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senso comune

Debito e globalizzazione. Una lunga storia con un finale da scrivere

di Tommaso Nencioni

grecia 850x561Il capolavoro delle classi dominanti occidentali degli ultimi 10 anni è consistito nel trasformare – spesso nell’arco di poche notti – una crisi finanziaria provocata dalla rapacità dell’oligarchia in una crisi del debito sovrano degli Stati. Questo ha permesso di scaricare il conto dell’avventatezza e della rapacità delle suddette oligarchie sulle fasce più deboli delle popolazioni. Ma non solo. Ha permesso anche di gettare le basi per nuove espropriazioni ai danni dei popoli. Lo schema è sempre lo stesso. I grandi gruppi industriali e finanziari degli Stati più potenti (le metropoli) traggono enormi profitti grazie al credito concesso agli Stati più deboli (le periferie). Quando l’esposizione creditizia diviene insostenibile, i suoi costi vengono riversati sui bilanci degli Stati periferici. Intervengono a questo punto istituzioni presunte neutrali (il Fondo Monetario Internazionale, La Banca Mondiale, l’Unione europea) a dettare le loro ricette per rientrare dal debito, che immancabilmente prevedono: privatizzazioni nei settori strategici, tagli alle assicurazioni sociali, tagli ai salari e agli stipendi. Così da favorire i grandi gruppi metropolitani interessati a mettere le mani sugli asset strategici; i grandi gruppi assicurativi privati; le elites locali e internazionali che possono contare su una manodopera disoccupata o sottopagata e quindi disposta a vendersi a un prezzo più basso. Oltre a questo, alla fine del processo si produce un inevitabile aumentato divario tra le metropoli e le periferie.

Quanto sopra descritto può essere facilmente riscontrato nella vicenda greca (e dell’Europa mediterranea in generale) degli ultimi 20 anni. Ma attenzione. Si tratta in realtà di una modalità fissa di valorizzazione del capitale, di gerarchizzazione della divisione internazionale del lavoro e di esproprio ai danni delle popolazioni che si ripete da più di un secolo.

L’uso politico del debito è da sempre uno degli agenti fondamentali della globalizzazione capitalistica. In questo articolo vedremo gli stessi meccanismi all’opera in tre periodi e in tre contesti diversi: nel decadente Impero ottomano a cavallo tra Ottocento e Novecento; nei paesi del Terzo Mondo negli anni ’80 del secolo scorso; nei paesi dell’Europa mediterranea e specialmente in Grecia negli ultimi 10 anni.

 

Premessa. La globalizzazione innaturale

È necessaria una premessa. Nella globalizzazione dei mercati, nell’imposizione di una società di mercato in cui il profitto è il metro del successo di ogni iniziativa economica e in fin dei conti umana, non c’è niente di naturale. Storicamente, per prendere campo, l’apertura dei mercati e della società capitalistica ha sempre comportato un altissimo grado di coercizione e ha sempre suscitato grandi resistenze popolari. Dall’America latina coloniale all’Inghilterra del Settecento, dall’Egitto della fine dell’Ottocento fino alla Grecia dei nostri giorni. Per raggiungere il risultato, si è sempre dovuto ricorrere o alla guerra e alla rapina, o alla sospensione della democrazia o comunque, laddove la democrazia non era ancora stata conquistata dai popoli, all’inasprimento della repressione, spesso con l’ausilio di truppe o “esperti” stranieri (nel Cile di Pinochet i Chicago Boys affluirono più copiosi degli sgherri della CIA).

La globalizzazione – o, per meglio dire, le varie ondate di globalizzazione che hanno accompagnato la costruzione del sistema mondo capitalista – non hanno solo carattere estensivo, ma anche intensivo. Con questo si vuole dire che, nel corso delle ondate di globalizzazione, la legge del capitale viene imposta non solo a nuovi territori, ma viene applicata anche a nuove cose. Vengono cioè trasformate in merci foriere di profitti cose che o sono frutto della natura (la terra, l’acqua, le materie prime), o sono state sottratte all’arbitrio della legge del mercato in una stagione precedente di lotte e conquiste sociali (i mezzi di comunicazione, i servizi sanitari o postali). Le terre della Turchia asiatica valgono, per il nostro ragionamento, le aziende telefoniche italiane o il Porto del Pireo o il bacino acquifero di Cochabamba.

 

Debito e globalizzazione

1. Gli antenati della Troika

La globalizzazione è dunque il frutto di una precisa opzione politica, e l’apertura dei mercati è un processo coercitivo. È ora il momento di passare ad analizzare il ruolo giocato dal debito in questo processo, nella catena prestito estero – aumento del debito pubblico – apertura dei mercati. Analizzeremo tre casi: quello dell’Egitto e della Turchia asiatica tra Ottocento e Novecento; quello dei paesi del Terzo Mondo negli anni ’80 del Novecento; quello della Grecia (e per estensione dell’Europa mediterranea) all’inizio del XXI secolo.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo l’indebitamento del regno Egiziano nei confronti dei grandi gruppi finanziari occidentali aumentò in maniera vertiginosa nel corso di tre successive ondate. La prima fu quella dovuta alla costruzione delle dighe sul Nilo e soprattutto del canale di Suez. La seconda volta che i capitali esteri si riversarono nel regno fu per via della febbre cotonifera esplosa nel momento in cui il cotone americano era reso inaccessibile allo scoppio della guerra civile americana. La terza ondata di indebitamento si verificò, alla fine del conflitto tra l’Unione ed i confederati, nel tentativo di riconvertire l’agricoltura locale alla canna da zucchero. I contadini locali pagarono due volte il prezzo dell’irruzione dell’Egitto nel mercato mondiale: sotto forma di ipersfruttamento nella costruzione delle grandi opere pubbliche e nella raccolta del cotone e della canna, poi sotto forma di tassazione esorbitante affinché il regno potesse rientrare dal debito contratto.

Non era ovviamente possibile che i contadini si assumessero esclusivamente sulle proprie spalle il peso del debito in continuo aumento e dei suoi esorbitanti interessi. Nel 1879 la finanze egiziane passarono direttamente sotto il controllo di una Commission de la Dette Pubblique Egyptienne, l’antenato diretto della odierna Troika. Le misure fiscali vennero ancor più inasprite, le terre vennero lasciate incolte ed incamerate dai grandi latifondisti occidentali. Le insurrezioni dell’esercito prima, a causa delle paghe sospese, e dei contadini fornirono la scusa per l’invasione inglese del 1882. L’Egitto e la sua riottosa società erano finalmente aperti al mercato.

In maniera ancor più lineare, vediamo lo stesso meccanismo all’opera nell’Impero ottomano di inizio Novecento. Lì fu il capitale tedesco, ed in particolar modo la Deutsche Bank, a tirare le fila dell’intero meccanismo. Il sultano affidò direttamente al capitale europeo la costruzione delle ferrovie e l’intero complesso dei lavori pubblici necessari a rendere possibile il trasporto su rotaia di uomini e merci (bonifiche, ponti ecc.). A garanzia della redditività delle varie tratte costruite, furono offerti lauti sussidi governativi (lo Stato italiano e la famiglia Benetton non si sono inventati niente quando si sono accordati per svendere il nostro patrimonio autostradale), e soprattutto la diretta riscossione delle decime sul raccolto ad un altro illustre predecessore della Troika, la Commission de la Dette Pubblique Ottomane.

Ancora una volta, lo schema si ripete: ipersfruttamento della manodopera contadina locale; tasse esose imposte a quest’ultima; trasformazione coatta in merce, per poter far fronte alla tassazione, del grano della mesopotamia, prodotto naturale che non nasceva per essere immesso sul mercato ma per essere consumato da chi lo produceva.

2. La nuova subordinazione del Terzo Mondo

Nella parte centrale del XX secolo, a seguito della rivoluzione russa e cinese, delle guerre mondiali e dell’avvio del processo di decolonizzazione, si è avuta l’illusione che i rapporti tra Nord e Sud del mondo potessero essere, se non democratizzati, quanto meno equilibrati. Almeno il rapporto di dipendenza politico diretto era venuto meno un po’ ovunque. Il ruolo giocato all’URSS emergeva non solo o non tanto nell’aiuto militare concesso ai movimenti di liberazione coloniale, ma soprattutto nel modello di economia pianificata che pareva permettere ai paesi in via di sviluppo di poter superare in un arco di tempo relativamente breve il gap sociale ed economico con le antiche potenze egemoni.

Fu il colpo di Stato contro il Cile democratico di Allende a suonare la diana dell’inversione di tendenza. Il Golpe del 1973 rappresenta a livello internazionale (e anticipa) ciò che all’interno della società occidentale è stata realizzato a partire dai governi di Ronald Reagan e di Margaret Tatcher – entrambi manifestarono affetto imperituro nei confronti del generale Pinochet (un affetto secondo solo a quello riservato al dittatore da papa Giovanni Paolo II). Ma, ancora una volta, fu l’indebitamento estero ed il suo uso da parte delle potenze occidentali a giocare un ruolo fondamentale nel ristabilimento dell’ordine gerarchico tra i popoli. Nel corso di quella vicenda, inoltre, si affinarono i meccanismi delle istituzioni preposte al pieno dispiegamento del mercato mondiale, rispetto a quelli un po’ grezzi appannaggio delle varie Commissions de la Dette operanti in medio oriente nel secolo precedente.

Fu infatti questo contesto che furono smantellate le istituzioni politiche sorte a difesa della società in risposta alla devastante crisi degli anni Trenta, sostituite da organismi tecnocratici di cui era sbandierata l’imparzialità. Ogni paese o gruppo di paesi ha seguito una via particolare a questo processo di “sostituzione della politica per l’amministrazione”. Le prove generali risalgono alla metà degli anni Settanta, con la bancarotta della città di New York. Fu lì che le istituzioni tecnocratiche presero il potere per la prima volta. Su scala sempre maggiore, e con sempre maggiore frequenza, l’esperimento è stato ripetuto a partire dai primi anni Ottanta nei paesi del Terzo Mondo caduti sotto l’amministrazione controllata del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, in seguito alla sopravvenuta insolvenza del debito da essi contratto.

In questo panorama, la questione dell’uso politico del debito acquista ancora una volta particolare rilevanza. Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale nacquero, nell’ambito degli accordi di Bretton Woods del 1944, come organismi al servizio della stabilità della finanza e del commercio internazionale in età di embedded liberalism, di controllo nazionale sui flussi finanziari e di crescita coordinata di salari e profitti. L’egemonia keynesiana nelle due organizzazioni fu salda fin dalle origini, e la loro funzione stabilizzatrice nel corso dei “trenta gloriosi” è universalmente riconosciuta. Ma a seguito della crisi del ’73 e della svolta neoliberale il loro ruolo comincia ad essere percepito, specialmente negli Stati Uniti, come superfluo, se non fastidioso. Tant’è che tra i punti del programma elettorale che portò Reagan alla Casa Bianca figurava anche l’uscita degli USA dal FMI. Ma improvvisamente, una volta insediatosi, lo stesso Reagan operò un completo voltafaccia. Cosa era successo?

Con l’embargo petrolifero imposto dai Paesi arabi nel ’73, ed i prezzi del greggio alle stelle, le finanze degli Stati del Golfo persico erano state invase da una massa enorme di liquidità. I “petrodollari” così accumulati iniziarono ad affluire – non è ancor chiaro se spontaneamente o a seguito di pressioni non solo politiche – nelle casse delle grandi banche statunitensi. Tutto questo avveniva, come abbiamo visto, in un periodo di raffreddamento degli investimenti industriali in tutto l’Occidente, dovuto alle grandi conquiste ottenute dalle lotte del movimento operaio ed agli alti prezzi dell’energia. Allo stesso tempo, tuttavia, i governi dei Paesi da poco usciti dai processi di decolonizzazione avevano un disperato bisogno di liquidità, per rimettere in moto la produzione dopo anni di guerre devastatrici e di rapina delle risorse: le élites post-coloniali dovevano mantenere fede agli impegni presi con i propri popoli, che avevano sostenuto lo sforzo immenso delle lotte di liberazione. I grandi gruppi bancari trovarono quindi nei nuovi Stati una vasta platea di “clienti” per la massa monetaria che avevano accumulato. Anche perché, come sostenne Walter Wriston, allora alla testa di Citibank, “i governi non possono trasferirsi o scomparire”.

A questo punte sopraggiunse la giravolta da parte della presidenza Reagan. Lo shock monetarista imposto dal governatore della FED Paul Volcker, con un improvviso e massiccio aumento dei tassi di interesse, portò all’insolvibilità dei paesi del Terzo Mondo che avevano contratto i prestiti in dollari con le grandi banche. Fu a quel punto che si stipulò l’alleanza di ferro tra il tesoro USA, la BM e il FMI: furono promossi prestiti da parte delle istituzioni finanziarie di Bretton Woods, a patto che i Paesi indebitati varassero pacchetti di “riforme” in senso neo-liberista. Lo schema si è ripetuto da allora per il Messico ed il Cile (1982), per l’Argentina alla fine degli anni Ottanta, per la Russia e le “tigri asiatiche” ed ancora il Messico a metà anni Novanta, e di nuovo per l’Argentina sulla fine di quel decennio.

Le eccedenze di capitale prodotte dalle varie crisi susseguitesi nell’ultimo trentennio hanno così trovato impieghi remunerativi a mano a mano che le ricette alla base delle “riforme” venivano varate, ricette al centro delle quali stanno immancabilmente programmi di privatizzazione degli asset strategici nazionali e delle assicurazioni sociali (su tutti, sanità e pensioni).

3 . Il salto di qualità. La Troika sbarca ad Atene.

La novità dell’uso politico del debito con la crisi del 2008 è che stavolta, con l’Unione Europea al posto del Tesoro USA a completare la Trojka con FMI e BM, la ricetta è applicata in seno all’occidente. Mantenendo il focus della nostra attenzione sulla Grecia, bisogna partire dalla struttura dell’ingente debito accumulato dal Paese nel corso degli anno ’80 e ’90 (per un’analisi esaustiva, clicca qui). Gran parte di esso si deve a 1) una tassazione scandalosamente bassa dei profitti dei gruppi oligarchici (in particolar modo gli armatori) accompagnata comunque da un altissimo tasso di elusione fiscale da parte degli stessi gruppi e 2) i tassi di interesse corrisposti per il debito contratto. La spesa pubblica è rimasta per tutto il periodo al di sotto della media europea, se si escludono due settori (attorno ai quali, è giusto notare, è fiorita la corruzione politica): le spese militari e quelle per le telecomunicazioni. Si ripete l’apparente paradosso già registrato per il capitale inglese riversatosi negli Stati Uniti all’epoca della costruzione della rete ferroviaria locale o del capitale inglese riversatosi in Egitto all’epoca del boom del cotone all’ombra delle piramidi: capitale tedesco è affluito in Grecia sotto forma di prestiti da parte dei grandi gruppi finanziari e si è rivolto all’acquisto di merci tedesche: carri armati Leopard e tecnologia Siemens per le TLC. Del tutto normale, in un periodo in cui nella Germania post-unificazione si attuava una rigida deflazione salariale.

Con l’introduzione dell’euro i capitali del nord affluivano in massa verso il sud (non c’era rischio di svalutazione) per finanziare l’acquisto dei prodotti del nord (i cui paesi non vedevano rivalutare la loro moneta perché erano anch’essi nella moneta unica). Lo stesso accadeva in Spagna, dove i capitali del nord servivano ad alimentare la bolla immobiliare che a tenuto a galla il bipartitismo PP/PSOE. Il gioco dell’indebitamento estero funzionò fino al 2008. Era rischioso per le banche tedesche, che prestavano troppo. Per farle rientrare senza default parziale dei debiti, si è scelto di distruggere la Grecia ed i paesi mediterranei a colpi di austerità. I tedeschi non vogliono più i nostri soldi. Vogliono vendere fuori dall’UE e non correre il rischio di mutualizzare i debiti nell’UE.

Ma nel frattempo il mercato greco è stato “aperto” nei settori di interesse per l’investimento dei grandi gruppi internazionali, mentre veniva piegato il movimento dei lavoratori a colpi di attacco al salario e creazione di disoccupazione secondo una modalità fissa che si ripete da oltre un secolo.

 

Conclusioni

Dovrebbe ormai essere emerso chiaramente il ruolo del debito nella globalizzazione capitalistica. Gli Stati periferici si indebitano con i grandi gruppi finanziari delle metropoli per l’acquisto di beni e servizi colà prodotti. Per rientrare dal debito si obbliga ad aprire al mercato i settori dei servizi e delle assicurazioni sociali e si peggiorano le condizioni in cui la manodopera si colloca sul mercato del lavoro. Così creando nuove opportunità di investimento per i gruppi finanziari delle metropoli e distruggendo apparati produttivi potenzialmente concorrenti (da questo punto di vista il caso della liquidazione della aziende IRI italiane per rientrare dal debito e poter così entrare nell’euro è paradigmatico).

Rovesciare questo schema dovrebbe essere il compito delle forze democratiche dei vari paesi. Investimenti pubblici nei settori strategici devono condurre a rafforzare gli apparati produttivi delle zone più colpite dalla crisi; fermare l’emorragia di forza lavoro altamente qualificata e poi costretta ad emigrare, favorendo ulteriori lucri da parte delle aree metropolitane; creare lavoro buono e ben pagato; rilanciare la ricerca scientifica e tecnologica, e quindi l’università e la scuola.

Nel corso delle successive ondate di globalizzazione, tuttavia, le istituzioni preposte alla salvaguardia di una piena società di mercato sono state sempre più poste al riparo dalla democrazia, come già richiesto dagli intellettuali conservatori riuniti attorno alla Commissione Trilaterale. All’interno degli attuali assetti dell’Unione europea, per rimanere al vecchio continente, le misure politiche sopra accennate non solo non paiono possibili a causa dei rapporti di forza vigenti tra i paesi, ma sono rese impossibili dai trattati. Se considerate sotto questo punto di vista, le varie polemiche sul patriottismo, sul sovranismo ecc. escono dalle secche di uno sterile dibattito ideologico tra opposte sette e assumono immediata concretezza.

Senza un pieno recupero della sovranità da parte dei popoli l’uscita dalla crisi non è all’ordine del giorno.

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