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il rasoio di occam

Teoria della “crisi”. Un’analisi filosofica

di Elio Franzini

In un tempo in cui la parola “crisi” è tra le più presenti nel nostro vocabolario quotidiano, era necessario che la riflessione filosofica contemporanea più avvertita ne affrontasse i caratteri di fondo. Elio Franzini, nel volume “Filosofia della crisi”, propone una rigorosa analisi sulle linee di sviluppo del concetto di “crisi”, nel suo rapporto con la verità e con alcune articolazioni del pensiero, restituendogli un senso più profondo. Proponiamo ai nostri lettori la Premessa del libro, pubblicato da Guerini, ringraziando l’editore per la gentile concessione

iStock Disperazione Spiritualità Religioni e filosofie Inseguimento CristianesimoDifficile ignorare, in avvio, che questo libro appare, pur se concepito con altro scopo, in un momento in cui abbondano le riflessioni dei filosofi su se stessi e, di conseguenza, sulla filosofia. È questo il segno di una crisi, che periodicamente si rinnova, e che assale quando a una funzione «tradizionale», che si svolge in prevalenza nelle università e nell’editoria specialistica, se ne affianca un’altra, che cerca la sua visibilità sulle pagine culturali dei giornali, nell’universo sempre più ampio dei «media». Non è una tendenza nuova dal momento che ne parlava anche Leopardi, criticando la filosofia dei gazzettieri: ma si è ingigantita negli ultimi cinquant’anni sino a creare quasi una dicotomia sociale, tra ciò che è chiuso in un ambiente ristretto e ciò che, invece, affronta la vita, con differenze di linguaggio che non possono non incidere sulla tradizione e sulla storia.

Tutto ciò che segnala una crisi del proprio orizzonte di ricerca non può essere ignorato: ma, tuttavia, neppure enfatizzato, dal momento che solo di enfasi vive. Incarna, molto semplicemente, un’esigenza sempre più forte di divulgazione, che a volte sfiora la banalizzazione, l’eccitazione per il «nuovo», sia esso un paradigma, un «ismo», un metodo, un nesso con altre discipline, un prefisso, un suffisso e via dicendo. Un’esigenza generata certo dalla diffusione della comunicazione e dei mezzi di trasmissione del sapere, ma che, tuttavia, non muta i termini generali in cui si muove la disciplina. Nella filosofia non esiste un vero e proprio «progresso»: la storicità di «nuovi» elementi di pensiero non supera né annulla i precedenti. Con essi, piuttosto, si stratifica, aprendo punti di vista diversi su problemi antichi, che spesso ne ricalcano altri, semplicemente ignorati, dimenticati o sconosciuti a chi scrive.

In sintesi: la filosofia è costituita da «punti di vista» e dunque poco importa se essi trovano spazio in un’aula o su un quotidiano, su un social media o in un blog, dal momento che la funzione della filosofia è, è sempre stata, sociale, pubblica, politica, intersoggettiva. Il male eventuale non è generato dal «mezzo» che accoglie le riflessioni dei filosofi, bensì dalla loro volontà, spesso narcisistica, di semplificare quel che non solo è complesso, ma anche storicamente articolato e stratificato. Di fronte alle semplificazioni, sorge così l’esigenza di un’interrogazione critica sui propri strumenti e sulla propria «ragione»: nell’orgia di «ismi» e di divulgazioni enfatiche, va forse tentata, se non altro per cercare di descrivere sia la complessità delle teorie sia, in esse, l’unitarietà possibile di una riflessione. In un’epoca in cui la socialità mediatica spinge alla contrapposizione categorica, va preferita la ricerca dei problemi comuni, al di qua dei metodi espositivi, che nelle differenti tradizioni locali si sono instaurati e perpetuati.

Alla ricerca di questi problemi si può rovesciare un paradigma che per molti anni ha parlato di crisi della ragione e della filosofia. Ragione e filosofia hanno invece la funzione storica di affrontare

la crisi, descrivendone non gli aspetti contingenti, bensì le linee essenziali, le condizioni di possibilità. Si analizzeranno qui i vari (e contraddittori) significati che il termine crisi ha rivestito nella storia del pensiero e le relative implicazioni teoriche. È tuttavia necessaria una premessa, che non chiude gli occhi di fronte all’attualità: la crisi sorge nel momento in cui un modello, prevalendo sugli altri, li prevarica e mira alla loro soppressione, spingendo verso quello che recentemente, con linguaggio heideggeriano, è stato chiamato il loro «autoannientamento». È stato imposto nel mondo occidentale, e all’Europa in particolare, un «pensiero unico», un modello di sviluppo, non solo economico, che si è rivelato subdolamente, e pervasivamente, autoritario: modello che ha ucciso la ricerca del senso come pluralità di punti di vista possibili, che ha colto la crisi solo come incombenza da superare uccidendo la varietà e le differenze. Si è con ciò implicitamente rinunciato (come già altre volte è accaduto nella recente storia europea) a un modello illuministico, che alla pluralità coniuga la ricerca di una fondazione comune, tendendo verso un percorso condiviso. Si è stati costretti ad aderire a un subdolo autoannientamento delle differenze, assumendo la crisi come male assoluto, per sconfiggere la quale era lecito distruggere stili culturali diversi, modi diversi di guardare il senso delle cose. In tal modo è andato scomparendo il significato dialogico possibile della crisi, la sua capacità di essere fonte di giudizio, di consapevolezza che, come avrebbe detto Diderot, solo esercitando la pluralità dei modi della ragione è possibile moltiplicare i punti di luce sul terreno. Non si tratta di avere nostalgia nei confronti dell’illuminismo, ma di assumerne quell’istanza perduta, dove la filosofia ha lo scopo di mostrare nella crisi il senso della ragione e dei suoi stili.

Senza dubbio nella nostra modernità autori come Nietzsche e Heidegger hanno mostrato, come sottolinea Vattimo, che di fronte all’eredità del pensiero europeo, e all’illuminismo in prima istanza, non ci si può limitare a proporne il «superamento critico» perché ciò significherebbe «rimanere ancora prigionieri della logica di sviluppo propria di questo stesso pensiero»[1]. Uscire da un atteggiamento finalistico o restaurativo significa tuttavia constatare che la crisi, economica e sociale in primo luogo, o culturale in genere, si è trasformata in un’arma che abbatte sia lo stile della ragione e dei suoi fondamenti sia un pensiero plurale e debole, annullando il percorso che tendeva a costruire una complessa fenomenologia dello spirito del nostro tempo. Finalismo storicistico o post-storica fine della storia si infrangono entrambi su un riduzionismo fattualista che rende sia moderno sia postmoderno dei percorsi incompiuti. Recuperare allora un altro senso della crisi può portare di fronte a domande che, pur originando risposte diverse, rivendicano ancora l’esigenza di un’interrogazione radicale, esigenza che sembra ormai cancellata.

Questo è forse un compito impossibile, che se vuole trovare una sua strada, può soltanto guardare alle questioni che hanno attraversato la sua storia, in particolare moderna e contemporanea. La filosofia, infatti, piaccia o meno ai cultori del teoreticismo puro, è una disciplina storica: non vi è nulla di eterno in essa dal momento che i concetti che la costituiscono si sono formati nel tempo e attraverso il tempo. Neppure le nozioni di logos e di episteme, di ragione e di scienza, sono sempre state uguali a se stesse, al di là dei miti delle origini. E tutto ciò che è storico può essere, per sua stessa natura, messo in discussione, argomentato, criticato.

Non per tale motivo, tuttavia, deve venire catturato dallo scetticismo o dal relativismo. I concetti, infatti, non si riferiscono a se stessi – non dovrebbero – bensì alle cose, al mondo, al mondo della nostra vita: qui sono radicati e da qui prende avvio la loro genesi storica.

Una genesi articolata, si è detto, quasi inafferrabile dalla nascita nell’antichità greca sino a oggi, ma che possiede alcuni punti fermi: la filosofia ha uno stile, che è qualcosa di più di un metodo; la filosofia ha un significato, che è qualcosa di più delle sue articolazioni. Stile è, per riprendere una definizione di Goethe, una caratteristica, intrinseca sia ai metodi sia agli oggetti, che scava nei fondamenti più profondi della conoscenza, andando alla ricerca dell’essenza delle cose, che sono figure visibili e tangibili. Le cose hanno un significato inseparabile dal nostro sguardo: la filosofia cerca il significato dei vari modi con cui esse si esprimono, costruendo percorsi dove i concetti sono i momenti costitutivi nella verità di un campo di ricerca. Gli oggetti non sono i loro significati, anche se loro tramite sono conosciuti, appresi, tematizzati: il significato «si riferisce» a un oggetto, ma certo non si identifica con esso. Un oggetto ha una pluralità di significati possibili: indagarli, interrogarli è lo stile della ricerca, il suo modo di chiarificare, cercandone l’essenza, i concetti intorno ai quali, in questa interrogazione, si è storicamente formata la filosofia.

Il sigillo del rapporto tra stile e significato viene dunque qui letto nell’ambito di una situazione di crisi. La filosofia non si interroga sulla propria crisi, ma, dal momento che essa si radica nelle cose stesse, nelle vicende del mondo, riflette sulla crisi che ci circonda, nei vari sensi che questo termine ha assunto. Ne è nota l’ambiguità, che l’etimologia non aiuta a sciogliere: crisi deriva dal verbo greco «krino», cioè separare, e ha un’origine «agraria», legata alla trebbiatura e alla raccolta del grano, al momento in cui si divide la granella del frumento dalle scorie. È un separare «analitico», finalizzato a mantenere la «parte buona» del raccolto: implica la capacità di giudicare. La fortuna del termine avviene tuttavia in campo medico: è, nel bene e nel male, il momento decisivo di una malattia, punto culminale di un percorso che ne differenzia le fasi. Da questa definizione medica deriva quella sociale e filosofica, segnando una situazione di turbamento, che si estende ai vari livelli della vita, coinvolgendo anche quelli economici e finanziari. Il passaggio alla filosofia, che appartiene in gran parte al periodo che va dal Settecento al Novecento, porta con sé, non sempre consapevolmente, l’intera storia del termine, e dunque la sua ambivalenza: da un lato è un «separare», che impone un atteggiamento analitico che osserva il significato delle varie parti giudicandone senso e valore; dall’altro è il turbamento che uno stato di scissione e di incertezza può generare. Il giudizio, la sua storia, i suoi tormenti e le sue aporie, divengono progressivamente i principali temi di riferimento della filosofia moderna e contemporanea, delineandone stile e significato: la crisi è un orizzonte sempre più pervasivo ed esplicito.

I concetti hanno, come si diceva, uno svolgimento storico e ogni epoca ha generato, o risemantizzato, concetti nuovi, che la caratterizzano, articolandone il pensiero. Seguire dunque, a partire dalla nozione di crisi, alcune tra queste articolazioni è lo scopo del libro, che vuole proporre un percorso all’interno della filosofia della nostra modernità, recuperandone quell’istanza critica che indaga le dinamiche stratificate della vita e delle sue forme. Un atteggiamento critico, cioè una tematizzazione della crisi, ha qui la funzione di delineare il concetto di ragione come strumento essenziale per il pensiero, garantendo molteplici articolazioni possibili. Una ragione che non è vuota e astratta, né un feticcio da decostruire, e con buone ragioni, bensì esercizio che si manifesta attraverso giudizi, correlati a rappresentazioni sensibili. Un pensiero critico si esprime elaborando concetti che manifestano i loro significati attraverso nessi tra cose e idee, che si rincorrono vicendevolmente in un reciproco e costante processo di simbolizzazione. Deve dunque descrivere, in prima istanza, la propria stessa funzione, seguire le proprie essenziali articolazioni, cercando forme concettuali a partire dalle quali si possa ipotizzare un percorso fondativo, dove l’essere delle cose si inserisce in un orizzonte razionale.

Tale orizzonte non è tuttavia sempre trasparente a se stesso: l’idea di crisi è anche pervasa dal senso della frattura, come se la nostra terra del tramonto, l’Occidente, ne incarnasse l’ambiguità di significato. Da un lato, come si è detto, è «separatezza», scissione, frattura, dall’altro è tentativo di dominare tale stato con il giudizio, il «criticare», la potenza analitica del pensiero. Questo libro intende allora cercare una via simbolica per riunificare, senza distruggerne i significati, queste componenti: mantenere la linea di divisione tra una crisi che spezza e una che permette di ricostruire non significa interrompere la ricerca dei presupposti e dei motivi che hanno storicamente lavorato per una loro ricomposizione.

Si è peraltro consapevoli che, come afferma Emanuele Severino, una semplice «fenomenologia» della crisi non risolve le questioni (storiche e teoriche) che la crisi apre: un piano esclusivamente descrittivo non può andare disgiunto dal senso di un fondamento e dalle sue stesse aporie. La crisi non è un concetto che si possa assumere come se fosse un elemento caratteristico della sola modernità, comprensibile in una sua ermeneutica: è invece un punto inseparabile dal pensiero occidentale e dalla sua struttura epistemologica, dalla crisi della metafisica che nasce con la metafisica stessa. È nel concetto di divenire, nella nozione di tempo che informa di sé le dottrine dell’esperienza e della conoscenza: «il divenire, inteso in termini di avvento e di ritorno nel nulla, è l’estremamente angosciante»[2].

Anche se non se ne seguono gli esiti teorici, questo monito non deve essere ignorato: le cose, che provengono dal nulla e nel nulla possono ritornare, generano al tempo stesso terrore e volontà di dominio, che sono peraltro i correlati del significato della crisi stessa. Di fronte alla separazione, alle sue incertezze, appunto alla crisi, si cerca la conoscenza, la scienza, l’assolutamente innegabile. Per cui oggi che le certezze epistemologiche, con le loro ideologie, sembrano sfumare, la crisi non solo non è il trionfo della contingenza e delle sue dinamiche moderne o postmoderne, bensì si presenta in primo luogo come crisi del rimedio, cioè crisi dell’episteme: «perché, se l’angoscia estrema per il nulla deve essere gettata via dalla mente per poter sopravvivere, allora è necessario che l’atto del gettarla via non sia un sapere incerto, dubitabile, opinabile, ipotetico, mitico-religioso, immaginifico, arbitrario, ma un sapere che sta, fermo, inamovibile, e che non si lascia smentire» [3].

L’episteme è un fondamento che va in crisi se si pone tragicamente di fronte alla separatezza delle sue origini, va in crisi come rimedio all’angoscia, come strada per trovare risposte che abbiano il crisma dell’indubitabile. Se si vogliono cercare le cause di tale crisi non si può dunque, al di là delle diagnosi, negare che il valore assoluto dato all’episteme (e alla tecnica) come farmaco e via d’uscita si frantuma nella sua presunta immutabilità nel momento stesso in cui viene messo in discussione: e questa frantumazione è un dato sociale (economico, politico, religioso, non solo filosofico) che fa parte dell’esperienza quotidiana. La scienza, la tecnica, come ha compreso Husserl, si presentano come rimedi per uscire dalla crisi, ma ignorano che ne sono parte integrante: ignorano, nell’elogio del fatto, nelle astuzie della tecnica, il senso del loro statuto ontologico. La genesi di tale statuto può essere descritta in vari modi, e condurre a esiti diversi, ma non può essere ignorata: ormai, infatti, è difficile «credere» nel potere salvifico dell’episteme e delle sue moderne formule dottrinarie, nella sua stabile verità, che è storicamente decaduta proprio per incapacità di vedere i suoi fondamenti stabili, di risalire criticamente alla loro origine.

Riconoscere questa crisi non significa indicare strade per uscirne, bensì guardare in volto proprio il senso e la genesi di questo «rimedio mancato» – l’episteme, il divenire, la tecnica – cercando, al di fuori di una sua assolutizzazione, un’operatività della ragione, quella possibilità in cui essa rivela, come avrebbe detto Husserl, i suoi «presupposti inespressi», dei quali andranno qui cercati i motivi, cogliendo nella crisi, nella sua duplicità, e nelle sue ambiguità, il senso simbolico, la verità e la metafisica, di quel percorso plurimo e contraddittorio che è stato chiamato «ragione occidentale».

Nel 1953, introducendo il corso al College de France, dal titolo «Mondo sensibile e mondo dell’espressione», Merleau-Ponty ne delineò lo scopo generale, definendone i temi. In primo luogo, dunque, il mondo sensibile, le «cose». Poi il mondo dell’espressione, cioè le cose culturali, gli oggetti d’uso, i simboli. Esplicitando questa analisi si sviluppa una «teoria concreta dello spirito», il cui fine è quello stesso della filosofia: «ristabilire l’unità e nello stesso tempo la differenza del mondo percepito e del mondo intellegibile attraverso una ridefinizione della coscienza e del senso»[4]. In questa ridefinizione non si deve solo parlare dei luoghi della confusione, «ma anche della regione delle questioni fondamentali, delle questioni di principio»: «di questioni che vengono per prime, e proprio per questo possono essere dette questioni ultime»[5]. Questioni che non devono portare in cime tempestose, ma guardare alle cose che sono intorno a noi, alle loro intrinseche possibilità, alle immagini con cui si presentano: guardare al loro senso metafisico, dove metafisica è «tacita esortazione» e «profonda saggezza»[6].

Seguendo questa indicazione, il libro si divide in tre parti. Analizza in primo luogo il senso di un discorso filosofico nella crisi della ragione e della nostra stessa modernità. Esamina poi alcune funzioni essenziali della filosofia così come si sono storicamente delineate nella genesi dei suoi significati spirituali. Infine, si concentra sulle questioni fondamentali, scavando nell’orizzonte veritativo in cui la filosofia si pone. Un percorso unitario, che vuole essere un punto di vista per orientarsi nel pensiero e nella crisi in cui si forma e rinnova.

* Docente di Estetica alla Statale di Milano - Presidente della Società Italiana d’Estetica (SIE). Tra le sue ultime pubblicazioni: Elogio dell’Illuminismo (2009), La rappresentazione dello spazio (2011), Introduzione all’estetica (2012). Per Guerini ha pubblicato Le leggi del cielo (1990); Metafora mimesi morfogenesi progetto (con E. D’Alfonso, 1991); Stile (con V. Ugo, 1997); Estetica e filosofia dell’arte (1999); Non sparate sull’umanista (con A. Banfi e P. Galimberti, 2014); ha curato Costellazioni estetiche (con P. D’Angelo, G. Lombardo, S. Tedesco, 2014). Ha curato inoltre la traduzione italiana di All’inizio era la favola di Paul Valéry.
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NOTE
[1]G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, p. 10.
[2]E. Severino, Crisi della tradizione occidentale, Marinotti, Milano 1999, p. 45.
[3]Ibid., p. 48.
[4]M. Merleau-Ponty, Le monde sensible e le monde de l’expression. Cours au Collège de France, 1953, a cura di E. de Saint Aubert e S. Kristensen, MetisPresses, Genève 2011, p. 45.
[5]G. Piana, Introduzione alla filosofiaLula.com, 2013, p. 26.
[6]Ibid., p. 70.

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