Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

partenzadazero.png

Trump: il difensore delle élite che le élite non amano

di Ferdinando Bilotti

Attentato a Donald Trump spari durante un comizio in Pennsylvania 900x600Immaginate di essere un giocatore di roulette che prima si è arricchito, grazie a una serie di puntate favorevoli, ma cui successivamente è andata male per parecchie volte di seguito. Avete consumato quasi tutte le vostre fiches, e la prospettiva di doversi alzare dal tavolo con le tasche vuote si è fatta maledettamente concreta. Cosa fate? Chiaramente, le opzioni possibili sono due. Potete adottare una condotta di gioco molto cauta, in modo da potere continuare a puntare a lungo anche in questa situazione di difficoltà: con un po’ di fortuna, potreste riuscire a riguadagnare un piccolo gruzzolo. Oppure potete puntare in un colpo solo tutto ciò che vi rimane: se vi va male siete rovinati, ma se vi va bene vi siete rifatti abbondantemente delle perdite.

Eccovi spiegata la politica americana degli ultimi anni.

Come abbiamo già scritto nell’articolo del 21 agosto, a partire dagli anni Ottanta le grandi imprese hanno sempre più trasferito le proprie produzioni in paesi dove i salari erano più bassi che negli USA (Messico, Sud-Est asiatico, poi soprattutto Cina). Negli anni, la loro fuga ha assunto portata tale da determinare una vera e propria desertificazione industriale, con ricadute gravi sulla condizione delle classi lavoratrici (oggi diffusamente sottooccupate e malpagate, non trovando di meglio da fare che lavoretti precari e dequalificati… quando li trovano) e sulla solidità finanziaria del paese (in ragione del restringimento della base imponibile, determinato dall’impoverimento dei lavoratori). A quest’ultimo riguardo, ci si farà notare che il governo ha comunque mantenuto la possibilità di tassare le ricchezze dei proprietari delle aziende, nonché le attività che queste ultime hanno continuato a condurre in patria (come quelle finanziarie, generatrici di ingentissimi profitti). Vero: “la possibilità” ha continuato a esserci. In concreto, però, ai ricchi è stato consentito di non pagare più le tasse, in quanto l’imposizione sui profitti societari e sui redditi elevati è stata drasticamente ridotta.

Delle due sorgenti suscettibili di alimentare il sistema fiscale di uno stato moderno (la ristretta cerchia dei facoltosi e la massa degli esponenti del ceto medio), quindi, non ne è rimasta nessuna. Il governo, allora, si è rifugiato nell’emissione di debito; questo è andato così lievitando in rapporto al PIL, dapprima lentamente, ma dopo il 2007 in modo accelerato (perché la crisi finanziaria prima e quella pandemica poi hanno comportato degli onerosi interventi pubblici in soccorso dell’economia).

Inoltre, le massicce delocalizzazioni statunitensi in Cina hanno favorito lo sviluppo economico di quest’ultima; e anche questo fenomeno si è ritorto contro gli USA, poiché il governo cinese ha saputo sfruttare tale sviluppo come base a partire dalla quale promuovere un progresso ulteriore, che ha visto l’affermazione di grandi imprese nazionali e il passaggio dalla produzione di merci a basso costo a quella di beni ad alto contenuto tecnologico. Gli USA, insomma, hanno posto le condizioni perché la Cina diventasse un gigante economico, suo competitore nei settori di punta dell’industria. La crescita della Cina ha anche fatto sorgere una rete di relazioni commerciali che fanno capo a tale paese, la quale potrebbe fare a meno del dollaro come moneta di scambio; e ciò costituisce un problema ulteriore, per una duplice ragione. In primo luogo, come abbiamo già evidenziato nell’articolo del 21 agosto, la dilatazione del loro debito pubblico ha reso gli Stati Uniti dipendenti dalla capacità di collocare anche all’estero quantitativi rilevanti dei propri titoli pubblici e quindi dalla disponibilità ad acquistarli di soggetti stranieri. Ebbene, una rarefazione del ricorso ai dollari negli scambi internazionali renderebbe meno desiderabile il possesso di tali titoli (che è un modo per procurarsi la valuta americana), mettendo così a rischio il rifinanziamento del debito USA. In secondo luogo, tale rarefazione, riducendo la domanda di dollari, ne farebbe calare il valore, con conseguente svalutazione di tale divisa rispetto alle altre. A quel punto il governo statunitense dovrebbe scegliere tra l’accettare tale svalutazione (che però si ripercuoterebbe sul costo della vita negli USA, data la fortissima dipendenza del paese dalle importazioni) e il contrastarla riequilibrando il rapporto fra domanda e offerta di moneta, ossia riducendo l’emissione della stessa rispetto ai livelli attuali (scelta che tuttavia si tradurrebbe, per lo stato, in una perdita di capacità finanziaria).

Ancora, il decadimento economico degli Stati Uniti ha avuto ricadute sulla loro potenza militare. Infatti l’industria bellica statunitense, che pure è quella rimasta maggiormente radicata in patria, è diventata dipendente da forniture provenienti da nazioni estere, anche non amiche (si parla ovviamente della Cina). La crisi fiscale dello stato, inoltre, ha reso problematico il finanziamento delle ingentissime spese per l’esercito, le basi (disseminate in tutto il mondo) e gli armamenti (sempre più sofisticati e costosi): questo è divenuto dipendente dalla capacità degli USA di procurarsi risorse tramite l’indebitamento, la quale però, per la ragione indicata, potrebbe andare diminuendo.

Va aggiunto che lo sviluppo economico della Cina ha posto questo paese in condizione di ascendere al rango di grande potenza militare (in quanto detentrice di cospicue risorse economiche e di un’industria bellica che ha accesso a tecnologie avanzate) e di dotarsi di una propria sfera d’influenza (tramite l’offerta ai paesi in via di sviluppo di collaborazioni in ambito economico: si veda il progetto della “Nuova via della seta”).

L’amministrazione Biden ha affrontato questa situazione compiendo una scelta rischiosa, ossia rilanciando l’impegno militare statunitense. Ciò significava mettere ancor più sotto stress l’economia e lo stesso apparato militare del paese; ma in caso di successo si sarebbe ottenuto un grande risultato, consistente nella messa in sicurezza della supremazia degli USA a livello globale. Questo maggiore attivismo militare, tuttavia, non è stato rivolto contro il nemico principale (la Cina), ritenuto evidentemente troppo difficile da piegare. Si è invece andati allo scontro con la Russia, che appariva un avversario più debole (per quanto stesse dando prova, in Nord Africa e in Medio Oriente, di un rinnovato protagonismo) e la cui sconfitta era comunque suscettibile di procurare grandi benefici.

Nel 2014 gli USA avevano esteso la propria influenza all’Ucraina, riuscendo a portare alla testa di quel paese delle forze nazionaliste ostili alla Russia (attraverso la gestione dei moti di piazza che quell’anno fecero cadere il governo in carica). Questa, che in anni passati non aveva potuto reagire all’inglobamento nella NATO di altri paesi suoi confinanti, scontando le proprie difficoltà interne, stavolta poté reagire con durezza alla mossa americana, essendosi ormai ripresa a sufficienza. Si ebbe così un primo, breve conflitto, che si risolse con l’occupazione della Crimea (importante per la proiezione russa nel Mar Nero). Per non compromettere i rapporti commerciali con i paesi occidentali - grandi importatori delle materie prime russe - più di quanto stesse già avvenendo (con l’imposizione da parte di tali paesi delle prime sanzioni), Putin si accontentò di questo risultato, accettando un accordo che lasciava sotto il controllo ucraino le regioni più orientali del paese, la cui popolazione - russofona e filorussa - era insorta contro il nuovo regime, lamentando discriminazioni e persecuzioni. 

L’Ucraina rimase comunque materiale infiammabile, ottimo per chi avesse mirato a far divampare un incendio. I separatisti del Donbass, infatti, continuarono la propria lotta, con il sostegno indiretto dalla Russia. Il governo di Kiev andò ricostituendo il proprio potenziale militare e perseverò nella politica ostile ai russofoni. La Russia, dal canto suo, divenne meno timorosa di affrontare una lunga guerra contro la NATO, grazie all’inaugurazione (avvenuta a fine 2019) del gasdotto Power of Siberia, che le consentì di accrescere le proprie esportazioni verso la Cina e quindi di poter tollerare maggiormente una rottura dei rapporti con l’Europa. Nel 2021 Putin chiese agli USA e alla NATO rassicurazioni formali in merito alla possibilità di un ingresso dell’Ucraina nel Patto atlantico e più in generale di una ulteriore espansione delle attività militari di quest’ultimo ai confini russi. Di fronte al rifiuto occidentale di impegnarsi in tal senso, all’inizio del 2022 Putin invase l’Ucraina. Forse la sua speranza iniziale era quella di provocare una rapida caduta del regime nazionalista; questo, tuttavia, aveva ormai consolidato la propria presa sulle istituzioni e (attraverso il controllo dei media) sulla società civile, ragion per cui tale evento non si verificò. La guerra russa prese allora la forma di un’azione di logoramento, volta ufficialmente alla liberazione dei territori abitati dai russofoni, ma che in sostanza puntava a distruggere le risorse (materiali e umane) che l’Ucraina poteva destinare a fini militari, in modo da renderla innocua e quindi abbandonabile all’Occidente senza più timore.

L’amministrazione Biden, con tutta probabilità, aveva mirato proprio a spingere la Russia a compiere quell’aggressione, per potere combattere contro di essa (ovviamente tramite l’Ucraina, sostenuta con danaro e materiale bellico) e poter inasprire le sanzioni contro la sua economia. Anche in questo caso, l’obiettivo doveva essere un cambio di regime: una cocente sconfitta militare avrebbe dovuto causare l’allontanamento dal potere del gruppo dirigente putiniano e l’insediamento al suo posto di una nuova classe di governanti filo-occidentali. Assumere il controllo della Russia, oltre che conveniente di per sé (in quanto avrebbe reso possibile saccheggiarne le immense risorse naturali), era funzionale al contenimento della Cina, in quanto avrebbe scongiurato il pericolo di una sua saldatura politica ed economica con quest’ultima, che avrebbe fatto sorgere un “peso massimo” demografico, energetico, tecnologico, industriale e anche logistico (la Russia avrebbe costituito, per le merci cinesi dirette in Occidente, un corridoio di transito molto più sicuro dell’Asia meridionale, percorsa da tanti conflitti), in quanto tale invincibile sul piano militare. A proposito del commercio cinese, va sottolineato come per gli USA fosse di vitale importanza sabotare il progetto “Nuova via della seta” (ossia la creazione di un sistema di infrastrutture volte a facilitare l’esportazione verso Ovest delle merci cinesi per via terrestre), in quanto in tal modo la Cina sarebbe rimasta dipendente dall’accesso alle acque del Pacifico, e dunque vulnerabile a iniziative americane di blocco della navigazione in quell’oceano (fortemente presidiato dagli USA, grazie alle loro basi in Giappone, Filippine, Taiwan, ecc.).

Questa aspirazione è rimasta irrealizzata, in quanto la Russia si è dimostrata meno vulnerabile di quanto avevano creduto i suoi nemici. La sua industria è stata in grado di reggere lo sforzo bellico, e la sua popolazione si è stretta intorno al governo (memore forse del precedente periodo “filo-occidentale” vissuto dal paese: gli anni Novanta, segnati da un profondo immiserimento). Peggio ancora, l’aggressività americana ha favorito l’avvicinamento fra Russia e Cina, giacché quest’ultima ha avuto motivo di temere che gli USA, una volta caduta la prima, si sarebbero mossi con uguale decisione contro di essa. La saldatura fra le due grandi nazioni è stata così favorita proprio dalla politica che mirava a evitarla. In definitiva, la politica di Biden ha avuto il solo effetto positivo di creare condizioni favorevoli per un trasferimento di risorse finanziarie e capacità industriale dall’Europa agli USA (ma su questo argomento non è il caso di tornare, dopo che gli abbiamo già dedicato un lungo articolo).

Una frazione della classe dirigente statunitense, però, aveva sviluppato da tempo un piano diverso. La sua idea era quella di stabilire rapporti più distesi con la Russia, in modo da indurla senza costrizione a rimanere nell’orbita occidentale (e quindi a non legarsi troppo strettamente con la Cina) e da evitare agli USA la dispersione delle proprie energie su due fronti. Era un piano che nasceva da una visione realistica della forza degli Stati Uniti, ormai gravemente minata dalla deindustrializzazione e dal crescente dissesto finanziario: nella situazione vigente, l’obiettivo del contenimento della Cina poteva essere raggiunto soltanto se si destinava a esso la massima parte delle risorse economiche e militari che il paese era ancora capace di mobilitare. Come portabandiera di tale gruppo dirigente, destinato a incarnarne la visione agli occhi dell’elettorato, venne scelto un personaggio di grande popolarità quale Donald Trump.

Anche questo piano era dunque finalizzato a difendere, nella misura in cui era ancora possibile farlo, il ruolo degli USA quale potenza mondiale. Pertanto il trumpismo, lungi dal costituire un movimento in difesa del “popolo” e avverso alle “élite”, come qualche ingenuo ha voluto interpretarlo, ha rappresentato un estremo tentativo di perpetuare la capacità di proiezione internazionale di quelle stesse élite. Ciò nonostante, esso non ha avuto grande presa su di esse: nello stesso Partito Repubblicano è sempre rimasta attiva una fazione anti-Trump, la quale ha condizionato pesantemente la sua prima presidenza (che fu infatti piuttosto inconcludente) e che in qualche misura sembra stare contrastando anche quella attuale. Va altresì rimarcato il fatto che Trump sia stato sempre ostracizzato dai grandi media, che gli apparati dello stato si siano mossi contro di lui (dopo la sua elezione del 2016 fu fatto scoppiare, grazie all’impegno di FBI e CIA, il “Russiagate”, che doveva farlo apparire un burattino di Putin) e che taluni momenti della sua vita politica si prestino a letture “complottiste” (dalla controversa sconfitta del 2020 all’attentato subito nel 2024). Trump, insomma, è un paradosso vivente: è un difensore dell’establishment, che viene trattato dall’establishment alla stregua di un sovversivo. Come mai?

La risposta che ci diamo noi è che il piano dei trumpiani (chiamiamoli pure così, sebbene a nostro avviso Trump sia soltanto l’attore protagonista, e non anche il produttore, dello spettacolo cui stiamo assistendo) abbia il grave difetto di voler tutelare gli interessi di lungo periodo del capitalismo americano sacrificandoli nell’immediato. Sì, perché nell’immediato questi risulterebbero meglio garantiti da una linea politica prevedente il massimo impegno degli USA su tutti i teatri di scontro, in ragione delle maggiori opportunità di profitto che essa offrirebbe all’industria bellica. E si dà il caso che “l’immediato” sia la sola dimensione temporale cui guardano le forze capitalistiche, condizionate come sono dalla necessità di massimizzare i rendimenti dei titoli azionari. Il fatto che una simile strategia sia suscettibile di provocare il crollo della potenza e della stessa economia americana, quindi, non verrebbe percepito come un problema sino al momento del crollo stesso.

Sembra assurdo, ma in definitiva è proprio così che funziona il capitalismo, quando viene abbandonato a se stesso; quando cioè gli attori economici assumono un potere tale da potere dettare legge al governo, che di conseguenza perde la capacità di influire sui loro comportamenti tramite misure dirigiste più o meno spinte. La verità è che il capitalismo, per non autodistruggersi, ha bisogno della pianificazione. Alla prodigiosa ascesa della Cina ha contribuito moltissimo proprio il fatto che la sua classe politica, che non ha mai smesso di considerarsi comunista, abbia voluto mantenere un saldo controllo sulla sfera economica, pur consentendo la fioritura delle iniziative private.

E così, la prima presidenza trumpiana è andata sprecata, condizionata com’era da troppi elementi spuri nell’amministrazione; e ad essa è seguita il disastro della presidenza Biden. Ora i trumpiani sono di nuovo al potere, e all’apparenza dotati di un maggiore controllo effettivo sulle istituzioni; ma l’atteggiamento ondivago del presidente sembra testimoniare una persistente difficoltà nel portare avanti l’agenda che doveva incarnare. Relativamente al conflitto russo-ucraino, al momento si sta profilando uno scenario in cui gli USA rinunceranno al proprio coinvolgimento diretto, ma venderanno armi agli stati europei, che per mezzo di esse continueranno a sostenere l’Ucraina. Una soluzione di compromesso che farà salvi gli interessi della loro industria militare, ma al prezzo di rendere più difficile il dialogo con la Russia e di non consentire la ricostituzione degli arsenali – depauperati dal supporto all’Ucraina degli ultimi anni - che sarebbe necessaria per esercitare una credibile minaccia nei confronti della Cina (proprio perché la struttura produttiva bellica americana rimarrà sotto pressione). Inoltre, il danno più grave (causare un avvicinamento tra Russia e Cina) è stato ormai fatto, e difficilmente ad esso si potrà porre rimedio. Infatti, chi garantisce ai russi che il ramoscello d’ulivo teso da Trump non sia destinato ad appassire, una volta terminata la sua presidenza? Se si considera che nel 2028 i trumpiani potrebbero non essere più alla Casa Bianca, davvero non sembra il caso di contrariare i cinesi per fare contenti gli americani.

Il fatto è che gli USA, oggi, sono politicamente troppo instabili per potere apparire affidabili agli occhi di coloro con i quali vorrebbero dialogare. Finché la visione trumpiana non diverrà dominante in seno all’intera classe politica nazionale, un presidente statunitense non avrà la credibilità necessaria per potere prendere impegni a nome del suo paese. Quanto ci vorrà? Forse più tempo di quello che occorrerà alla Cina per convertire la propria forza economica in una potenza militare e in un’influenza politica tali da renderla inattaccabile sotto qualunque profilo.

Ah... gli Stati Uniti hanno anche un altro problema, il cui nome è Israele. Attenuare i contrasti con la Russia, infatti, servirà a poco, se la capacità finanziaria e militare liberata in tal modo dovrà poi essere riversata sul quadrante mediorientale. Trump questo l’aveva ben chiaro sin dal suo primo mandato; e infatti, allo scopo di stabilizzare la regione, aveva promosso una normalizzazione dei rapporti fra Israele e i locali paesi arabi, che nel 2020 aveva assunto la forma dei cosiddetti “Accordi di Abramo”. Questo sforzo diplomatico, però, è stato mandato a monte dalla scelta di Netanyahu di perseguire una “soluzione finale” della questione palestinese, che ha reso l’avvicinamento allo stato ebraico inaccettabile agli occhi delle masse arabe. Peggio ancora, il governo israeliano ha assunto un atteggiamento irresponsabilmente aggressivo nei riguardi dell’Iran, convinto com’è di poter ottenere, in caso di guerra aperta, il supporto degli USA (facendo leva sulla loro capacità di lobbing... e magari anche su quella di ricatto, se effettivamente, come si è supposto, le orge di Epstein erano organizzate per fornire materiale al Mossad). In tutta evidenza, per gli USA venire trascinati in un conflitto contro una nazione di quasi cento milioni di abitanti, dotata di missili ipersonici e sostenuta dalla Russia (che non potrebbe lasciarla diventare una base dei propri nemici, proprio come non poteva lasciare che lo diventasse l’Ucraina), sarebbe disastroso: l’impegno che dovrebbero assumere contro di essa ne menomerebbe la capacità di proiettarsi altrove, in primis nel Pacifico. Riusciranno a evitarlo? Non è affatto certo. Lo scorso giugno già s’è avuto un breve scontro fra i due paesi mediorientali, e Trump non ha potuto fare a meno di inserirvisi, anche se con un intervento tutto sommato limitato, che infatti non ha portato a un conflitto su più larga scala, ma all’opposto è stato subito seguito da un cessate il fuoco promosso dallo stesso presidente. In futuro, se scoppiasse una crisi ancora peggiore, gli USA potrebbero non riuscire a non finirci pienamente invischiati. Insomma, le pressioni dei filoisraeliani e quelle dei produttori d’armi rischiano di formare una tenaglia in grado di stritolare la visione realista dei trumpiani.

Beninteso, dal punto di vista di chi aspira a un mondo pacificato (per quanto possibile) da un riassetto multipolare, il cocciuto permanere degli Stati Uniti sulla strada del massimo impegno militare può apparire positivo: più in alto pretendono di camminare sul filo, più male si faranno cadendo. E più tranquilli, forzatamente, dovranno starsene dopo. Il problema è: nel momento in cui si troveranno con le spalle al muro, ovvero sull’orlo del collasso finanziario e della disfatta militare, accetteranno di porre in essere l’unica strategia sensata che a quel punto sarà rimasta praticabile, ovvero un ripiegamento di portata ancora maggiore di quello originariamente concepito dai trumpiani? Oppure tenteranno un’ultima disperata escalation, schiacciando il pulsante rosso? La nostra paura è che, per la classe dirigente americana, la prospettiva di regnare su un cumulo di macerie possa risultare ancora preferibile a quella di abbandonare il trono.


Post scriptum

Poco dopo la stesura di questo post, negli USA - a opera del noto sito “Politico” (www.politico.com) - sono trapelate indiscrezioni riguardanti l’elaborazione di una nuova strategia di difesa da parte dell’amministrazione Trump. Questa si sostanzierebbe in un ulteriore ridimensionamento della dimensione imperiale statunitense, prevedendo la rinuncia al contenimento della Cina, a beneficio di un rafforzamento della presa sull’emisfero occidentale (leggi America latina... ma forse anche Groenlandia). Ammesso che l’intenzione di compiere un ripiegamento di tale portata vi sia davvero, tuttavia, non dobbiamo necessariamente concludere che i trumpiani abbiano rivisto i propri obiettivi di fondo. Tale svolta politica, infatti, potrebbe costituire null’altro che una moderazione temporanea delle ambizioni egemoniche statunitensi, finalizzata ad agevolare (tramite il saccheggio delle risorse di paesi vicini) il recupero delle forze necessarie per riproporsi con maggiore efficacia sulla scena mondiale. Una cosa è certa, comunque: per i potentati economici che prosperano sulla guerra, la rinuncia - sia pure momentanea - a fronteggiare tanto la Russia quanto la Cina sarebbe un boccone ancora più difficile da mandare giù di quello che si è cercato di ammannirgli sinora. Una volta che una simile strategia venisse ufficializzata, pertanto, negli USA la lotta politica si farebbe ancora più brutale di quanto già non lo sia stata negli ultimi anni. Forse è per questo che la nuova strategia di difesa, secondo le indiscrezioni di cui sopra, pone l’accento anche sulla necessità di presidiare maggiormente il territorio nazionale? Ufficialmente, il rafforzamento della presenza entro i confini statunitensi delle forze armate sarebbe motivato dalla crescita della criminalità e dell’immigrazione clandestina; ma la sua vera ragion d’essere potrebbe essere la preoccupazione di porre la presidenza in condizione di reprimere un’eventuale “rivoluzione colorata” (ossia un colpo di stato mascherato da rivolta popolare) organizzata da una parte degli apparati pubblici statunitensi contro i loro stessi governanti.

Pin It

Add comment

Submit