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Danilo Zolo, “Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale”

di Alessandro Visalli

zolo cosmopolisDanilo Zolo è stato il giurista che negli anni Novanta del Novecento seppe contrastare nel modo più ampio e fermo l’universalismo astratto della loro posizione applicata alle relazioni internazionali. Ciò malgrado lo studioso di origini cattoliche, ma poi avvicinatosi a posizioni della sinistra marxista, sia sempre stato personalmente amico di Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli e Antonio Cassese, ovvero degli alfieri della posizione contraria. Critico feroce delle guerre preventive americane nella fase unipolare e per questo avvicinato alla posizione realista, l’opera di Zolo, scomparso a 82 anni nel 2018 è oggi particolarmente utile per affrontare le sfide terminali dell’egemonia occidentale che stiamo vivendo.

Cosmopolis[1] è un libro del 1995, anno nel quale la produzione di Zolo si stava orientando verso la critica della democrazia espansiva americana (del “principato democratico”[2]) e dopo che nel 1991 era definitivamente crollata l’Urss e si preparavano le molte guerre di assestamento del potere statunitense (Panama, 1989; Prima guerra del golfo, 1990-1991; Guerra slovena, 1991; Guerra in Croazia, 1991-95; Guerra in Bosnia, 1992-95). Negli anni successivi, peraltro, seguiranno la Guerra del Kosovo e il bombardamento della Serbia (1998-99), e dopo l’11 settembre le invasioni preventive dell’Afghanistan (2001-2021) e la Seconda guerra del golfo (2003-11), quindi gli interventi di Obama a seguito delle “primavere arabe” (Siria, Libia), ed altri vari bombardamenti (Yemen, Somalia, Pakistan).

Difficile stimare quanti morti possano aver fatto queste guerre, durante le quali non di rado sono stati effettuati bombardamenti indiscriminati di città e popolazioni civili.

La stima della più lunga, la guerra in Afghanistan[3] (una guerra preventiva particolarmente ingiustificata, dato che il paese dei talebani, messi al potere dagli stessi Usa, non era certamente una minaccia, se non per qualche banda terrorista che, peraltro, aveva per lo più le basi in Pakistan) probabilmente ha provocato 240mila vittime ed è costata 2.300 miliardi di dollari. Di questi si stimano perdite civili per oltre 70mila persone (l’esercito Usa avrebbe perso solo 2.400 soldati e 4.000 contractors). Inoltre sono morti quasi 700 giornalisti e personale umanitario.

La Prima guerra del golfo del 1991 ha portato circa 100mila morti nell’esercito iracheno e 20mila vittime civili. La Seconda guerra del golfo del 2003 ha portato nel solo primo giorno oltre 3.000 bombe su Baghdad, una città antichissima di oltre 5 milioni di abitanti, con lo scopo dichiarato di “privare la città di acqua ed elettricità” (cosa che è classificata come crimine di guerra nelle convenzioni internazionali). Questa guerra è costata 1.700 miliardi e 4.500 caduti (ma ben 600.000 veterani hanno riportato danni fisici e psicologici tali da farli dichiarare “disabili”). Uno studio della John Hopkins School of Public Healt, del 2006, stima i morti in eccesso (per uccisione diretta e per gli effetti della guerra) da parte irachena in 650mila persone. Inoltre ci sono stati qualcosa come 3,5 milioni di sfollati. Ma gli effetti indiretti sono stati enormi, rafforzando l’Iran, destabilizzando la Siria (dove sono morte altre 500mila persone e 11 milioni sono sfollati), creando lo spazio nel quale si è formato il Califfato[4].

La guerra civile Siriana, che è durata 11 anni ed alla fine è stata risolta dall’intervento russo, è stata innescata dalle rivolte aiutate sotto banco da Obama per destabilizzare, in uno con una brusca fluttuazione del prezzo del petrolio, i paesi arabi e che si è sviluppata nel vuoto iracheno con la crescita dell’Isis (finanziata e supportata dall’Arabia Saudita e secondo alcuni, tra cui l’ex presidente afghano Karzai, dagli stessi Usa[5]), per poi estendersi ai curdi iracheni e vedere l’intervento diretto anche della Turchia. Non si può riassumere in poche parole un simile disastro, ma si parla di metà della popolazione sradicata, un numero di morti che nelle stime meno alte è dato a 350mila, tra le quali alcune decine di migliaia sono morti in cattività nelle carceri delle parti belligeranti (quelle più vistose sono le decapitazioni pubbliche filmate dall’Isis).

Poi ci sono le guerre iugoslave, che sono costate in dieci anni di guerra almeno 140mila persone e l’intervento della Nato arrivò durante l’assedio di Sarajevo nel 1995 (Operazione Deliberate Force), alla quale partecipò l’Italia. Questa guerra, vale la pena sottolinearlo, fu probabilmente il momento di maggiore vicinanza tra Usa e Russia, ed agli Accordi di Daytona parteciparono, oltre i belligeranti, anche Ue e Russia (con il vicepresidente Igor Ivanov). La successiva Guerra del Kosovo, tra il 1998 ed il 1999, vide la separazione della regione autonoma del Kosovo dalla Repubblica Federale di Jugoslavia. L’organizzazione, che l’Onu (e dal Dipartimento di Stato nel 1998) classificava come ‘terrorista’, dell'Ushtria Çlirimtare e Kosovës (UÇK), pretendeva l’indipendenza che il legittimo governo serbo cercava di contenere. La Nato intervenne con attacchi aerei in sostegno degli indipendentisti albanesi. Nella fase più acuta la Nato compì 38.000 missioni di bombardamento aereo e utilizzò missili di crociera Tomahawk; in una circostanza il 14 aprile 1999 gli F16 della Nato hanno bombardato una colonna di profughi, provocando oltre 70 morti ed il 7 maggio è stata colpita l’ambasciata cinese a Belgrado, oltre il mercato centrale. La guerra terminò, con la resa dei serbi, quando fu chiaro che la Russia non sarebbe intervenuta in loro soccorso. Le perdite sono stimate in 10.000 morti di cui 500 attribuiti ai bombardamenti della Nato, tra i civili, e alcune migliaia di soldati. Gli sfollati sono stati oltre un milione.

La guerra è dunque sempre una tragedia, e molto difficilmente si può determinare chi ha ragione e torto. Ad esempio, secondo il criterio rozzissimo di chi invade e chi è invaso indubbiamente Panama era uno stato sovrano invaso senza provocazioni ragionevoli (se lo fosse non essere democratici bisognerebbe invadere i due terzi del mondo); gli interventi nelle guerre civili iugoslave (classificati come “umanitari”) sono simili all’intervento russo del 2014 ed alla “operazione speciale” del 2022, sotto il profilo della difesa di popolazioni e frazioni separatiste sotto attacco[6]; il governo legittimo dello stato sovrano afgano è stato invaso da una potenza estera che non minacciava direttamente, sulla base dell’accusa, negata, di dare sostegno a formazioni terroristiche (su questa base si potrebbero invadere tutti); la Seconda guerra del golfo è stata una guerra preventiva quasi idealtipica, motivata con un riconosciuto falso (le “armi di distruzione di massa”) e condotta spietatamente fino al regime change; gli interventi nelle primavere arabe sono stati tutti intromissioni in scontri interni di paesi sovrani.

Complessivamente queste guerre sono costate qualcosa come 1,2 milioni di morti diretti, circa 10 milioni di sfollati e qualcosa come 6.500miliardi (di cui 5.400in armamenti e stipendi ai militari e contractors). I costi per il contribuente americano, in circa venti anni, dice qualcosa di significativo sull’intero assetto del sistema economico e di potere statunitense, ma questo esula dal tema di questa lettura e quindi ne parleremo casomai altrove.

Dopo questa lunga premessa di contesto veniamo al libro di Zolo. Il suo punto di attacco polemico è l’opinione, profondamente radicata nella cultura occidentale, che per mettere fine alle guerre occorra superare l’anarchia degli Stati. E che questo si possa fare solo se si prende definitivamente congedo dal sistema degli Stati sovrani che si affermò con la pace di Westfalia (o vestfalia). Al suo posto bisogna porre una nuova gerarchia di potere internazionale. Quella che l’autore chiama, appunto, “una nuova cosmopolis”; nella quale in sostanza “sia i rapporti intestatali, sia i rapporti fra gli Stati ed i loro cittadini siano sottoposti al controllo e al potere d’intervento di un ‘governo mondiale’”[7]. Questo concetto è, a ben vedere, il razionale che guida e legittima le tante guerre ‘umanitarie’ che il ‘governo mondiale’ pro tempore (nelle more della formalizzazione autoattribuito per manifesta idoneità morale agli Usa), a partire in particolare dal 1991 ha condotto. Questa filosofia si ispira alla tradizione illuminista cristallizzata nell’opera di Kant[8], più che alla preesistente opera di Grozio[9].

La posizione di Zolo si ispira, invece, ad una tradizione che fa piuttosto risalire a Hobbes e Machiavelli, e qualifica come “complessa, pluralistica, dinamica e conflittuale”. Vedremo in che senso. L’idea centrale è che invece di tentare di estinguere il conflitto tramite una forza centralizzata si deve cercare piuttosto di costruire relazioni internazionali rivolte a “ridurre la paura[10]. Ovvero superare l’universalismo astratto, che vede una sola forma corrispondere alla ‘natura umana’, con la concreta applicazione del concetto di diritto alla sicurezza, di cui un collaterale necessario è il diritto al riconoscimento dell’insopprimibile pluralità delle forme di vita. Queste, secondo la linea difesa da Zolo sono le due precondizioni concrete della pace.

Come infatti sostiene il nostro è “politicamente inservibile l’idea dell’unità spirituale dell’umanità che è al centro della concezione kantiana e in qualche misura influenza anche quella groziana”. Ciò significa allontanarsi sia da teorizzazioni di matrice contrattualista (ma kantiane) come quella di Rawls che da quella di Kelsen. E significa, sul piano della politica internazionale, superare il modello della “Santa alleanza”, che in effetti si è imposta a seguito della sequenza delle guerre mondiali (ed ogni volta imposta dalle potenze vincitrici). Ovvero, “il progetto di una città politica tendenzialmente universale, pacifica, gerarchica, monocentrica, e, naturalmente, eurocentrica o comunque centrata sull’Occidente”[11].

La prima manifestazione di questo progetto si ha in seguito alle guerre napoleoniche, quando i vincitori (Inghilterra, Russia, Austria, Prussia, che cooptano saggiamente la Francia della restaurazione[12]) cercano un’alternativa, “per il bene del mondo”, al mero equilibrio di potenza. “Bene del mondo” che coincide, naturalmente, con quello delle Grandi potenze e delle élite aristocratiche che le dominano. Si tratta in effetti e concretamente piuttosto di imporre una pacifica federazione internazionale, guidata con mano ferrea da un direttorio di potenze. Questo modello fallisce per il discredito che deriva dallo scontro che interviene tra Gran Bretagna e Russia.

La formazione delle due alleanze contrapposte e la Prima guerra mondiale, le cui complesse cause non sono qui da approfondire, porteranno alla sua sostituzione con la “Società delle Nazioni”. Questa, avviata nel 1920, è una vera e propria organizzazione internazionale (mentre quella precedente era uno schema diplomatico). Vengono creati organi come il Consiglio, il Segretario generale e la Corte di Giustizia. Nel modello proposto ogni Stato membro partecipa ad un’assemblea, mentre il Consiglio che ha membri permanenti è limitato dalla regola dell’unanimità. Il punto debole è che vengono tenute fuori, dalla diarchia britannica e francese, sia l’Unione Sovietica e sia gli Usa.

La Seconda guerra mondiale determina, infine, la nascita delle Nazioni Unite che uniscono i due modelli. Nel Convegno di Dumbarton Oaks, nel 1944, i futuri vincitori impongono un modello che sarà poi ratificato nell’anno seguente. In quella occasione Roosevelt, Churchill e Stalin inviteranno 50 paesi a partecipare. Ne deriva un organismo nel quale l’Assemblea generale è priva di poteri vincolanti che sono integralmente affidati al Consiglio di Sicurezza, e nel quale solo i membri permanenti (i vincitori della guerra) hanno potere di veto.

Indeboliscono quasi subito l’autorità della nuova organizzazione la formazione dello Stato di Israele nel 1947, la guerra di Corea (con l’assenza dell’Urss al Consiglio che decide) e le numerosissime guerre unilaterali degli Usa[13], oltre a quelle dell’Urss[14]. Questa inefficacia per Zolo dipende dalla politica di potenza degli Stati più forti e dall’assenza di procedure di gestione delle frizioni in assenza di un’autentica forza militare.

Ciò che guida il modello è l’analogia della situazione internazionale con quella vigente all’interno degli Stati. Cercando in altre parole di replicare a scala mondiale il modello fondato sull’assoluto monopolio della forza e l’accentramento decisionale che è proprio dello Stato assoluto europeo. La “domestic analogy”, porta ad affidare il compito ad un apparato fortemente accentrato che non ha altra strada dell’intervento militare e tende a congelare i rapporti di forza (per cui ogni evoluzione tende ad esprimersi fuori, come avvenne nella Società delle Nazioni). Compensano l’impotenza di fatto dell’Onu l’abbondanza di declamazioni altisonanti di valori e la moltiplicazione di commissioni ed organismi.

La domanda che si fa Zolo è, al fine, se “ogni progetto cosmopolitico non possa che essere un progetto egemonico e violento”.

Il primo episodio sul quale viene costruita l’argomentazione è relativo alla Prima guerra del golfo, “la prima guerra cosmopolita”. Una guerra nella quale apparentemente c’è un aggredito (il Kuwait) ed un aggressore (l’Iraq) e c’è quindi un’operazione di polizia internazionale autorizzata dall’Onu (e che per questo è qualificata come ‘guerra giusta’ da molti osservatori). Guardando meglio lo sfondo è tuttavia il fallimento della Petrestoika di Gorbaciov. Questi dal 1987 accentua il suo slancio internazionalista proponendo un nuovo Ordine mondiale condiviso, nel quale si affermi un “sistema di sicurezza complessivo” fondato sulla “interdipendenza globale”. Toni che in questa crisi sono rilanciati dalla Cina. In una prima fase il clima di dialogo e collaborazione porta all’agevolazione da parte dell’Onu, con il consenso americano, del disimpegno dall’Afghanistan. Ma il 7 luglio 1990, improvvisamente, Eltsin elimina dalla scena Gorbaciov (che era restato alla guida dell’Urss mentre l’ex sindaco di Mosca lo era della Russia) ottenendo lo scioglimento del Patto di Varsavia. Questo evento storico, che rende indipendenti tutti i paesi dell’ex blocco sovietico avviandone la disgregazione, viene interpretato da Washington come una resa senza condizioni.

Quasi subito quella che si sente essere l’unica Grande potenza rimasta elabora una dottrina di “Global Security”, che prevede di garantire “il libero e regolare accesso alle fonti energetiche, anzitutto il petrolio, all’approvvigionamento delle materie prime, della libertà e sicurezza dei traffici marittimi ed aerei, della stabilità dei mercati mondiali, in particolare di quello finanziario”[15]. Ovvero, garantire gli interessi degli Stati industriali verso quelli degli Stati produttori di materie prime e di prodotti intermedi di base.

Chiaramente, ed esplicitamente, per ottenere questo risultato le grandi potenze industriali dovranno, “mettere risolutamente da parte il vecchio principio della non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani. Esse dovranno esercitare e legittimare di fatto un loro diritto-dovere di ‘ingerenza umanitaria’ in tutti i casi in cui giudicheranno necessario intervenire”. E lo riterranno spesso, ma non sempre. A ben vedere il criterio di intervento è chiaramente enunciato: non si tratta affatto della difesa della democrazia, né, tanto meno, la protezione di vite umane (innumerevoli sono i casi in cui non si è intervenuto davanti a orrendi dittatori o massacri indegni), ma, piuttosto, della protezione del diritto a disporre di forniture energetiche e materie prime in quantità ed a prezzi non scelti dai produttori ma dai consumatori (ovvero, dagli Usa ed alleati), e di controllare i flussi nel mondo.

La Guerra del golfo impiega a tal fine 500.000 soldati ed esercita sull’esercito iracheno (accreditato prima della guerra di una non comune potenza) una illimitata violenza. Questa guerra, che provocherà centinaia di migliaia di morti da una sola parte, è apertamente giustificata da Habermas, Lyotard, Dahrendorf e Bobbio. In particolare, l’argomentazione del giurista torinese è che per dare ordine al mondo occorre un Leviatano internazionale (una “domestic analogy”, come si vede), ma questo per non essere oppressivo deve essere democratico. Ma in un mondo nel quale l’occidente dispone forse di un quinto degli abitanti e di un quarto circa delle nazioni, come si articola concretamente questo principio? E’ del tutto evidente che se si facesse un Parlamento mondiale a seguito di elezioni generali Stati Uniti ed Europa avrebbero un centinaio di deputati sul settecento, Cina ed India ne avrebbero almeno 300. Se fosse per nazione andrebbe più o meno nello stesso modo. La soluzione è semplice e geniale ad un tempo (ed implicitamente ancorata alla tesi dell’unità spirituale e della teoria della modernizzazione): la democrazia consiste nell’affermazione dei diritti dell’uomo. Dato che ‘i diritti dell’uomo’ sono un copyright occidentale, groziani appunto, la democrazia è quel che l’occidente dice essere. Ovvero consiste nell’affermazione universale del diritto all’espressione dei diritti liberali standard, da parte di ogni individuo, contro lo Stato che non li riconosca e applichi. Il ‘dispotismo’ è per ciò interpretato secondo canoni strettamente occidentali, contro l’opinione di una potenziale maggioranza che non si deve interpellare, ed a questo interdetto è legato il potere comune che prevale su quello degli Stati. La strada per la legittimazione dell’intervento universale è tracciata.

Questi sono dunque i tre caposaldi che caratterizzano l’impostazione del cosmopolitismo applicato alle relazioni internazionali:

  • La ‘domestic analogy’,
  • La logica della concentrazione del potere,
  • Il punto di discriminazione del perfezionismo democratico.

Chiaramente il punto debole dell’intera costruzione concettuale, che ha una sua coerenza interna, è l’inevitabile prassi dei ‘due pesi e due misure’, la quale, a sua volta, indica il suo carattere essenzialmente ideologico, volto a coprire la mera politica di potenza. Se infatti si volesse prendere sul serio il criterio democratico, in senso realmente neutrale, nelle attuali condizioni demografiche e della distribuzione delle tradizioni culturali e politiche, si andrebbe in contrasto con le esigenze di potenza delle nazioni industrializzate occidentali. L’elezione diretta a suffragio universale (anche se temperato dal principio nazionale), l’annullamento del diritto di veto e dell’istituto dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (che diventerebbe quindi un Governo democratico), ed il potenziamento della Corte di Giustizia, di fatto andrebbe in contrasto con l’obiettivo della concentrazione del potere nelle mani dell’Occidente.

La strada presa, spesso senza neppure esserne consapevoli, del porsi su una ‘altura morale’ dalla quale giudicare il mondo per il mancato rispetto ai propri standard culturali, neutralizza questo rischio della minoranza. L’Occidente, che fattualmente è minoranza, si considera tutto perché gli altri non sono pienamente umani. Sono bambini da educare (alla vera democrazia) o mostri da respingere. Tocca all’Occidente il duro peso di essere il maestro inflessibile che conduce l’umanità alla sua vera liberazione. Non sfuggirà che si tratta della medesima filosofia colonialista, sempre presente sotto il velo delle buone maniere.

Si tratta, insomma, di un’applicazione contemporaneamente ingenua ed “alla carta” alle istituzioni internazionali dello schema (astratto) del liberalismo europeo. E di una oscillazione tra l’individualismo morale di derivazione illuminista e giusnaturalistica e suggestioni, di fatto incoerenti, di una filosofia della storia di derivazione religiosa, giudaico-cristiana, millenarista, organicista ed evoluzionista[16].

Nel testo Zolo si impegna in una serie di corpo a corpo con le teorie che al suo tempo sono schierate a difesa di questa impostazione, in particolare con Walzer[17], che con il suo bellicismo eticamente fondato difende e legittima la guerra preventiva ed uno specialista in questa pratica come lo Stato di Israele. Oppure con Kelsen, nella sua difesa di una oggettiva ragione universale e la sua caratteristica pretesa di abolire la guerra attraverso il diritto.

La tesi normativa dello Stato di diritto planetario, che è propria anche di autori come Habermas, per Zolo rinvia a molte e complesse assunzioni. Alla fondatezza universale della dottrina dei diritti dell’uomo e quindi dell’ingerenza umanitaria, quando questi sono violati anche da Stati sovrani e legittimi. Una dottrina che assume le caratteristiche (solo ideali) europee. Ma i diritti dell’uomo sono ovviamente fondati su vicende storiche politiche; non sono radicati nell’uomo in quanto tale e non sono una scoperta evolutiva irreversibile che una parte dell’umanità ha improvvisamente e fortunatamente incontrato. Questo racconto autolegittimante è molto presente, in particolare nel mondo anglosassone protestante, ma resta una concezione essenzialmente occidentale[18] intrisa di senso di superiorità ed in ultima analisi di razzismo. Lo stesso Kelsen ha osservato onestamente che la dottrina dei diritti dell’uomo è resa possibile da una filosofia teologico-metafisica giusnaturalistica (che, infatti, a tratti Habermas richiama, ma considerandola un ‘apprendimento’ decisivo) che di fatto definisce le proprietà morali degli esseri umani, in quanto tali, inferendole dalla natura delle cose o dalla loro razionalità ricostruita teoricamente. L’insieme delle contraddizioni ed aporie interne alle liste di questi non fa che rendere ancora più visibile il punto. La contraddizione, ad esempio, tra diritti economico-sociali (non a caso inseriti nell’elenco Onu dall’Urss) e quelli civili e di libertà. Quella tra i diritti individuali e quelli collettivi di autodeterminazione.

Esempi di visioni diverse, che si sono opposte storicamente all’imperialismo culturale occidentale, sono, tra le molte che possono essere citate, la visione comunitaria islamica (che unisce almeno tante persone di quella cristiana occidentale e altrettanti paesi). In essa non sono presenti le “protesi normative” che tutelano la libertà personale verso le interferenze delle istituzioni sociali e delle autorità politiche (una posizione che si è data storicamente nelle lotte dei baroni inglesi contro il re e poi, via via, della borghesia contro l’aristocrazia, infine, ma in misura altamente incompleta, delle organizzazioni sociali del lavoro contro il dominio del capitale). Viceversa, prevale un senso di appartenenza alla comunità, religiosamente orientato, per il quale l’individuo piuttosto che rivendicare diritti adempie a doveri. Anche nell’etica confuciana i rapporti asimmetrici generano vincoli reciproci di mutua collaborazione ed obbligazione.

Del resto, i diritti umani proposti dall’Onu sono tutt’altro che scontati e pacificamente accettati. Zolo ricorda i numerosi scontri che sono stati sempre presenti sul tema e quelli, nel 1993, sull’istituzione dell’Alto Commissario per i Diritti Umani (che molti paesi vedono come un’arma geopolitica). In tale occasione alla posizione occidentale che promuoveva l’universalità e indivisibilità dei diritti fondamentali, e quindi l’omogeneità culturale e morale di una “società civile planetaria” disegnata a propria immagine, i paesi dell’America Latina, e quelli asiatici, guidati rispettivamente da Cuba e dalla Cina, posero la condizione che i diritti venissero resi effettivi dallo sviluppo economico-sociale, ovvero dalla riduzione della precarietà e povertà.

Insomma:

  • Da una parte c’è effettivamente qualcosa di profondamente sbagliato nei progetti di pace ‘stabile ed universale’. Si tratta della sua impostazione universalista e centralistica, la pretesa che la pace possa essere garantita da una gerarchica concentrazione di potere nelle mani di una “Santa Alleanza” e sulla base della presunzione di uniformità sociale e culturale;
  • Dall’altra è anche una posizione velleitaria, in quanto tutta la storia umana mostra come la violenza e anche la guerra siano radicate nella natura biologica della specie e siano o naturali o almeno funzionali. Da questo punto di vista aggressività e riconciliazione sono strettamente intrecciati.

Questa ultima tesi porta il nostro a sostenere che il pacifismo cosmopolitico sbaglia ad immaginare che la globalizzazione porti al superamento del sistema degli Stati, e verso la formazione di una ‘società civile globale’ omogenea. Inoltre a ritenere che questo, e non per caso, sottovaluti sistematicamente i fattori economici e la crescente differenziazione dei ritmi dello ‘sviluppo umano’. Quel che, già in quegli anni, l’autore vede è che l’interconnessione e la mondializzazione non stanno creando uniformità ma divergenza, e che quel che si unisce non lo fa lockianamente, ovvero contrattualmente, ma per effetto dell’egemonia imperiale. Non sta accadendo, né la legittimazione delle istituzioni internazionali come veicolo di giustizia anziché di egemonia, né la tendenza alla omogeneizzazione culturale, se non per esili minoranze, né, infine, l’attenuazione dei sempre crescenti conflitti distributivi. Quel che accade è piuttosto un processo di ‘creolizzazione’, tramite l’assorbimento esteriore di alcune forme della cultura tecnico-scientifica ed industriale, la quale disgrega l’integrazione comunitaria e determina reazioni di disordine. La globalizzazione, insomma, “stimola reazioni particolaristiche”[19] e non produce alcuna convergenza.

Nella parte costruens del testo Zolo ricorda come per costruire la pace occorra contrastare il processo umano di “speudospeciazione”, per il quale ogni gruppo definisce se stesso come ‘specie’ a parte, individuando qualche altro come non-umano. È questa la radice dell’aggressività umana, dello spirito gregario e della territorialità. Sono tutte risposte naturali e funzionalmente utili all’esposizione dell’uomo ad ambienti ostili e al suo bisogno di sicurezza.

L’aggressività è, insomma, niente altro che un tentativo di ‘ridurre la paura[20]. Serve a opporsi ai rischi dell’ambiente ristabilendo un equilibrio, quindi un ordine e tranquillità necessario per garantire la stabilità sociale e la coesione. Quindi persino la guerra “svolge delle precise funzioni integrative e associative sia tra i gruppi in conflitto e sia tra le parti belligeranti (quando fanno pace, se la fanno)”.

Probabilmente, se si guarda bene, questa considerazione è particolarmente rilevante per l’osservazione della guerra ucraina in corso, nella quale entrambe le parti, ma in particolare la più debole, hanno colto nella guerra l’occasione di creare una coesione che altrimenti era a rischio. Si sostiene spesso che questa sia una guerra per procura tra Russia e Usa, ed è vero; oppure che sia una manifestazione dell’imperialismo culturale occidentale e della sua volontà di potenza, ed anche questo è indubbio; che segnali il risentimento russo verso il modo in cui è stato trattato il paese e la sua intera cultura e tradizione, ed anche questo è parte della spiegazione; ma la Russia era presa da un conflitto interno di lungo periodo tra la tendenza verso l’occidente, che aveva informato l’opera dei ‘riformisti’ tra Gorbaciov e Eltsin, e del primo Putin, e quella verso l’oriente, che risente sia dell’attrazione siberiana sia della complessa relazione con la Cina, e l’Ucraina era uno Stato fallito, economicamente, socialmente, politicamente, dilaniato da tensioni e lotte interne, completamente dipendente da aiuti internazionali erogati sempre con il contagocce. La guerra, con le sue funzioni integrative basate sulla ‘pseudo speciazione’ sta svolgendo la funzione di compattare entrambi.

E, d’altra parte, sta svolgendo anche nelle nostre disgregate società la medesima funzione. Le élite tentano di compattare una popolazione sempre più spaventata e disorientata indicando nemici esterni (che, talvolta possono essere anche parte della medesima popolazione, ma reproba, irrazionale, pericolosa, sia esso la parte ‘sovranista’ o quella ‘no vax’ o quella ‘putiniana’).

Per concludere, se si vogliono evitare, nella misura del possibile, simili tragedie bisogna individuare non già un impero mondiale che tenga tutti sotto controllo (impero che non potrebbe che essere contemporaneamente ipocrita e dispotico), ma correttivi ed equivalenti funzionali. Ovvero strutture sociali che fungano da alleggerimento dell’aggressività e neutralizzazione dei processi di pseudo-speciazione. Il modo è quello di andare nell’esatta opposta direzione alla demonizzazione ed oscuramento di Dostojevski, o della cultura russa, ovvero verso l’intensificazione sistematica dei contatti simbolici tra culture.

Coltivando una cultura della ‘diversità umana’ che guardi, lontana da ogni pretesa di egemonia culturale, alle differenze come caratteristiche evolutive che confermano la multilateralità e l’apertura al mondo della specie. Non come qualcosa da reprimere e combattere, ma come ricchezza e fonte di dignità. Più che procedure volte a giudicare e condannare, bisognerebbe costruire canali di comunicazione, procedure di riconoscimento e peacekeeping.

Danilo Zolo era nato il 20 gennaio 1936, oggi avrebbe 86 anni. La sua voce sarebbe preziosa.


Note
[1] - Danilo Zolo, “Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale”, Feltrinelli 1995.
[2] - Danilo Zolo, “Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia”, Feltrinelli 1992.
[3] - Si veda Arnaldo Liguori, “Afghanistan, il costo umano ed economico di 20 anni di guerra”, Il Giorno, 17 agosto 2021
[4] - Si veda questo articolo, “I terribili costi dell’invasione dell’Iraq, 2003-18. Per non dimenticare”, Salute Internazionale, 21 marzo 2018.
[5] - Come sempre è difficile avere una opinione consolidata su questi temi. Paul Rand, candidato alle primarie repubblicane, ha speso l’argomento che i suoi rivali John McCain e Lindsey Graham avessero operato per finanziarla nella fase di consolidamento, ovviamente allo scopo di eliminare Assad. Ma anche lo stesso Joe Biden in un discorso ad Harvard avrebbe denunciato finanziamenti esterni al gruppo (accusando i paesi alleati come l’Arabia Saudita e la Turchia). Ci sarebbe anche un documento desecretato della Dia (https://amzn.to/3MN9E51) che sembra convalidare l’ipotesi di un uso strumentale anti-Assad del gruppo. Quindi alcune mail rese pubbliche da Assage, una in particolare nella quale Hillary Clinton, nel 2014, sollecita il consigliere di Obama John Podesta di ampliare il sostegno a coloro i quali (Qatar ed Arabia Saudita) stanno finanziando l’Isis. Le cose sono meno lineari e si svolgono in una cortina di ambiguità, ma gli Usa hanno venduto in quegli anni 80 miliardi di dollari di armi all’Arabia Saudita e la stessa ha girato, tramite principi “indipendenti”, soldi ed armi nuovissime all’Isis perché resistesse contro Assad. Poi, naturalmente, la cosa è scappata di mano (come diverse altre volte, ad esempio come con Al-Quaeda) e gli Usa hanno agito, insieme alla Russia e alla Turchia (talvolta anche sparandosi addosso e comunque sui Curdi), per sopprimerla.
[6] - Con la differenza che mentre gli scontri in Kosovo stavano costando centinaia di morti, di cui decine civili, nel Dombass sono in corso scontri armati da otto anni che hanno provocato 14.000 morti, di cui alcune migliaia civili.
[7] - Danilo Zolo, “Cosmopolis”, op.cit., p.9
[8] - In particolare Immanuel Kant, “Per la pace perpetua”, Feltrinelli 1991 (ed. or. 1795).
[9] - Ugo Grozio (Huig de Groot) giurista olandese nato nel 1583 e morto nel 1645, ma anche teologo, filosofo e storico, è il più importante esponente della scuola dei diritti naturali (giusnaturalismo) in opposizione a quelli “positivi” (ovvero ai diritti riconosciuti nelle norme esistenti). Il “De iure belli ac pacis”, del 1625, nel contesto delle guerre di religione formalizza un sistema di diritto internazionale.
[10] - Si veda anche Danilo Zolo, “Sulla paura. Fragilità, aggressività, potere”, Feltrinelli 2011.
[11] - Danilo Zolo, “Cosmopolis”, op.cit., p. 23
[12] - In sostanza identificando come avversario da tenere fuori la ‘rivoluzione’.
[13] - Guatemala (1954), Libano (1958), Cuba (1961), Santo Domingo (1965), Grenada (1983), Libia (1986), Panama (1989), e quelle successive di cui abbiamo già parlato.
[14] - In Europa orientale, 1956 e 1968.
[15] - Danilo Zolo, cit., p. 42.
[16] - Danilo Zolo, cit., p. 86.
[17] - Michael Walzer, “Guerre giuste e ingiuste”, Laterza, 2009 (ed. or. 1977).
[18] - Zolo, cit., p.142.
[19] - Zolo, cit., p. 160.
[20] - Zolo, cit. p.176

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