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Mario Draghi, “La sovranità in un mondo globalizzato”

di Alessandro Visalli

draghie WebNel mondo globalizzato che un sistema di azione altamente complesso[1] ha costruito a partire dai primi anni settanta, non c’è alcuno spazio per la democrazia dei nostri padri e nonni.

Non c’è alcuno spazio, cioè, per la democrazia inclusiva e popolare che muoveva, certo sempre in modo incompiuto e come progetto da rinnovare, dall’eguaglianza dei ‘cittadini’[2] in quanto ‘persone’ e non per le loro capacità (siano esse economiche o cognitive), quanto per il loro diritto di formarsi norma a se stessi. Certo una forma, quella democratica, che è sempre cambiata nel tempo, passando dal parlamentarismo delle origini alla democrazia a suffragio universale e di massa ‘dei partiti’ novecentesca, ed alla trasformazione di questa in una ‘democrazia del pubblico[3], centrata su pratiche di sorveglianza e discredito per le forme della politica.

Il vuoto che anche l’autore diagnostica viene però riempito dall’espressione di una diversa ‘sovranità’: la vecchia definizione del ‘controllo’, ovvero della potenza. Si torna in questo modo alla ‘sovranità’ del discorso politico seicentesco[4]. A ben vedere il discorso di Draghi, nel momento in cui retoricamente difende la pace, è quindi un discorso di guerra, è esattamente il contrario di quel che dice di essere. Quel che accusa ad altri di essere lui è.

Come dice, infatti:

“La vera sovranità si riflette non nel potere di fare le leggi, come vuole una definizione giuridica di essa, ma nel migliore controllo degli eventi in maniera da rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: ‘la pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo’, secondo la definizione che John Locke ne dette nel 1690[3]. La possibilità di agire in maniera indipendente non garantisce questo controllo: in altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità.”

Qui il soggetto di potenza deve ‘controllare gli eventi’ per ‘rispondere’ a bisogni, che sono oggettivati, di cittadini che diventano destinatari passivi.

E i ‘bisogni’ stessi sono ristretti a quelli ‘fondamentali’ (ovviamente scelti oggettivamente, dall’alto di un sapere tecnico, e non scelti politicamente, infatti l’intero discorso a questo punta: a neutralizzare la scelta politica nel solo luogo in cui ancora si dà).

Bisogna infatti notare quel che è lo snodo del dispositivo analitico proposto: un’intenzionale traslitterazione del desiderio di sovranità popolare dall’autogoverno (che ne è il principio autentico[5]) alla ‘indipendenza’ (che è solo un obiettivo eventuale e impolitico). Si costruisce un facile bersaglio per dimenticare la vera questione in campo. Fatto ciò Draghi può dire, quindi, con qualche plausibilità che “l’indipendenza non garantisce la sovranità”, una frase che ruota tutta nella definizione che dà dei termini.

Sono qui all’opera gli interessi di alcuni contro quelli di altri; quando nomina ‘i cittadini’, Draghi intende coloro i quali hanno capacità economica indipendente e capitale, come, del resto, li intendeva Locke[6].

Si può dire in un modo diverso: per i capitali europei, e per chi li detiene, è meglio la proiezione di potenza che può garantire la Ue, anche se il prezzo da pagare (per gli altri) è che la sovranità si sposti dalla democrazia (‘fare le leggi’) alla mera capacità di dominare. Ed anche se dominare implica che i cittadini non mettano parola, ma si facciano servire ‘per i loro bisogni fondamentali’ (ovvero quelli che le élite tecnocratiche, di cui Draghi è l'esponente idealtipico, definiscono come tali).

Certo Mario Draghi non è né un letterato né, tantomeno, un filosofo, ma questa frase seminale nel suo discorso a Bologna è davvero un abisso:

“Al cuore del dibattito sui meriti della cooperazione europea sta una percezione che appare in superficie inevitabile: da un lato l’integrazione genera indubbi benefici; dall’altro, perché questi si materializzino è necessaria una cooperazione talvolta politicamente difficile da conseguire o da spiegare. Questa tensione tra i benefici dell’integrazione e i costi associati con la perdita di sovranità nazionale è per molti aspetti e specialmente nel caso dei paesi europei, solo apparente. In realtà in molte aree l’Unione europea restituisce ai suoi paesi la sovranità nazionale che avrebbero oggi altrimenti perso.”

Qui si unisce in un solo enunciato:

  • La percezione di una superficie;
  • indubbi’ benefici, che, però, contemporaneamente e contraddittoriamente non sono (perché si devono “materializzare” grazie ad una cosa che non c'è);
  • la cooperazione difficile, sia da fare sia da ‘spiegare’ (a chi? e cosa, esattamente?);
  • Tutto questo che diventa, improvvisamente, un trade off, una ‘tensione tra benefici’ [quelli che non ci sono perché manca una loro condizione necessaria] e costi derivanti dalla ‘perdita di sovranità nazionale’ [che, invece c'è].
  • Ma questa è ‘solo apparente’, tuttavia non per tutto e sempre, lo è solo ‘per molti aspetti’.
  • Perché “in molte aree” [ovvero non in tutte] è l'Unione che “restituisce ai suoi paesi la sovranità che avrebbero oggi perso”.

Al cuore del dibattito sta dunque una percezione alla superficie inevitabile, ma in profondità componibile: l’integrazione dà benefici, ma perché ci siano davvero è necessaria più cooperazione. E la cooperazione, come vedremo, garantisce anche la sovranità, insieme ai benefici. Sembrerebbe una quadratura del cerchio, ma è ottenuta da un trucco: chiamare ‘sovranità’ ciò che è solo la potenza.

Qui la vera ‘sovranità’, ovvero il potere del sovrano, la demo-crazia, è dimenticata, scompare sullo sfondo di questo discorso compiutamente neo-imperiale[7] che interamente si muove nella logica della potenza. Una logica che, però, è un frattale scalare: se la macchina da guerra della Ue agisce contro i nemici esterni (gli Usa e la Cina-Russia), questa, identicamente, si manifesta all’interno nella grammatica del forte/debole. Lungi dalla retorica della cooperazione la verità dello schema di competizione esteroflesso europeo è che questa: la competizione, si esercita in primo luogo entro l’Unione. Si esercita precisamente come competizione tra capitali diversamente centrali, tra ‘metropoli’ e periferie, quando non verso colonie interne. Si esercita nella lotta distributiva interna e trasversale alle diverse componenti sociali ed i diversi sistemi produttivi specializzati.

Ma veniamo al discorso di Mario Draghi: dopo l’avvio retorico, la cui funzione è di incorniciare in esempi alti quel che dirà, viene la frase sopra ricordata sul ‘cuore del dibattito europeo’. Immediatamente dopo è nominato ciò che considera di essenziale nel progetto europeo, e ciò che ‘i cittadini europei apprezzano’ (non proprio tutti, a dir la verità): “i benefici dell’integrazione economica”, ovvero “la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi, cioè il mercato unico”. In altre parole, l’essenziale è la messa in competizione dei sistemi-paese a vantaggio degli individui capaci di prodursi come capitale[8], ovvero di spostarsi portando con sé il proprio ‘capitale umano’[9], di produrre merci dove i fattori produttivi sono più convenienti e venderle dove il loro prezzo è più alto, massimizzando l’estrazione di profitto; di spostare i capitali (il principale ‘servizio’) seguendo i minimi differenziali di profittabilità.

Ha ragione Mario Draghi, questa è l’essenza del progetto europeo, e il motore potentissimo della dinamica di impoverimento relativo delle classi medie e lavoratrici nei confronti delle classi capaci di fare buon uso della mobilità, in quanto in possesso del capitale sociale, culturale e monetario necessario[10].

Ma, come sottolinea subito dopo, se il 70% degli europei è ancora a favore della politica commerciale e del mercato comune (spesso perché non collega questo con i problemi crescenti che incontra nella vita quotidiana), solo il 40% degli europei ha fiducia nelle istituzioni europee, con un impressionante calo di 15 punti in dieci anni. Se poi si vedesse meglio probabilmente ci sarebbero anche differenze regionali. Chi non ha questa fiducia avrebbe per Draghi il desiderio di “riappropriarsi della sovranità nazionale” e riacquistare, secondo Draghi, la “indipendenza”. Partendo da questa opinione che reputo errata, ma funge da snodo centrale si sviluppa l’intero argomento: non è la non-dipendenza ad essere il punto, quanto la auto-nomia, ovvero l’essere capaci di determinarsi, di auto-determinarsi. Ovvero è questo a rappresentare la sovranità[11].

Invece Draghi usa la riduzione alla non-dipendenza per dire che si confonde con la sovranità. E qui viene il passaggio sopra ricordato, e straordinario, sulla “vera sovranità”. Non è il potere di farsi da sé le proprie leggi, come per secoli abbiamo ritenuto, a renderci democraticamente sovrani, no, è il ‘controllo’ degli eventi. Ovvero è il potere a determinare la sovranità; si tratta a ben vedere di cancellare il novecento, con l’espansione della democrazia popolare, e di slancio anche ottocento e settecento per tornare a Hobbes ed a Locke (solo il secondo è citato, ma avrebbe meglio servito il primo). È solo così che può dire che la non dipendenza da altri non garantisce la sovranità.

È evidente che Draghi non è un filosofo politico, che altrimenti questa frase gli avrebbe fatto tremare la penna: la non dipendenza non garantisce la sovranità. Ma lui pensa da economista, e dunque intende, malgrado le auliche citazioni, qualcosa di più semplice: essere giuridicamente indipendenti non significa di avere la potenza necessaria (finanziaria, economica e militare), per essere capaci di difendere il proprio spazio vitale. Infatti fa uno strano esempio con paesi “totalmente al di fuori dell’economia globale” (chi? Forse la Corea del Nord?) che avrebbero bisogno dell’aiuto alimentare per i cittadini. Uno strano esempio per uno dei rappresentanti di un continente in costante deficit alimentare.

Ma qui, a questo punto, l’ospite irrompe nella stanza:

“La globalizzazione aumenta la vulnerabilità dei singoli paesi in molte direzioni: li espone maggiormente ai movimenti finanziari internazionali, a possibili politiche commerciali aggressive da parte di altri Stati e, aumentando la concorrenza, rende più difficile il coordinamento tra paesi nello stabilire regole e standard necessari per il conseguimento al proprio interno degli obiettivi di carattere sociale. Il controllo sulle condizioni economiche interne ne risulta indebolito.

In un mondo globalizzato tutti i paesi per essere sovrani devono cooperare. E ciò è ancor più necessario per i paesi appartenenti all’Unione europea.

La cooperazione, proteggendo gli Stati nazionali dalle pressioni esterne, rende più efficaci le sue politiche interne”.

Una ben strana logica, perché se il problema, come dice, è la globalizzazione, allora sembrerebbe che la soluzione debba essere ridurla[12], ma questo è un secolare tabù dei liberali[13]. Anche se a ben leggere Draghi qui dice che l’interconnessione aumenta, e non diminuisce, l’aggressività[14], e la concorrenza, rendendo più difficile il coordinamento. La strana logica nasce di qui, la globalizzazione è il male, ma la soluzione è creare una isola grande di cooperazione, la soluzione è diventare un grande attore per spostare ai propri confini aggressività, concorrenza, ed al suo interno lasciare pace, cooperazione.

Ciò che è male fuori crea la necessità del bene dentro; un concetto teologico interessante.

Ma Draghi non è neppure un teologo, anche se gli va vicino[15], e quindi a questo punto va ai suoi cari numeri e ci dice che “la globalizzazione ha profondamente cambiato la natura del processo produttivo” (una cosa che un filosofo scriverebbe con prudenza), e “l’intensità dei legami tra i paesi”, (questo più pacifico). Ma in che senso? Scopriamo che la “proprietà transnazionale di attività finanziarie” è cresciuta dal 70% del Pil nel ’95 al 200% di oggi (dimenticando di dire di quante volte è raddoppiata in generale[16]); ma anche che il commercio con l’estero è aumentato dal 43 al 70% del Pil (dimenticando di togliere quello che è solo commercio entro lo stesso soggetto economico tra basi diversamente localizzate, ovvero la gran parte di questo totale); che il 30% del valore aggiunto è prodotto attraverso catene del valore (dimenticando di connettere questo fenomeno con l’elusione fiscale, che spesso è l’unica motivazione di ‘catene del valore’ così lunghe). Ma tutto questo da cosa dipende? Forse dalle regole del Wto, imposte dall’egemone americano per rispondere ad una esigenza di valorizzazione del capitale e specificamente rispondere alle potenti lobbies interne? No, per Draghi è solo effetto della tecnologia. E questa è indipendente dai processi di formazione del valore[17]? Ovvero da ciò che serve?

Draghi ha le sue certezze, la globalizzazione è natura ed è progresso. Anche se è cattiva e bisogna proteggersi da essa, alzando delle frontiere, creando addirittura un superstato che sia all’altezza dei concorrenti.

Infatti si arriva subito, in questo discorso abbastanza scopertamente neo-imperiale (e quindi anche neo-coloniale), a definire “i blocchi”: Nafta da una parte e Asia dall’altra.

Nella testa di Draghi, insomma, c’è una guerra mondiale (“a pezzi”, come disse il Papa) in corso. E quindi bisogna vincerla. La Unione Europea è l’arma di questa guerra.

Se si fa caso alla natura in fondo teologica del discorso, ed alla mobilitazioni di guerra, si capisce che andremo incontro a tre mesi davvero complicati, nei quali chi non si arruola sarà oggetto delle più aspre pressioni.

Di seguito, senza temere il ridicolo, cita gli studi dei famosi modelli econometrici della BCE (quelli che hanno fino ad ora sbagliato il 100% delle previsioni a breve e medio termine[18]), per dire che il mercato unico (non la moneta unica, si badi) ha contribuito a incrementare del 9% il Pil europeo complessivo, anzi, che “il mercato unico contribuisca ad un livello del Pil per l’Unione Europea che è più alto del 9% circa”[19], che potrebbe non essere la stessa cosa. Di seguito, ovviamente, ‘calcola’ che il Pil dell’Italia si abbasserebbe del 7% in caso di barriere commerciali e quello della Germania del 8%[20].

“Ma quanto più i vari paesi sono tra loro collegati, tanto più esposti essi sono alla volatilità dei flussi di capitale, alla concorrenza sleale e ad azioni discriminatorie, quindi ancor più necessaria diviene la protezione dei cittadini. Una protezione, costruita insieme, che ha permesso di realizzare i guadagni dell’integrazione, contenendone in una certa misura i costi. Una protezione che attraverso strutture e istituzioni comunitarie limita gli spillover, assicura un uguale livello di concorrenza, protegge da comportamenti illegali, in altre parole, una protezione che risponde ai bisogni dei cittadini, e quindi permette ai paesi di essere sovrani”.

Se si concorda con questa descrizione fortemente controfattuale, allora la Ue è una buona cosa (pur essendo nella sua essenza una macchina di guerra), peccato che la prima parte sia vera e la seconda falsa.

L’argomento prodotto, e davvero classico nel suo sviluppo, è che nelle relazioni tra l’Unione Europea, come soggetto unitario, ed il “resto del mondo” la dimensione determina la forza della voce, tale da poter “essere ascoltata nei negoziati mondiali”. Infatti “pochi paesi europei” da soli hanno voce, “ma insieme la loro voce è ben più grande”. Sembrerebbe un argomento forte, ma ha alcuni presupposti nascosti: in primo luogo, che la “voce” comune europea vada nella stessa direzione della “voce” dei paesi presi isolatamente, ovvero che i paesi europei, almeno i maggiori, abbiano lo stesso interesse rispetto al “resto del mondo”. L’estrema complessità del gioco geopolitico è qui ridotta, in altre parole, ad una sorta di giochino da bambini, nel quale la banda più grossa vince. Peccato che le cose siano molto meno semplici e molto meno omogenee, e che gli interessi della Germania sullo scacchiere orientale, ad esempio, siano diversi da quelli dell’Italia in quello mediterraneo, e della Francia sullo stesso. Faccio questo esempio a tre paesi, perché se, come dice Draghi, solo “pochi” paesi sarebbero in grado di avere una politica internazionale (secondo una datata logica, che tanto assomiglia a quella di Treitschke[21]) è ovvio che almeno il terzo paese europeo, con un Pil molto vicino a quello del secondo ed una posizione geostrategica di grandissima rilevanza dovrà essere tra questi.

La conclusione è che porsi fuori può aumentare l’indipendenza, ma non la sovranità.

Di seguito Draghi estende il discorso al commercio internazionale, mostrando come anche questo soggiaccia a logiche di forza[22] che spingono all’erosione del welfare e alla competizione al ribasso. Cosa che avverrebbe, però, solo “quando i paesi non sono grandi abbastanza”; dunque è “difficile che ciò avvenga con l’Unione Europea”. Strano, in tutti questi anni abbiamo visto che è proprio l’Unione Europea che attiva la competizione, che impedisce di opporre politiche industriali, ovvero di regolare i flussi di capitale, e di trattenere le imprese. La sovranità potenziale europea nei campi della tassazione, della protezione del consumatore, e degli standard del lavoro, la deve aver visto solo lui; noi abbiamo visto la sistematica svalutazione del lavoro, la competizione al ribasso tra i paesi europei per la tassazione più ‘market free’ (ovvero più elusiva e più dannosa per il welfare), e di erosione costante di questo e della base fiscale.

Credo che in questi ultimi dieci anni abbiamo vissuto in un altro paese, ed in effetti è proprio così. Il paese che frequenta Draghi, e da decenni, non è lo stesso che frequentiamo noi.

Non che tutte le cose elencate nel discorso di Draghi siano false, alcune sono effettivamente degli avanzamenti, proprio perché il mondo procede sempre in modo complesso e in ogni grande organizzazione ci sono forze che spingono in direzioni divergenti; capita quindi, a volte che una di queste riesca ad ottenere qualcosa. Ma la direzione generale del programma europeo è chiara: essere strumento per far valere la capacità competitiva del grande capitale nordico, e dei capitali nazionali subalterni e/o sinergici, sia nella forma mobile e finanziaria, sia fissa ed industriale. Tutte le cose che gli stati membri in teorie “possono” fare, di fatto non lo fanno. E non lo fanno perché sarebbe a detrimento dello Stato egemone, cosa che da qualche anno è ben visibile. Ma non è questione tanto di “Stato”, si tratta, a ben vedere, delle forze sociali ed economiche egemoni, che intendono, semplicemente, continuare ad accumulare capitale, aumentando l’ineguaglianza che lo rende possibile. Alcuni di questi “possono”, sono davvero ironici, sotto questo profilo: “Inoltre gli Stati membri possono, attraverso l’Unione europea, coordinarsi per difendere la propria rete di protezione sociale senza dover imporre restrizioni al commercio”.

Qui l’aspirante teologo e filosofo ripiega sull’aspirante umorista.

Di seguito l’impressione di un discorso surreale si accentua, l’Unione Europea è descritta come una sorta di organismo di cooperazione che ‘conferisce’ un potere dall’alto verso il basso, come se ne fosse la fonte. La narrazione qui è straordinaria: “si ritenne” che la politica economica fosse troppo specifica per affidarla ad una tecnocrazia sovranazionale (come la Commissione o la Bce). Non ‘restò’ al livello degli Stati nazionali democratici, in quanto questi, fonte della sovranità che viene dal popolo, non ritennero che fosse da devolvere, ma, al contrario, fu lasciata da un non precisato vero sovrano (che è il “noi” dal quale, a ben vedere, Draghi parla).

“Nella sua storia l’Unione europea ha seguito due metodi di cooperazione. In taluni casi, sono state create istituzioni comunitarie a cui è stato conferito un potere esecutivo, come ad esempio, nel caso della Commissione per ciò che riguarda le politiche commerciali o la BCE per la politica monetaria. In altri casi, quali la politica di bilancio o le riforme strutturali, sono i governi nazionali a detenere il potere esecutivo, legati però tra loro da regole comuni.

Questi settori della politica economica furono considerati troppo specifici della storia dei singoli paesi per poter essere affidati a una organizzazione comune. Si ritenne cioè che l’esercizio di una sovranità nazionale che mantenesse questa specificità fosse l’unica forma di governo possibile in questi settori: la scelta di affidarsi a regole per disegnare la cooperazione in queste aree fu vista come la sola coerente con questa visione. Occorre però chiedersi quale successo abbia avuto questa scelta”.

Quindi ci sono due modelli possibili: uno è la devoluzione di poteri e il secondo la conservazione a livello nazionale. Per Draghi, nel primo caso “a parere di molti il risultato fu positivo” (di altri no), e quindi quella che chiama “la cooperazione affidata ad istituzioni” (non democraticamente responsabili) è da considerare superiore. Ciò per due ragioni: le istituzioni indipendenti sono più flessibili verso gli obiettivi, e più credibili. Si tratta del set di argomenti proposto alcuni anni da La Spina e Majone nel difendere lo “Stato regolatore”[23].

Quel che chiede dunque Draghi, la ragione del suo discorso, e lo sforzo condotto in uno dall’egemone tedesco, insieme al suo junior partner francese, in questa fase è di togliere anche la politica fiscale ai parlamenti sovrani nazionali per darli ad una “Istituzione indipendente”. Per promuoverla agita il sogno di diventare come gli Usa (trascurando i fattori di potenza meno raggiungibili, ma più decisivi, come il deterrente nucleare e le decine di portaerei, per non parlare delle tragedie del settecento e dell’ottocento che hanno tenuto a battesimo l’Unione[24]).

Ma l’altro è il più surreale: la neutralizzazione dei parlamenti sovrani nel loro potere più caratteristico, di fare i bilanci, ovvero di decidere la distribuzione delle risorse tra le diverse classi e territori, è difesa come democratica. Ciò in un senso molto particolare, e tipico del discorso neoliberale: mandati precisi comporterebbero una maggiore facilità per i singoli cittadini di valutare se sono stati traditi. La spoliticizzazione del discorso pubblico procede qui, insieme alla concezione tutta tecnica delle scelte distributive.

Nelle conclusioni ribadisce che “solo gli Stati più grandi riescono a essere indipendenti e sovrani allo stesso tempo”, e quindi la Ue è, precisamente, quella istituzione che può rendere gli stati membri sovrani in modo condiviso, cosa che è meglio di niente. Dunque bisogna adattarsi (un altro luogo tipico del discorso neoliberale).

Questo argomento finale ha una somiglianza davvero notevole con la dottrina prussiana che ha determinato due guerre mondiali (ed una regionale): Durkheim parlava di “una certa disposizione mentale”, fondata sulla volontà bellicosa (di competere), sul disprezzo per il diritto internazionale (per la logica ‘giuridica’, ovvero democratica), sulle ‘atrocità ordinate da regolamenti’ ed un “sistema mentale e morale formatosi specialmente in previsione della guerra”, un sistema naturalmente imperialista. Treitschke vede nello Stato (in questo caso nella Unione Europea come macrostato) “l’unico e vero sovrano”, l’unico libero nella sua capacità di determinare, al di là di ogni vincolo morale e di ogni consenso, indipendente e assoluto. Uno Stato è ciò che “non può ammettere nessuna forza al di sopra di sé”. In sostanza “lo Stato è potenza” ed appartiene esclusivamente a se stesso, è tale solo nella misura e in quanto è forte. I piccoli Stati non sono davvero tali, sono da disprezzare, sono kleinstaaterei, muovono al riso, sono “contraddizioni incarnate”. Dunque, sostiene il prussiano, questi devono sparire ed essere “ingoiati” dagli Stati più grandi.

Sappiamo cosa ha portato questa logica. Al ‘Deutschland uber alles’, e all’unico dovere, sopra ogni morale ed ogni politica, di “farsi largo nel mondo”, soggiacendo a quella che Durkheim chiama “una sorta di ipertrofia mostruosa della volontà, una specie di mania del volere”[25], di elevarsi al di sopra di tutte le forze, di ogni cosa, della morale, delle altre volontà, delle leggi.

La logica, di questo discorso, ricondotta al suo principio è simile: lasciate fare a noi che ne capiamo e noi vi garantiremo vita e beni. In pratica è il principio del contratto tra padrone e schiavo, molto più che premoderno. Non potrà funzionare.

A questa volontà di potenza il grande sociologo francese, mentre i cannoni tuonano, obietta una cosa semplice:

“la Germania non può compiere la missione che si è prefissata senza impedire all’umanità di vivere liberamente, e la vita non si lascia incatenare in eterno. Con un’azione meccanica si può contenerla, paralizzarla per un certo tempo, ma poi finisce sempre col riprendere il suo corso abbattendo gli ostacoli che si opponessero al suo libero movimento”.

Io, sinceramente, credo che siamo a questo[26].


Note
[1] - Fatto di volontà di potenza nazionali, attori economici monopolisti in cerca di soluzioni, forze politiche liberali, cui si sono piegate entusiasticamente le élite socialdemocratiche in cerca di rilegittimazione.
[2] - Termine, come noto, messo in campo dalla rivoluzione francese.
[3] - Una delle descrizioni migliori in Rosanvallon, “La politica nell’età della sfiducia”, che vede una società decentrata ed incapace di pensarsi come unità esercitare pratiche plurali di sorveglianza, interdizione, giudizio, verso un potere formalizzato che si è nel tempo autonomizzato. Un potere di cui l’istituzione di Draghi è esempio chiarissimo, e che intende, non a caso estendere, reagendo alla sorveglianza ed al discredito ricevuto con ulteriore distanza.
[4] - Nel quale enti ‘sovrani’, perché capaci di difendere i confini, si contrapponevano gli uni agli altri in una competizione di potenza.
[5] - Si veda, Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”, 1997
[6] - Si veda, ad esempio, Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore
[7] - Così sono le nostre élite, ormai, non riescono neppure a controllare un breve discorso, catturate nelle contraddizioni che hanno, esse stesse, suscitato.
[8] - Si veda, per questo concetto, essenza del principio neoliberale, Dardot e Laval, “La nuova ragione del mondo
[9] - Trascurando il fatto che questo è prodotto sociale e specificamente di investimenti in capitale fisso sociale e istruzione.
[10] - Si veda, ad esempio, Arnaldo Bagnasco, “La questione del ceto medio”.
[11] - Per il nesso tra libertà, autonomia, autodeterminazione e diritti sociali e civili vedi Axel Honneth, “Il diritto della libertà”.
[12] - Come, ad esempio, non si stanca di dire Dani Rodrik, ad esempio in “E’ tempo di pensare in proprio al libero scambio”, ma a suo tempo disse persino un mostro sacro come Kenneth Arrow, 1994, in “Problemi nell’applicazione del libero mercato”, oppure si veda Steve Keen, “Circa la globalizzazione ed il libero scambio” e Reinhard Schumacher “Decostruendo la Teoria dei Vantaggi Comparati”.
[13] - Si tratta proprio del paradigma centrale della rivoluzione liberale sin dal seicento: il ‘dolce’ commercio incrementa la ricchezza totale e garantisce la pace. In alcune versioni aumenta la ricchezza perché garantisce la pace, dall’opera di Ricardo in poi (1803) aumenta la ricchezza perché ognuno fa quel che sa fare meglio.
[14] - Come sosteneva anche Keynes in “Moneta internazionale
[15] - Come il suo collega Monti, si veda “Circa Monti e l’effetto tsipras”.
[16] - La proprietà di attività finanziarie, indipendentemente se sia transnazionale o non, è cresciuta di decine di volte nel frattempo, il dato è quindi poco significativo, anzi modesto.
[17] - Per un punto di vista diverso si veda, ad esempio: Annette Bernhardt “Governare il sentiero di sviluppo tecnologico”.
[18] - Di recente un economista del FMI, Prakash Lougani, ha dimostrato che tra 150 recessioni verificatesi negli ultimi trenta anni solo due sono state previste dagli occhiuti modelli delle istituzioni internazionali.
[19] - Cit. ‘t Veld, J. (2019), “Quantifying the Economic Effects of the Single Market in a Structural Macromodel”, European Economy Discussion Paper, n. 094, Commissione europea, febbraio.
[20] - cit sempre Velt: “Questo scenario presume un’ipotesi controfattuale di un ritorno alle regole commerciali del WTO e applica le aliquote della nazione più favorita (NPF) ai dazi sulle merci. Per le barriere non tariffarie, si basa su stime calcolate per il commercio tra l’UE e gli USA. Cfr. in ‘t Veld, J. (2019), op. cit.”
[21] - Amico di Bismark e principale teorico prussiano dello stato di potenza, secondo il quale “lo Stato è potenza” ed appartiene esclusivamente a se stesso, ed è quindi tale solo quando e nella misura in cui è forte. Per il politologo ‘Nell’immagine del piccolo stato, egli dice, c’è qualcosa che muove al riso. In sé, la debolezza non ha niente di ridicolo, ma non è più lo stesso quando ostenta atteggiamenti di forza’. Poiché l’idea di Stato evoca quella della potenza, uno Stato debole è una contraddizione incarnata.” (p.25). Dunque i piccoli stati devono sparire per essere “ingoiati” dagli stati più grandi. Si veda: “Emile Durkheim, “La Germania al di sopra di tutto
[22] - Il secondo modo in cui la globalizzazione vincola la sovranità di un paese sta nel limitarne la capacità di emanare leggi e fissare standard che riflettano gli obiettivi sociali del paese stesso.
L’integrazione del commercio mondiale tende a ridurre l’autonomia dei singoli paesi nel fissare le regole, perché con il frammentarsi della produzione nelle catene del valore, aumenta l’importanza di standard comuni. In generale questi non vengono fissati nell’ambito di un processo multilaterale come il WTO ma vengono imposti dalle economie più grandi che hanno una posizione dominante nella catena del valore. Le economie più piccole solitamente non possono che accettare passivamente le regole stabilite da altri nel sistema internazionale.
Analogamente, l’integrazione finanziaria globale riduce il potere che i singoli paesi hanno di regolare, tassare, fissare gli standard di protezione sociale. Le imprese multinazionali influenzano la regolamentazione dei singoli paesi con la minaccia di ricollocarsi altrove, scelgono i sistemi fiscali a loro più favorevoli spostando tra le varie giurisdizioni i flussi di reddito e le attività intangibili. Tutto ciò può spingere i governi a usare gli standard di protezione sociale come uno strumento di concorrenza internazionale: la cosiddetta “corsa al ribasso”. Per un paese diventa più difficile la difesa dei suoi valori essenziali, quindi la protezione dei suoi cittadini: si ha inoltre un’erosione della base fiscale societaria che riduce il finanziamento del welfare state. L’OCSE stima la perdita di gettito causata dall’elusione fiscale tra il 4% e il 10% del totale del gettito dell’imposizione sul reddito societario.
[23] - A. La Spina, G. Majone, “Lo stato regolatore”.
[24] - Si veda, “Costruire una nazione federale: il caso degli Stati Uniti”.
[25] - Emile Durkheim, op.cit., p. 77
[26] -Commenta un amico su Facebook: Qui l'ingenuità filosofica e storica di Draghi ci fa un bel regalo: l'esplicitazione del principio a cui si rifanno lui, il suo ceto e le istituzioni che dirigono. E' un principio molto semplice: might makes right. Esporlo così, nudo e crudo, è un fatto abbastanza nuovo nella storia istituzionale d'Europa, perché la storia della civiltà europea è la storia della dialettica permanente tra spirito e potenza. Qui, lo spirito brilla per la sua assenza, un'assenza che si manifesta con l'elisione completa del problema “legittimità”. Perché è verissimo che ogni classe dirigente è tenuta ad assicurare “il controllo degli eventi”, come è vero che l'indipendenza di uno Stato non ne assicura la sopravvivenza e la capacità di difendere se stesso e i propri cittadini (questo è il lato “potenza”). Ma è anche altrettanto vero che la sovranità, cioè il diritto di ottenere obbedienza all'interno e riconoscimento all'esterno, non esiste se non in base a un principio legittimante condiviso da chi comanda e chi ubbidisce (e questo è il lato “spirito”); che nell'Occidente odierno non può che essere democratico. Il principio legittimante può essere diverso, come no: trascendente come nell'ancien régime, oligarchico, aristocratico, etc. Però ci deve essere, altrimenti il potere sovrano è puro potere di fatto: appunto, “might makes right”. Questa scorciatoia filosofica, che ha certo il pregio della semplicità, presenta però il difetto rilevato da Durkheim: che suscita contro di sè un'inimicizia simmetrica necessaria, interna ed esterna. Perché sulla base del principio “might makes right” la “cooperazione” cara a Draghi diventa nuda obbedienza al comando, quindi asservimento; e non è facile espiantare dal cuore umano il desiderio di libertà. Il solo principio legittimante implicato da Draghi (non esplicitato) è la legge economica, intesa come “legge scientifica” secondo il positivismo scientista più puro, questo sì ottocentesco; e la capacità della tecnocrazia di assecondarla e dirigerla (Saint-Simon, Comte). Manca (per ora, s'immagina, nei pensieri di Draghi) la forza vera e propria, militare, per difendere lo spazio economico contro l'esterno e assicurare la “cooperazione” all'interno. Non ho idea se Draghi si renda conto che il progetto da lui delineato, nella sua logica, è un dispotismo totalitario paragonabile a una URSS con la proprietà privata dei capitali e dei mezzi di produzione: il modello contemporaneo a cui tende la visione del mondo di Draghi è la Repubblica Popolare Cinese, con Auguste Comte al posto di Confucio (che è un fondamento più solido, ma non si può avere tutto).

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