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False scelte: globalismo o nazionalismo

di Greg Godels*

GlobalismNel novembre del 2008, nel mezzo della più grave crisi economica mondiale dalla Grande Depressione, scrissi che l'era dell'internazionalismo globale - la cosiddetta "globalizzazione" - stava volgendo al termine. Le "forze centrifughe" agendo in senso autoconservativo si attivavano, separando alleanze, blocchi, istituzioni comuni e forme di cooperazione:

«La crisi economica ha invertito il processo post-sovietico di integrazione internazionale, la cosiddetta "globalizzazione". Allo stesso modo che durante la Grande Depressione, la crisi economica ha colpito le diverse economie in modi difformi l'una dall'altra. Nonostante gli sforzi per integrare le economie mondiali, la divisione internazionale del lavoro e i livelli diversi di sviluppo precludono una soluzione unificata alla crisi economica. I deboli sforzi nell'azione congiunta, nelle conferenze, nei vertici, ecc, non possono avere successo semplicemente perché ogni nazione ha interessi e problemi diversi: condizione che diventerà sempre più acuta man mano che la crisi si intensifica... È altamente improbabile che l'Unione [europea] troverà soluzioni comuni. In effetti, il disfacimento dell'UE è una eventualità.»

Un decennio dopo, dovrebbe essere evidente che questo pronostico anticipava l'ascesa e la crescita del nazionalismo economico, una tendenza politica che minaccia di spazzare via le istituzioni e le politiche del globalismo del libero mercato. Proprio come il fallimento del consenso keynesiano nel fronteggiare la nuova crisi negli anni '70 determinò l'ascesa del fondamentalismo di mercato (il cosiddetto "neoliberismo") e il suo successivo consolidamento internazionale come consenso questa volta alla "globalizzazione", così lo shock del 2007-2008 ha portato alla ribalta le debolezze, le carenze e i fallimenti del fondamentalismo di mercato. Di conseguenza, la politica dei mercati globali aperti ingaggia ora una lotta per la vita o la morte contro il nazionalismo economico. In larga misura, gli stati capitalisti più grandi si stanno ritirando verso un interesse nazionale aggressivo e intensificano la competizione globale.

Le espressioni più ovvie di queste rivalità crescenti sono le sanzioni, le barriere commerciali, la modifica delle alleanze, le escalation militari, le minacce di conflitti e, inevitabilmente, le guerre.

Il fatto che il consenso globale si sia spezzato non è né ampiamente riconosciuto e né accettato. Ma gli osservatori borghesi più acuti stanno iniziando a denunciare le fratture dell'integrazione economica globale. Mohamed A. El-Erian, un importante giornalista di The Financial Times e Bloomberg News scrive delle "crepe" nel "coordinamento della politica globale che possono rendere l'intero molto più grande della somma delle parti...". Lamenta come "... troppi anni di crescita bassa e insufficientemente inclusiva... erodano la fiducia nelle istituzioni chiave e alimentino la politica della rabbia". "I diversi tassi di crescita e le politiche nelle economie avanzate che determinano disuguaglianze crescenti sono destinate ad approfondirsi, mentre gli Stati Uniti superano sempre di più le altre economie." (Bloomberg Businessweek, 6-11-18).

Nonostante i brillanti rapporti USA sull'aumento dell'occupazione, sulla crescita economica, sull'aumento della ricchezza e sull'euforia del mercato azionario, gli osservatori seri notano le disparate notizie economiche che provengono dai confini dell'economia globale. I recenti titoli del Wall Street Journal sottolineano questa realtà: La crescita globale perde velocità, I mercati emergenti alimentano la paura del contagio, Il boom di profitti negli Stati Uniti lascia indietro l'Europa, La crescita negli Stati Uniti lascia il mondo alle spalle. Nella competizione per spartire sempre meno briciole, l'economia più forte e più sana, gli Stati Uniti, sta strappando vantaggio a discapito di amici e alleati allo stesso modo. Ironia della sorte, la Repubblica popolare cinese e la Russia sono i difensori pubblici più fedeli del vecchio ordine di "cooperazione" globale, mentre si preparano a creare nuove collaborazioni e tattiche per affrontare la disintegrazione di quell'ordine.

Come Lenin scrisse in L'imperialismo, fase suprema del capitalismo:

«… nella realtà capitalista, le alleanze "inter-imperialistiche" o "ultra-imperialiste" non sono altro che un "momento di respiro" tra una guerra e l'altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un'altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico e identico terreno, dei nessi imperialistici e dei rapporti dell'economia mondiale e della politica mondiale, l'alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta.»

Quindi, stiamo assistendo al passaggio dal momento dell'"alleanza" globale verso una concorrenza sempre più intensa, i cui contenuti sono sanzioni, dazi, altre forme "pacifiche" di competizione e guerre "limitate", mentre fuori scena si profila la guerra generale.

 

Sbagliare

È un errore o un'errata valutazione vedere la rottura del consenso globale rispetto al libero mercato come il mero risultato delle politiche di Trump e dei suoi simili. È un grave errore associare le sanzioni, i dazi e le rivalità crescenti, semplicemente con le tattiche dei partiti populisti di destra e dei loro sostenitori.

In primo luogo, le politiche nazionaliste e protezionistiche oggi emergenti non sono radicate nei capricci della politica o nelle disposizioni ideologiche. Invece, sono sollecitate da un capitalismo mal funzionante. Se il paradigma dominante, il consenso del globalismo, ha servito bene il capitalismo, generando profitti e crescita, ora ha profondamente bisogno di riparazioni o sostituzioni. La classe dominante riconosce questo fallimento e sta cercando una soluzione, un processo espresso anche nello scontro politico tra partiti centristi tradizionali e parvenu.

In secondo luogo, la lotta risulta banalizzata e mistificata se la si pone come lotta tra la reazione o il fascismo e le forze illuministe o progressiste. Il nazionalismo economico non ha alcun legame ideologico necessario con nessuno dei due. Nella Grande Depressione, l'autarchia - l'autosufficienza economica, l'isolazionismo - era identificata con Roosevelt come lo era con Hitler. Il fatto che la politica inquietante di Trump, Farage, Le Pen e Salvini abbraccino con forza il nazionalismo economico è storicamente contingente. Mentre i media statunitensi hanno ritratto la fissazione di Trump per i dazi come un affronto alla salute mentale, non riescono a ritrarre le altre armi del nazionalismo economico - sanzioni e guerre - allo stesso modo. Mentre l'amministrazione Obama ha fatto ricorso all'ortodossia di rinunciare a nuove tariffe, ha accelerato bruscamente l'uso delle sanzioni e della guerra.

Pertanto, l'iniziativa di nuove sanzioni o dazi negli Stati Uniti spesso non è una questione di pro o contro, ma piuttosto di chi si vuole colpire. Il senatore democratico Schumer, severo critico di Trump, non è contrario ai dazi di per sé, ma si distingue da Trump rispetto quali paesi si dovrebbero colpire. È fortemente critico nei confronti dei dazi contro gli alleati della NATO o il Giappone, ma è entusiasta delle tariffe punitive (e di altre manovre) contro la Russia, la RPC, il Venezuela e altri rivali.

L'attuale controversia a proposito della ZTE dimostra come il nazionalismo economico contagia entrambi i partiti degli Stati Uniti. ZTE, una delle principali società di telecomunicazioni multinazionali cinesi, è accusata di sfidare le sanzioni statunitensi contro la Repubblica Democratica Popolare di Corea e l'Iran. Trump, l'architetto di American-First ha negoziato una sanzione da 1 miliardo di dollari e un accordo scandaloso che farebbe pagare a ZTE una squadra di ispettori statunitensi sul posto! Questo oltraggio offensivo alla dignità cinese è contrastato dai senatori leader di entrambe i partiti che sperano di andare oltre e mettere ZTE completamente fuori dal mercato negando l'accesso ai componenti essenziali degli Stati Uniti.

Mentre la classe dominante degli Stati Uniti elabora ancora la delusione del paradigma dominante, comprende pienamente che gli Stati Uniti sono sempre la principale potenza economica e imperialista del mondo. Lo scontro tra Trump e i suoi corrispettivi europei riguarda il modo migliore per coinvolgere ed espandere quella potenza con o senza concessioni alla cooperazione internazionale.

 

Intrappolare la sinistra

Negli anni '70 il capitalismo ha subito una grave crisi di inflazione, stagnazione e calo dei tassi di profitto. Gli strumenti che avevano stabilizzato e guidato il capitalismo dalla Grande Depressione fino agli anni '70 (popolarmente identificati con JM Keynes) si sono rivelati in gran parte inefficaci contro il particolare mix di problemi che affliggono l'economia globale. Negli Stati Uniti, un nuovo paradigma (piuttosto, la rinascita di un vecchio paradigma) quello dei mercati liberi e non regolati ottenne la trazione politica come risposta a quel fallimento, prima nella seconda metà dell'amministrazione Carter, e poi più intensamente nell'amministrazione Reagan. Verso la metà degli anni '90, il nuovo paradigma centrato sul mercato dominava entrambi i partiti politici degli Stati Uniti, otteneva un'ampia egemonia ideologica e raggiungeva ogni interstizio della vita negli Stati Uniti, dai servizi pubblici alla produzione culturale. Con la scomparsa dell'Unione Sovietica e dei paesi socialisti europei e il riorientamento dei molti paesi socialisti, l'ossessione del mercato e la deregolamentazione si diffusero in tutto il mondo come un virus.

Basando ogni risposta sul libero mercato, le classi dominanti iniziarono a smantellare le strutture di tutela sociale duramente conquistate da generazioni di lavoratori. Il fondamentalismo di mercato si è scontrato con la nozione stessa di garanzie sociali o di rete di sicurezza sociale.

Comprensibilmente, la sinistra si è aggregata per difendere le conquiste dall'assalto agli standard di vita. In larga misura, l'iniziativa della sinistra era un tentativo di raggiungere un ampio fronte popolare per difendere le vittorie del ventesimo secolo. La sinistra fallì e fallì a caro prezzo.

Entro la fine del ventesimo secolo, ogni partito politico di centrosinistra aveva pienamente abbracciato il fondamentalismo del mercato ed era diventato alleato del tutto inaffidabile nella battaglia difensiva contro la deregolamentazione, la privatizzazione e lo sventramento dello stato sociale. Ciò lasciò la sinistra anti-capitalista e rivoluzionaria a combattere da sola per il programma storico del centro-sinistra. Negli Stati Uniti, ci piace scherzare sul fatto che questa era l'era in cui i democratici diventavano repubblicani, e i socialisti, persino i comunisti, diventavano democratici. Nondimeno, i programmi del Partito Democratico - il New Deal degli anni '30 e la Great Society degli anni '60 - continuano a erodersi.

La maggior parte della sinistra anticapitalista e rivoluzionaria ha messo da parte il programma socialista nell'interesse di un'unità effimera con il centrosinistra. L'opzione di una seria sostituzione del capitalismo è stata accantonata per una difesa unitaria delle conquiste della classe lavoratrice, una difesa comune che non si è mai materializzata. Di conseguenza, una generazione di giovani ribelli, bruciata dalla povertà, dalla disoccupazione, dalla sottoccupazione e dal debito studentesco, sta cercando un'alternativa radicale, ma trova anarchismo, surrogati del socialismo e altre pozioni miracolose.

 

Mai più!

La lotta di oggi tra i fondamentalisti del mercato, i globalisti e i nazionalisti economici non è la nostra battaglia. È una lotta su come massimizzare i profitti e come sostenere il capitalismo. La classe lavoratrice non ha alcun interesse nel suo esito. A differenza dello smantellamento dello stato sociale, non c'è nessuna battaglia difensiva da condurre.

Il fondamentalismo di mercato e il globalismo furono disastri per la classe operaia, permettendo al capitalismo di ridurre il prezzo della forza lavoro al suo costo di produzione e riproduzione storicamente determinato: i salari negli Stati Uniti sono rimasti stagnanti per quasi 50 anni. Il nazionalismo economico, d'altra parte, offre ai lavoratori nient'altro che guadagni effimeri a scapito di fratelli e sorelle in altri paesi o la distruzione della guerra.

Quando gli esperti liberali attaccano i piani tariffari di Trump, stanno difendendo il profitto e la crescita, non la classe operaia. Quando Krugman, Reich, o Stiglitz difendono la sacralità dei mercati globali senza vincoli, stanno facendo promesse "su promesse", che non sono state espresse nei decenni di crescita commerciale espansiva.

E quando i sedicenti populisti offrono protezionismo per il lavoro, stanno proteggendo le multinazionali e non i posti di lavoro; stanno vendendo olio di ricino ai lavoratori, mentre tengono il vantaggio competitivo per le aziende e i loro dirigenti.

Niente dimostra la truffa del nazionalismo economico, del protezionismo, meglio delle macchinazioni di generazioni di leader sindacali collaborazionisti di classe che hanno legato le loro carriere al protezionismo. Predicando l'approccio della "identità di interesse", sono diventati cheerleaders del successo aziendale. Se fronteggiano agitatori, si uniscono al coro che grida alla "concorrenza sleale". Se siedono con dirigenti aziendali, scoprono che i paesi stranieri non "rispettano le regole". Non passa inosservato che negli Stati Uniti i leader sindacali in genere etichettano come "imbroglioni" paesi prevalentemente non bianchi: il Giappone, il Nord Corea e ora la Repubblica popolare cinese.

Alla fine, questa strategia di non-lotta e colpa addossata agli stranieri come spiegazione dei salari stagnanti e della perdita di lavoro si ritorce contro. Per decenni, la United Steelworkers Union ha attribuito la colpa della situazione critica dei lavoratori siderurgici all'acciaio straniero. Così ora che il presidente Trump promette un dazio ingente contro il più grande esportatore di acciaio negli Stati Uniti, il presidente della USW, Leo Gerard, è in imbarazzo. Il suo sindacato rappresenta i lavoratori siderurgici in Canada, il più grande esportatore di acciaio negli Stati Uniti.

"I lavoratori siderurgici credono nei dazi. Crediamo semplicemente che dovrebbero però essere indirizzati contro i paesi che imbrogliano", ha detto Gerard, aggiungendo che non è chiaramente il caso del Canada. (Pittsburgh Post Gazette, 13-6-18). Ovviamente è difficile quadrare questa risposta con il fatto che la RPC rappresenta solo il 2% delle importazioni di acciaio degli Stati Uniti. A questo punto, Gerard scopre una cospirazione: la RPC invia clandestinamente il suo acciaio attraverso paesi terzi, "mascherando il vero paese di origine".

Se fosse vero, in che modo i dazi direttamente indirizzati alla RPC cambierebbero il flusso dell'acciaio che arriva "mascherato" negli Stati Uniti?

Gerard ha rilasciato un lungo editoriale nella Pittsburgh Post Gazette (17-6-18), caratterizzato dal suo chiaro appello al rozzo patriottismo e all'incessante contrasto alla Cina. Per quanto riguarda la principale minaccia per l'industria statunitense della produzione di acciaio e alluminio, Gerard ci ricorda debolmente che "l'acciaio americano è usato per fabbricare alcune lattine in Canada che vengono poi spedite negli Stati Uniti dove sono riempite da compagnie alimentari americane".

Si spera che i lavoratori del settore siderurgico si accorgano dello stratagemma progettato per distrarre i membri del sindacato dal continuo e rapace sfruttamento dei lavoratori da parte delle multinazionali.

Per la sinistra, c'è, come sempre, una terza via: la lotta per il socialismo. Quelli che hanno sposato il credo della riforma del capitalismo e dei programmi socialdemocratici dovranno, infatti, scegliere tra il capitalismo globale o chiudere i confini alla concorrenza straniera. Quelle sono false scelte per la classe lavoratrice. Sono vicoli ciechi per la sinistra.

La lotta per il socialismo non è né una scelta sbagliata né un vicolo cieco.


* zzs-blg.blogspot.com

Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Comments

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lorenzo
Monday, 09 July 2018 12:12
@roberto
Comprendo la tua posizione che si riferisce per lo piu' alla condizione delle persone nei paesi del 20% del mondo piu' ricco, dove anche noi siamo seppur in non ottima posizione e dove sicuramente la piccola borghesia si e' un poco impoverita' e sta mostrando forti segni di insofferenza verso le politiche sovranazionali. Tuttavia questa insofferenza non e' contro il libero mercato e il capitalismo ne contro le sue politiche imperialiste in casa altrui ma in generale ma solo verso una sua forma. La chiusura delle frontiere ha, a mio avviso, sopratutto il segno di mantenere le piu' forti condizioni di sfruttamento nel restante 80% del mondo (gia' povero e gia' sfruttato). Vedremo poi se ci saranno quali saranno e a che prezzo i benefici sui nostri sfruttati al di qua della frontiera.
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roberto
Monday, 09 July 2018 09:02
io,invece,la penso diversamente.la chiusura della fase storica della globalizzaziozne neoliberista sara' migliorativa per il proletariato.quello che non e' stato analizzato e' la composizione di classe del populismo.il populismo e' formato dalla piccola borghesia impoverita e da settori molto ampi del proletariato.queste due classi si sono unite nella lotta al capitalismo liberista e stanno vincendo.dire che il proletariato non deve appoggiare il populismo ignora la realta':che cosa dovrebbe fare il proletariato?aspettare il socialismo e intanto morire di fame sotto il dominio del neo liberismo?e' ovvio che preferisce allearsi con i settori della piccola borghesia impoverita e bloccare subito il suo impoverimento ormai trentennale.ha fatto male?non credo.
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lorenzo
Sunday, 08 July 2018 16:20
Condivido analisi e conclusioni, tuttavia siccome purtroppo la via del socialismo non sembra dipanarsi nell'immediato orizzonte c'è da chiedersi se l'impulso in atto a chiudere la fase storica globalizzazione liberista porti ad una condizione migliore o peggiore per le condizioni di vita in generale dei lavoratori. Inoltre e forse più importante ancora, se le conseguenze di questa nuova trasformazione interna al capitalismo possa portare a condizione migliore o peggiore per maturare consapevolezza negli sfruttati o classi subaltrene e quindi alla possibilità un poco più concreta di sviluppo di modello alternativo al capitalismo e/o di lotta democratica o rivoluzionaria contro questo. La risposta mi rendo conto è complessa e ammetto di non essere in grado di formularla con vera cognizione di causa ma a mio avviso l'impulso protezionistico nazionalistico peggiora ed allontana le forme migliori di consapevolezza degli sfruttati e mi fa vedere con sgomento chi da sinistra appoggia questo impulso al nazionalismo popolare.
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