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Perchè la filosofia è necessaria

Recensione di un libro di J-F Lyotard.

Pierluigi Fagan

Il libricino uscito per i tipi di Cortina Editore nel 2013, riporta le quattro brevi conferenze che J.F.Lyotard tenne alla Sorbona nel 1964

PlatoneAristoteleBIl tempo, in filosofia, ha una suo proprio statuto. Esiste una filosofia della fascia esterna che è più o meno in sincronia col proprio tempo storico (“il proprio tempo appreso col pensiero” diceva Hegel) ma esiste anche una filosofia del nucleo interno dove l’unico tempo esistente è il -grande istante-, una sorta di presente dilatato. In questo presente che in parte è sempre già stato, ed in parte, da sempre ancora non è, le questioni non sono soggette alle categorie dell’attuale-inattuale, sono “senza tempo”[1]. La questione sul -a cosa serve la filosofia ?- è una di queste questioni atemporali. Lo statuto della filosofia, la natura del suo nucleo interno, ovvero essere riflessione sulla riflessione, è per sua stessa condizione staccata dal tempo poiché è consustanziale al suo essere in quanto essere, prima o al di là dell’ esistenza di questa o quella filosofia specifica.

Già Aristotele ci informava che a Mileto si riteneva ben stramba l’attitudine di Talete a perdersi in quella bizzarra attività che è la riflessione sulla riflessione ed addirittura le “servette tracie” ridevano del nostro che veniva trovato la mattina, intrappolato in profondi pozzi in cui si era calato la notte, senza saper più come risalirne. Questa del pozzo è una splendida metafora del rischio che corre il filosofo ma anche del senso della sua attività, migliore di quella della caverna platonica.

Talete si infilava nei pozzi perché solo da dentro un pozzo, guardando dentro la circonferenza soprastante che fissava una specifica porzione di cielo, poteva notte dopo notte, scoprire come si muoveva la volta celeste e si dipanava la danza delle costellazioni. Talete stesso ad un certo punto, infastidito da questo dileggio generalizzato fece una speculazione comprando uliveti con i quali produsse enormi quantità di olio, che rivendette poi a prezzi eccezionali  quando una tremenda siccità, che lui aveva potuto prevedere in base alle sue conoscenze di meteorologia, colpì la regione. Dimostrò alla cittadinanza che il suo sapere aveva pur una qualche utilità, solo che lui non era interessato a “quella” utilità. Forse la cittadinanza venne tacitata per un po’, ma non sono sicuro che abbia compreso da quale utilità più urgente, Talete fosse rapito. La domanda “a che serve la filosofia?”, la sua utilità intrinseca,  si ripropose e si ripropone di continuo, segno che il suo significato è davvero sfuggente. Anche per gli stessi filosofi, i quali sono spesso rapiti dai loro pozzi, felici di esserlo ma non sempre coscienti del perché lo sono e spesso del tutto impossibilitati ad uscirne.

Le quattro brevi puntate della conferenza di Lyotard sono gradevoli, dolcemente ispirate da un affetto profondo (philein) verso l’attività della riflessione sulla riflessione ed anche utili. Sono quattro riflessioni sulle quattro domande: cos’è filosofia? come e quando nasce? che rapporto ha con il suo strumento che è la parola? che rapporto ha con la sequenza pensare – dire – fare? . Lyotard ne consegue che la filosofia è una manifestazione del desiderio, un desiderio che si desidera, scaturisce d’impeto ogniqualvolta si perde l’unità dell’essere (quindi assai spesso, se non sempre), è sempre sovra o sotto determinata dallo statuto del suo strumento che è la parola solo che a differenza di altre forme di pensiero (ad esempio la scienza, la religione) lo sa, ne è consapevole. La quarta riflessione è quella che arriva al punto sollevato dalla domanda iniziale: a che serve tutto ciò? La domanda viene posta riflettendo sulla celebre undicesima tesi su Feuerbach di Marx che pone la necessità di connettere l’interpretazione del mondo (e dell’uomo che lo abita) con la attiva e cosciente trasformazione, dell’uno e dell’altro.

La tesi di Marx è stata di solito interpretata come una accusa (azione vs interpretazione), ma potrebbe anche esser assunta come una esortazione (una interpretazione che illumini l’azione). L’accusa mossa alla (a certa?) filosofia è quella del “sogno irrealisticamente cosciente”, in risposta ad una “…mancanza che si sperimenta nella realtà, dal fatto che il desiderio di altro, di una altra organizzazione delle relazioni tra gli uomini, che è in gestazione nella società, non arriva a liberarsi nelle vecchie forme sociali”. A questa mancanza che sobilla il desiderio, questo vuoto che chiama un riempimento, la filosofia ha di solito risposto con un altrove, un al di là che è la cifra della sua deriva metafisica.

I discorsi tanto più sono ampi, tanto più sono generici e non c’è modo di uscire da questa forma di indeterminazione. Questa “accusa” è infatti vera per certi versi e casi, meno vera per altri versi ed altrettanti casi. Platone, ad esempio,  è stato in filosofia generale certo il principe dei metafisici, ma in quella politica lo è stato assai meno di quanto si ritiene. La sua “Accademia” formava consiglieri politici che ebbero poi diverse esperienze concrete come per altro lo stesso Platone ebbe a Siracusa. Ma va segnalato anche che sono proprio i rapporti tra la metafisica e l’etica, la politica, la praxis, a poter esser letti sia come due mondi in reciproca fuga, ma anche in reciproca attrazione[2]. La natura di questo doppio movimento a rifuggersi ed ad attrarsi è data dal funzionamento proprio della mente umana che è precipuamente, il luogo fisico in cui si svolge il pensiero. Le menti bicamerali[3], quelle nelle quali prevale una certa scissura tra l’essere ed il dover-poter-voler essere saranno spinte verso la separazione dei mondi. Le menti iperconnesse, quelle nella quali prevale una certa intensità delle relazioni tra l’essere e il dover-poter-voler essere  saranno spinte verso la relazioni unificanti tra i mondi. E’ il come si gestisce mentalmente la relazione tra Io e Mondo,  a far la differenza.

Il metafisico Platone giunse molti secoli prima del realista Machiavelli a produrre la figura del “consigliere del Principe” ed anzi, ironia volle, che mentre il realista Machiavelli lo teorizzò ma non riuscì a praticarlo, il metafisico Platone lo teorizzò e lo praticò, lui e molti dei suoi allievi di scuola. Marx che sembra propendere per una guerra dei mondi in cui la fisica economico-politica dovrebbe soverchiare la metafisica ideologica[4] esprime comunque una preferenza metafisica ma il non esserne stato cosciente fino in fondo, non gli ha permesso di passare efficacemente dalla fase critica a quella costruttiva. Il suo pensiero concreto su una altra organizzazione dei rapporti tra gli uomini, infatti, non funzionò ove si provò ad applicarla e non funzionò perché non poteva funzionare, essendo l’applicazione di un costrutto metafisico (il momento del non essere hegeliano, interpretato dalla classe subalterna). Il che ci dice anche di un compito che, nei decenni di scolastica ripetizione salmodiante i versetti della religione del Libro (Il Capitale), è rimasto incompiuto. Il compito inconcluso è trovare quella strada, la strada che costruisce una nuova organizzazione sociale, perché l’istanza che portò a richiederne l’urgente prefigurazione è oggi non meno, ma più necessaria di quanto non fosse alla metà del XIX° secolo. Come si cambia il nostro modo di stare al mondo?

Uno dei non pochi momenti metafisici di Marx è nel concetto di rivoluzione. E’ proprio del pensiero filosofico come abbiamo visto in precedenza, avere una circonferenza esterna che prevede il tempo ed una interna in cui il tempo non esiste, è dilatato nel grande istante. E’ un apparente paradosso che il pensiero che più di ogni altro incluse il tempo (il grande spartito della Storia) nella sua analisi, nella sua circonferenza esterna, quella del pensiero applicato al Mondo com’è, lo cancellò nella sua strategia trasformativa, nel suo nucleo interno, lì dove si pensa a come trasformare il Mondo, il dover-poter-voler essere un altro Mondo. Se prendiamo il grande insegnamento sulla filosofia della storia che ci lasciò F. Braudel, se conveniamo che i fenomeni hanno gestazione e manifestazione progressiva nelle lunghe durate, più lunghe tanto più è complesso il sistema, quanto più è profonda la trasformazione, non si capisce per quale ragione, per quale natura delle trasformazioni e delle cose che si trasformano, i cambiamenti in prospettiva dovrebbero o potrebbero esser repentini. In fondo quello stesso oggetto che osserviamo nel passato è lo stesso di cui vorremmo manipolare il futuro.

A dire che se una cosa “relativamente semplice” come la sostituzione nella logica delle élite, di una élite terriero – ereditaria medioevale (l’aristocrazia) con una produttiva moderna (la borghesia), prese circa quattro/cinque secoli di tempo storico per compiersi, non si capisce in base a quale razionalità, la cessazione della plurimillenaria dominazione dei Pochi su i Molti, dell’uomo sull’uomo, potrebbe avvenire con una “rivoluzione”. Come la trasformazione di una cosa semplice impieghi tanto tempo ed una complessa invece sia possibile in un istante non si comprende se non in quella sfera del pensiero che non ha il tempo nelle sue coordinate, che non ha l’inerzia, l’attrito, la dialettica tra ordine e disordine, tra individuo e gruppo umano, tra autonomia ed eteronomia all’interno dell’individuo stesso che non è solo il riflesso delle condizioni sociali di produzione.

Va certo detto che è la stessa logica delle trasformazioni, se letta con un occhio aperto ed uno chiuso, che trae in inganno. Certo, un momento prima l’acqua è liquida ed un momento dopo è solida quando ghiaccia, un momento prima l’acqua è nel bicchiere tremolando sull’orlo e basta una ulteriore goccia, come si dice, a far traboccare il vaso. Ma se oltre all’occhio fisso e spalancato sul momento dell’atto, si apre anche quello che vaga fuori fuoco su i processi, ci si accorgerà che ci troviamo sulla pericolante piattaforma delle analogie e le analogie sono strumenti insidiosi; si pensa di possederli ma spesso ti possiedono loro e ti portano dove vogliono loro. L’acqua non si ghiaccia mai tutta in una volta, ha impiegato tempo l’aria a raffreddarsi ed a scambiare termodinamica di sempre maggiori gradi di freddo tra i suoi fluidi e quelli dell’acqua, ha impiegato tempo il bicchiere a riempirsi e comunque far tracimare un bicchiere non è costruirne uno più grande in cui tutte le gocce possano star comode.  Insomma, le cose complesse possono impiegare anche poco tempo a implodere nella loro struttura (vedi Impero romano), ma impiegano moltissimo tempo a trasformarsi in altra cosa (vedi il passaggio da Medioevo e Modernità).

Inoltre, ci sono trasformazioni più semplici di altre, cambiare la struttura di una élite è assai più semplice che rinunciare al concetto stesso di élite che governa le società complesse da quando queste si sono formate, a partire da ottomila anni fa.  Forse la faccenda del dominio e sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che non è certo nato con la borghesia, merita qualche approfondimento in più che non la meccanica newtoniana della dittatura del proletariato. Come si possa conseguire una consapevole strategia trasformativa  dei modi con cui gli uomini organizzano la loro vita sociale, facendo a meno dell’illusionismo rivoluzionario e del soggetto salvifico è salire sulle spalle di un gigante che vide molto, ma pur sempre entro l’orizzonte dei luoghi e degli eventi del “pozzo” nel quale era calato. E’ continuare a cercare ciò che ancora non ci è ben chiaro, chiaro al punto da segnare una svolta in questa millenaria storia della difficile emancipazione dalla forma sociale ordinata da una qualche gerarchia umana.

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Riprendendo Lyotard e le sue conferenze, il francese connette la filosofia che aspira ad un cambiamento che non si può ancora storicamente produrre all’idea di Freud della difficile relazione tra libido e realtà. Qui, come lì, il desiderio di una realtà che non è e non può ancora essere, produce una fantasticheria che possiamo chiamare nevrosi o ideologia. Sarebbe questa la natura desiderante che alberga, talvolta, nel fondo filosofico. Rimane l’equivoco se quella relazione oppositiva dell’undicesima tesi sia una condanna o un richiamo, se il “cambiare il mondo” possa fare a meno della filosofia per ricorrere a chissà quale altra forma di prefigurazione nel pensiero della condotta trasformativa senza la quale non si vede proprio come esseri autocoscienti possano agire costruttivamente sulla realtà. Una filosofia della prassi sollecita a superare il bicameralismo dualistico tra pensiero ed azione trasformativa, non a sopprimere il pensiero con una prassi non si vede come e da chi ordinata.

L’equivoco che a lungo è stato interpretato come una condanna marxiana all’impotenza ed alla falsa coscienza della filosofia in quanto tale, forse andrebbe rivolta in altro senso, nel senso dell’esortazione, l’esortazione ad un filosofia realista e costruttiva. Lyotard precisa che l’azione trasformatrice “…non può fare a meno di una “teoria” nel vero senso del termine, ossia ad una parola che si arrischia a dire “ecco cosa succede, ecco come vanno le cose” e per questo fatto solo comincia ad organizzare almeno nel discorso queste “cose”; di una parola che desidera davvero il desiderio ella realtà, o che desidera con lo stesso desiderio della realtà”. Mi preme sottolineare due parole: teoria e realtà. A me sembra che le varie e disgregate forze di coloro che vorrebbero cambiare i modi con cui gli uomini organizzano le loro relazioni sociali, abbiano perso confidenza con entrambe: la teoria e la realtà.

Con la teoria perché è una nebulosa indistinta dei discorsi quella che copre il vuoto lasciato dal concetto di rivoluzione. Razionalmente non ci crede più nessuno, nessuno crede sia oggi possibile, nessuno crede serva veramente a qualcosa anche lo fosse. E del resto, cambiare l’inerzia millenaria dell’uomo che sfrutta e domina l’uomo a botte di elezioni rappresentative una volta ogni cinque anni è una marcia troppo lunga condotta troppo lentamente, condotta con il fatidico un passo in avanti e due indietro, un falso movimento per dirla alla Wenders. Allora? Cosa dice la nostra teoria trasformativa a riguardo? Trovando opposizione nella realtà, il contro movimento è quello della nevrosi critica. Si pensa, come pensa la mosca che sbatte tutto il pomeriggio contro il vetro che la separa dalla perduta libertà, che a furia di decostruzioni, critica, svelamento, dissezioni, denunce, analisi, generosa diffusione della presa di coscienza di cosa c’è dietro la narrazione del capitalismo, chissà, qualcosa avverrà. Si è persa la rivoluzione ma è rimasto in primo ed unico piano la mistica del conflitto, più parlato che agito. Qui allora interviene la perdita del senso di realtà. La realtà è complessa e gli uomini e le donne vivono in questa complessità. Nessuno è pronto a rinunciare alle strutture che ordinano il proprio mondo per un salto nel vuoto, non è vero che oggi c’è chi ha da perdere solo le proprie catene, dire questo è irrealistico, è il vaneggiamento di qualche intellettuale per altro stipendiato da qualche università borghese che nevroticamente, riduce il mondo a discorso e pretende poi anche di trasformarlo, sempre utilizzando sempre e solo il discorso. Il momento del non essere è necessario, ma non garantisce il passaggio automatico a qualcosa d’altro e soprattutto non garantisce assolutamente che il qualcos’altro sia il mondo che vogliamo. La dialettica hegeliana è ancora una interpretazione, non un paradigma che può realisticamente, guidare una trasformazione.

Di contro, non si può far affidamento neanche sulle stagioni ovvero la bizzarra idea di nuovo hegeliana, che vi sia un corso naturale dell’incedere storico per cui, al momento giusto, il gustoso frutto de “ad ognuno secondo i propri bisogni, da ognuno secondo le proprie possibilità”, cadrà maturo nel nostro grembo, come la mela cadde davanti a Newton.

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Lyotard conclude la sua riflessione che noi qui abbiamo più usato a tratti che non diligentemente riferito[5], dicendo che la filosofia non dà alcuna certezza ma solo una possibilità che però è l’unica a poter dare: la possibilità di dare le parole al desiderio. In maniera assai meno poetica, a noi sembra che la filosofia, almeno certa filosofia poiché la famiglia è grande e non è neanche giusto presupporre vi sia una totale comunione d’intenti, dovrebbe riprendere ad interrogarsi. Il Mondo ha le doglie e grandi trasformazioni sembrano annunciarsi, anzi molte sono già in atto.

Nel mondo occidentale c’è e ci sarà sempre meno lavoro, forse dovremmo ripensare al fatto che solo il lavoro salariato sia alienante, forse è il lavoro per quanto necessario ma in quanto tale, ad esser una alienazione dal sé umano. Meglio se si riduce, meglio se si contrae, meglio se si diversifica lasciandoci pari peso tra le incombenze materiali e quelle intellettuali poiché solo tutte le une o solo tutte le altre, separano il nostro essere in maniera innaturale. Dovremmo allora rivendicare reddito e servizi gratuiti piuttosto che difendere l’indifendibile, che a ben vedere, sono poi i veri ceppi delle nostre catene. Del resto per trasformare noi ed il mondo occorre tempo, sia tempo di prospettiva (che c’impone di sacrificare l’idea di stare magicamente bene con quella più concreta di stare progressivamente meglio) per compiere lunghi processi, sia tempo per studiare, leggere, capire, discutere, parlarci, decidere e poi tornare indietro e cambiare idea. La riduzione del lavoro libera tempo e se ci occupiamo disgiuntamente del reddito, sarà anche un bene.

Ci sono le questioni dei limiti ambientali e demografici, sintomi di collisioni tra enormi blocchi di realtà concreta che molti ancora rifiutano come pozzi ideologici avvelenati dal nemico per distoglierci dalla legittima lotta di classe che, unica, ci condurrà alla terra promessa. Una dogmatica che nevroticamente rifiuta la realtà più evidente. C’è il disordine del mondo tra competitors geopolitici che interessa solo uno sparuto gruppetto di allarmati che i più ritengono esotici ministri degli esteri da relegare nelle pagine finali (poco prima dello sport o forse dopo) del giornale della nostra attenzione. C’è l’irrisolta questione delle procedure trasformative. Va bene lottare contro, resistere sempre, ovunque, mettere i bastoni tra le ruote, ma urge una strategia costruttiva, qualcosa per cui batterci, un progetto ideale-reale, qualcosa che come nell’evoluzione darwiniana serva ad ogni stadio in cui si troverà, ma che s’incammini anche su una strada di lunga durata, una trasformazione che per esser veramente tale, dovrà continuare per secoli, se basteranno. Battersi per una vera demo-crazia ad esempio, non quella delle élite che ci chiedono di esser votate una volta ogni cinque anni ma quella per la quale, ogni giorno, in ogni pezzo del nostro essere al mondo, io decido con te cosa fare, quando, come e perché farlo, essendo però in grado di partecipare a questo tipo di decisione permanente, essendo cioè in grado di partecipare davvero alla gestione dell’Intero, sia perché ne ho lo spazio, sia perché ne ho il tempo, sia perché ne ho la competenza. Per trasformare il mondo occorre pur sapere dove metter le mani prima di far danni e per saperlo occorre prima il pensiero e il pensiero consuma tempo.

La filosofia è necessaria perché l’uomo è un animale autocosciente che dovrebbe sempre più pensare prima di fare ed il pensiero che pensa se stesso è il culmine dell’essere propriamente umani. Ma a questa necessità del nucleo interno, quello senza tempo, oggi si aggancia anche la stretta urgenza di quella circonferenza che è addentellata alle ruote del mondo che cambia. Il mondo cambia sempre, ma in alcuni tempi cambia più profondamente e più rapidamente. Oggi siamo in quel tempo. Sapere dove si vuol portare questo cambiamento, quali parole dare al desiderio mai concluso di migliorare la nostra umana condizione, quale teoria che immagini quale realtà è possibile e come rendere questo possibile un probabile è una ragione in più per quella necessità. Il fatto che le strutture e le mentalità che ordinano questa fase del mondo, ritengano la filosofia una attività al limite o oltre il limite del consentito dal paradigma dell’utile, una ragione ulteriore che rende la filosofia una necessità addirittura impellente.

Comprendere i tempi in cui siamo capitati e quanto tempo abbiamo e ci è necessario, per trasformare il mondo che si gonfia sempre più di complessità accelerando costantemente la sua dinamica, il primo argomento da porre, d’accapo,  alla nostra riflessione. Lyotard ricorda che Husserl diceva che il filosofo è un eterno principiante. Abbiamo urgente bisogno di nuovi princìpi che ci permettano di vivere senza più prìncipi.

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1 In effetti non è del tutto vero che siano senza tempo in senso assoluto. Hanno un tempo, sono cioè soggette alla storia, ma ad un girone del divenire che procede molto lentamente, tanto da dar l’impressione di esser praticamente fermo. Alcune questioni della filosofia greca antica, dei cosiddetti pre-socratici in particolare, appartengono a questo girone per cui sono “sempre presenti”.
2 Hobbes scrisse per esortare a non perdere l’unità senza la quale pensava che l’Inghilterra sarebbe sprofondata nella sua natura di tribù barbare (sassoni) in continua guerra reciproca, si era nei pressi della Guerra civile. Locke scrisse praticamente su commissione i due trattati per giustificare ex-post la cosiddetta “Gloriosa rivoluzione” e per inserire nel diritto di natura hobbesiano, la proprietà privata nell’interesse della nuove élite di potere. Rousseau scrisse anticipando nella riflessione, le doglie che porteranno alla Rivoluzione francese. Hegel scrisse per esortare con le parole ed i ragionamenti, a quella unità della frammentata Germania che vedeva come necessaria al compimento dell’evoluzione dello Spirito assoluto nella storia. Marx scrisse per dare il quadro delle giustificazioni razionali al movimento sociale e politico che si stava ponendo in contraddizione al compimento della Rivoluzione industriale guidata dalla nuova classe di potere. Ognuno di loro offrì idee, ragionamenti, parole che dessero ordine e ragione all’azione politica, ognuno di loro portò il proprio contributo al cambiamento del mondo. Non diversamente da ciò che avevano fatto Machiavelli e Platone prima di loro.
3 L’espressione “menti bicamerali” allude alle ipotesi che J. Jaynes svolge nel suo “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza” (Adelphi, Milano, 1984). Dell’ipotesi di Jaynes si possono dare letture “forti” quale quella che predilige l’autore, ma anche letture “deboli”. Queste seconde si limitano ad osservare che effettivamente, alcune menti tendono ad ipostatizzare in dualismi quello che avviene nel pensiero prodotto da un cervello unico come se l’autocoscienza leggesse come due cose distinte ciò che è relazione tra due parti di una stessa cosa.
4 Difetto tipico di tutti gli innamorati del solo momento del conflitto dialettico quello del pensare che la trasformazione avviene per dominio invertito di un mondo sull’altro, che il contrario del dominio di A su B è il B su A e non invece la relazione, il non-dominio, il dominio alternato, il sistema binario, l’endosimbiosi, l’iperconnesisone, la dipendenza reciproca accettata, consapevole e riconosciuta, ma relativizzata e compensata altrimenti.
5 Per una recensione più attinente al testo originario: http://www.recensionifilosofiche.info/2014/04/lyotard-jean-francois-perche-la.html

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