, in quanto sa che la semplice conversione di un giudizio universale affermativo è inammissibile. 23 Del resto, l’esperienza insegna molto bene che anche giudizi falsi possono essere utili dal punto di vista dell’efficacia e dell’avviamento a un’azione capace di maturare certi effetti desiderati.

Secondo la concezione pragmatistica dell’utile, esso è ciò che serve a soddisfare i bisogni soggettivi di qualcuno. In questo senso, anche una credenza religiosa è vera, quando serve i bisogni di qualcuno. Il “successo pratico” non viene quindi inteso nel senso del verificarsi della previsione nella prassi: la definizione pragmatista di questo termine lo circoscrive infatti all’efficacia con cui l’interesse soggettivo è servito.

Di fronte alla palese insufficienza di questa concezione soggettivistica diventa lecito porsi la questione dello scopo per cui il pragmatismo ricorre a strumenti filosofici così grezzi: e la risposta, a questo punto, diventa possibile solo alla luce di un’analisi della genesi storica e della funzione sociale di questa filosofia in quanto forma specifica della reazione della borghesia monopolistica, in particolare americana, al materialismo dialettico e al movimento rivoluzionario. 24

 

7. Verità relative e verità assoluta

Per quanto le verità ottenute sul terreno della prassi della produzione, della prassi delle trasformazioni sociali e della prassi scientifica sperimentale, siano approssimate, in esse è pur contenuto un elemento di conoscenza assoluta, il che rende legittima la seguente domanda: in quale rapporto si trovano le verità relative con la verità assoluta?

È questo il problema che Engels intendeva porre quando negava ogni separazione insuperabile di verità relativa e verità assoluta, e mostrava, al contrario, che la verità assoluta sorge nel processo di accumulazione di sempre nuove verità relative, di penetrazione sempre più approfondita nella realtà stessa da parte della conoscenza umana. Questa dialettica dei rapporti tra verità relative e verità assoluta diventa quindi il problema centrale di una teoria che si proponga di analizzare il processo reale della verità. Termini opposti polarmente e reciprocamente esclusivi come “verità” ed “errore” possono avere un senso solo in rapporto a casi di verità assoluta, il cui campo è però assai ristretto. 25 Al di là di questo limite abbiamo a che fare con verità relative – verità approssimate, dove l’elemento del rispecchiamento della verità obiettiva si unisce a quello dell’errore: d’altra parte, il progresso della conoscenza si svolge proprio attraverso l’accumulazione e il perfezionamento di queste verità relative, l’eliminazione sempre più completa e mai totale degli errori presenti nelle nostre conoscenze.

Il relativismo e l’assolutismo, nonostante la loro differenza fondamentale, sono uniti su di un punto: l’atteggiamento metafisico rispetto al problema della verità e dell’errore. L’uno e l’altro non vedono alcun passaggio possibile tra la verità assoluta e la verità relativa; all’uno come all’altro è del tutto estraneo il pensiero di un processo del conoscere, che sia processo di passaggio dal non-sapere al sapere, 26 e quindi l’idea che «il pensiero umano», come scriveva Engels, «è sovrano e illimitato per la sua disposizione, la sua vocazione, la sua possibilità, la sua meta finale nella storia; non sovrano e limitato nella sua espressione singola e nella sua realtà di ogni momento». 27 Non solo sia l’assolutista che il relativista non vedono la relatività dell’errore, ma, quel che è più importante, sfugge loro la dinamica del conoscere fondata sulla diminuzione degli elementi di errore a vantaggio degli elementi di verità. Ma questa è proprio la questione centrale della conoscenza e, in particolare, della teoria della verità. E però, se si osserva bene, nella dinamica storica, scientifica e filosofica del conoscere perfino il platonismo viene ad essere inverato (ossia accolto parzialmente) nel materialismo dialettico, e senza più bisogno di mimesi o metessi o ‘koinonia’ tra la realtà sensibile e la realtà obiettiva ideale, perché quest’ultima cessa di apparire trascendente e precedente alla realtà sensibile, ma è fusa assolutamente nelle fondamenta “materiali” di essa. Non è certo però un caso che la scienza moderna galileiana, sperimentale (ma non grezzamente empiristica) sia nata storicamente dal conflitto epistemologico con l’aristotelismo, e si sia presentata assai più platonica che aristotelica. Sennonché occorre sottolineare che la stessa obiettività della scienza è fondata sulla intersoggettività pratica dei rapporti umani (è qui in gioco il fondamentale rapporto tra prassi della produzione, prassi delle trasformazioni sociali e prassi scientifica sperimentale) solo in quanto quest’ultima racchiude necessariamente in sé già il movimento verso la scoperta della oggettività del reale ed è, per così dire, orientata su di essa. Si spiega così perché la scienza, come aveva intuito Gramsci, si presenti oggi, attraverso il peso crescente che acquista nella vita sociale attraverso le molteplici applicazioni tecniche, quale uno dei più potenti fattori reali di unificazione della mentalità e della “cultura” umana. 28

Insomma, non vi è un limite invalicabile tra la verità assoluta e la verità relativa, allo stesso modo che non ve n’è uno tra la parte e il tutto. La verità assoluta (non nel senso della conoscenza parziale assolutamente vera, ma in quello della totalità della conoscenza, rispecchiamento della totalità del reale) sorge attraverso le verità relative, in ciascuna delle quali, a sua volta, è contenuto un frammento della verità assoluta. La dinamica della conoscenza consiste nel rapporto e nell’unione di entrambe.

La dialettica marxista non contesta certamente che la nostra conoscenza è spesso illusoria e irta di errori; ancor meno essa nega il postulato metodico dell’atteggiamento critico verso i risultati della conoscenza. È questo il momento dello scetticismo di cui già Hegel ha affermato che esso è compreso nella dialettica. Questo particolare momento scettico della dialettica, che nasce dall’opposizione alla fede dogmatica nell’immutabilità della conoscenza umana, non va confuso, come è chiaro, con lo scetticismo stricto sensu, allo stesso modo che la dialettica marxista, pur contenendo un momento relativistico, non è relativismo. In sé, la posizione del materialismo dialettico rappresenta una netta opposizione allo scetticismo, poiché una teoria che si colloca sul terreno della verità obiettiva non può essere scettica. Essa può riconoscere – e in effetti riconosce – che l’uomo può errare, che nella nostra conoscenza commettiamo errori, errori che il progresso del conoscere continuamente corregge: in una parola, che la conoscenza della verità è un processo. Ma non può riconoscere, e in effetti rifiuta, l’idea che non esista un criterio obiettivo della verità e una verità obiettiva, ossia la tesi scettica vera e propria. Tra questa tesi e la teoria della verità obiettiva non vi è nulla in comune.

Lo scetticismo nelle sue varie gradazioni (da quella apertamente nichilista a quella pittorescamente eclettica) è la forma alienata in cui si esprime la rinuncia, da parte della cultura borghese, alla ricerca della ricomposizione di una totalità andata in frantumi: esso procede da uno scacco della razionalità e conduce a un ulteriore scacco: la sua essenza profonda è infatti la negazione del valore conoscitivo della ragione e della prassi, la sua inevitabile conseguenza è il ritorno alla barbarie dell’irrazionalismo e dell’oscurantismo.

Ancora una volta si conferma che la verità è rivoluzionaria. Mentre lo scetticismo, forma di pensiero della borghesia reazionaria e delle sue propaggini revisioniste, rinuncia a conoscere la realtà e si limita a sommare, contrapporre e alternare le diverse risposte date a una medesima domanda, il marxismo, teoria scientifica della liberazione del proletariato e dell’intera umanità, conosce per ogni domanda soltanto una risposta: quella conforme alla realtà obiettiva.


Note
1 Pirandello [nota 1], Atto III, scena 9ª.
2 L. Pirandello, Così è (se vi pare), Mondadori, Segrate (MI) 2021.
3 Queste domande introducono una problematica di carattere filosofico che, per la sua portata e il suo spessore, va al di là della tradizionale interpretazione secondo cui Pirandello dà forma teatrale a quella che fu l’antica proposizione dei sofisti e degli scettici: non vi è realtà né verità fuori di noi; “essere” e “parere” sono la stessa cosa, poiché esiste solo ciò che noi crediamo e asseriamo che esista.
4 Per un approccio introduttivo all’idea di verità e alle essenziali questioni storiche e logiche poste in gioco da tale idea può offrire un utile sussidio la seguente presentazione:
https://www.sinistrainrete.info/libri/15876-galileo-roberto-e-la-verita.html%20.
5 De interpretatione, 17 a, 1-6.
6 Metaphysica, IX, 10, 1051 b.
7 È la seconda delle undici Tesi su Feuerbach in Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 188.
8 V. I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 139.
9 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Traduzione di Enrico De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1970, p.85.
10 L. Feuerbach, Kritik der hegelschen Philosophie, in Opere complete, vol. 9, Berlin 1970, pp. 45 e 44.
11 K. Marx, Opere cit., p. 189.
12 È da tenere presente che, cancellando questa irriducibilità del momento sensibile, il marxismo, nonostante il risalto dato alla “prassi”, può venir tradotto in idealismo speculativo, come ha fatto Giovanni Gentile, il quale ha tratto da ciò le conclusioni più conseguenti, identificando immediatamente teoria e prassi.
13 Si veda la nota 7.
14 L. Feuerbach, Princìpi della filosofia dell’avvenire, Orthotes, Napoli 2016, par. 27.
15 Si veda nel secondo paragrafo del presente elaborato la trattazione delle obiezioni idealistiche alla teoria classica della verità: obiezioni cui è sotteso, in modo più o meno esplicito, un assunto di carattere scettico, omologo a quello sfruttato da Pirandello nella commedia Così è, se vi pare.
16 Cfr. la prima delle Tesi su Feuerbach cit., p. 187.
17 Marx critica Feuerbach in quanto il materialismo elaborato da questo importante pensatore, nonostante i meriti umanistici e naturalistici che gli vanno riconosciuti, rientra in un atteggiamento contemplativo comune a tutti i filosofi di orientamento speculativo. Anche Feuerbach, infatti, «considera come veramente umano soltanto l’atteggiamento teoretico, mentre la prassi è concepita e fissata solo nel suo modo di apparire sordidamente giudaico» (è la prima delle Tesi su Feuerbach cit., pp. 187-188),
18 K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Marx-Engels, Opere scelte cit., p. 71. Ho decostruito l’uso revisionista di questa importante opera marxiana e cercato di definirne, alla luce del contesto odierno, una corretta interpretazione marxista-leninista nel seguente articolo: https://www.sinistrainrete.info/marxismo/22736-eros-barone-la-critica-marxiana-del-misticismo-logico-hegeliano-e-la-critica-antirevisionista-del-feticismo-democratico.html.
19 Così suona l’ultima delle undici Tesi su Feuerbach.
20 ‘Im Anfang war die Tat!’ (Goethe, Faust, parte Iª).
21 Cfr. sulla Rete al seguente indirizzo:
https://scintillaonlus.weebly.com/uploads/1/0/0/8/10087804/engels_evoluzione_socialismo.pdf.
22 Cfr. nel paragrafo 2 del presente articolo la fondamentale precisazione di Lenin riguardo all’estensione e ai limiti del criterio della prassi.
23 La conversione è un’operazione logica mediante la quale, rispettando determinate regole, si passa, ponendo il predicato al posto del soggetto e viceversa, da una proposizione ad un’altra proposizione logicamente equivalente. La conversione simplex di una proposizione universale affermativa, effettuata senza il mutamento della quantità della proposizione stessa, dà luogo infatti ad una proposizione falsa, come mostra il seguente esempio: “Tutti i cani sono animali” (A) --->“Tutti gli animali sono cani” (C). La conversa della proposizione (A) dev’essere allora (non simplex ma) per accidens: “Alcuni animali sono cani” (B). La conversione per accidens richiede dunque, per essere valida, un mutamento della quantità della proposizione (da universale affermativa a particolare affermativa).
24 Anche se il periodo di riferimento è il secondo dopoguerra, mantiene una piena validità, nella determinazione delle costanti e delle correlazioni che caratterizzano il pragmatismo in ordine al contesto filosofico in cui esso si inserisce, la ricognizione critica dell’irrazionalismo del dopoguerra effettuata da György Lukács nel Poscritto della Distruzione della ragione (trad. it. dell’opera Die Zerstörung der Vernunft, 1954), Einaudi, Torino 1970, pp. 772-861. Il tratto distintivo del periodo era, esattamente come si verifica oggi in una forma ancor più parossistica determinata dall’esiguità del campo socialista, dall’apatia di massa e da un periodo di prolungata reazione termidoriana, il passaggio della filosofia borghese dall’apologetica indiretta all’apologetica diretta del sistema capitalistico.
25 Per un approfondimento di questa cruciale tematica mi permetto di segnalare il seguente articolo: https://www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtml08-025588.htm.
26 Fondamentale è qui la concezione socratica del sapere di non sapere, che si sdoppia in un sapere ciò che non si sa (induzione concettuale) e in un non sapere ciò che si sa (deduzione concettuale), momenti entrambi riconducibili ad una visione dialettica, materialistica e prassistica dell’attività mentale. In altri termini, il sapere costa fatica (la hegeliana fatica del concetto!), ma è generoso con chi, riconoscendo la ricchezza e la fecondità della sua natura storico-sociale, non gli volta le spalle.
27 F. Engels, Anti-Dühring, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 83.
28 Ma si deve anche riconoscere che in Gramsci vi è la tendenza a identificare l’oggettivo con l’universalmente soggettivo (in senso storico-umano), e non a fondare il secondo sul primo (cfr., ad esempio, i Quaderni del carcere, vol. II, Einaudi, Torino 1975, pp. 1455-1457).
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Comments

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Giulio Bonali
Wednesday, 15 January 2025 08:05
Desidero ringraziare di cuore il compagno Eros Barone per questo splendido, lucidissimo, illuminante scritto, che mi ha finalmente fatto capire il materialismo dialettico dopo non poche letture e riflessioni (anche di classici come Engels e Lenin) che non mi erano state sufficienti in proposito (non per manchevolezze dei classici stessi ma per limiti di conoscenza miei personali)!
Rilevo un abissale differenza con uno scritto che circola molto più insistentemente in rete in questi giorni, ed é stato oggetto di parecchi commenti e perfino "metacommenti", intitolato Logica e dialettica e l' essere del nulla, che trovo invece molto approssimativo e ingenuamente semplicistico, al limite del puerile.
Fraintende fra l' altro completamente contraddizione logica, che non é affatto negata dal materialismo dialettico il quale non implica il rifiuto della logica formale, come qui perfettamente espresso da queste parole:

"In merito al giusto concetto della dialettica è poi doveroso ribadire che la scoperta delle antinomie che nascono sulla base di una determinata teoria deve condurre, o all’eliminazione delle antinomie mediante la correzione di errori concettuali che siano intervenuti nella elaborazione della teoria, o all’abbandono completo della teoria stessa. La “contraddizione dialettica” non ha qui nulla a che fare, e non vi è dubbio possibile sul fatto che una teoria internamente contraddittoria, intrinsecamente antinomica, è erronea e falsa. Il principio logico di non-contraddizione vale assolutamente anche per il materialismo dialettico, e la dialettica marxista non implica il rifiuto della logica formale. D’altronde, il problema del rapporto della dialettica con la logica formale è uno dei problemi centrali della dialettica marxista, e non è certo possibile affrontarlo in questa sede".
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