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senso comune

Il lavoro ai tempi dei 5 Stelle

di Domenico De Blasio

1521042251237 1521042261.jpg com e il lavoro a 5 stelle Questa settimana il senato ha approvato il testo definitivo del cosiddetto “decreto dignità”, il primo atto del nuovo governo dichiaratamente (forse anche esclusivamente) pentastellato. Per onestà intellettuale bisogna subito riconoscere che si tratta del primo provvedimento dai tempi di tangentopoli in cui pare che si cerchi di imprimere un cambio di direzione alla deregulation selvaggia del mondo del lavoro, aspetto che ha generato un duro e lungo dibattito intorno alle novità introdotte dalla legge. La cosa non dovrebbe essere nuova in una democrazia viva e sana, eppure difficilmente si ricordano altri momenti in cui il discorso politico-mediatico si sia concentrato così tanto sul merito di un progetto legislativo più che sulle posizioni politiche. Era accaduto col referendum costituzionale del 2016 che, non a caso, rischiava di sancire il trionfo del liberalismo targato Renzi e invece registrò una decisa e partecipata rivolta popolare. Finalmente le posizioni in campo circa la visione del lavoro nel sistema italiano sono necessariamente venute allo scoperto, il Partito Democratico si è definitivamente manifestato per quello che è, un partito neoliberale al servizio della grande impresa privata e, diciamocelo, vedere Gennaro Migliore o Deborah Serracchiani che si sbracciano per difendere i poveri imprenditori, non più liberi di fare come meglio credono, è un vero piacere. Gli unici interventi in direzione lavorista, anche se squisitamente pretestuosi, sono arrivati dai banchi di LeU e sono stati votati solo dai suoi esponenti. Anche questo però darà molto di cui parlare a chi dovrà fare del discorso sul lavoro un discorso politico negli anni a venire; se infatti un esame di coscienza è doveroso per quei parlamentari che oggi chiedono la reintroduzione dell’articolo 18 e ieri hanno votato il Job’s Act, siamo sicuri che il fisiologico gioco di accuse reciproche che questo esame comporta (sempre in quella democrazia sana in cui LeU non muore dalla voglia di ricongiungersi col PD) non sarà avaro di sorprese.

 

Di Maio, il precariato e il lavoro che cambia

Di tutti gli argomenti che tocca il decreto quelli che saltano più agli occhi sono quelli che hanno generato l’aspro dibattito di cui dicevamo sopra: si tratta di misure dalla dichiarata intenzione di contrastare il precariato e di riequilibrare i rapporti di forza tra il datore di lavoro e il dipendente. In estrema sintesi:

  1. si prevede il ricorso al tempo determinato per un massimo di 24 mesi e fino a 4 rinnovi (in precedenza erano 36 mesi e 5 rinnovi) per i contratti a tempo determinato;
  2. si introduce l’obbligo della causale per i rinnovi dei contratti a tempo determinato successivi ai primi 12 mesi (totalmente abolito dal decreto Poletti, prodromico del Job’s Act), prevedendo una sanzione amministrativa per le violazioni e una maggiorazione del cuneo fiscale dello 0,5 per i rinnovi;
  3. si aumenta dal 20% al 30% la quota ammissibile fra lavoro a tempo determinato e interinale sul totale della massa di dipendenti della singola azienda prevedendo una sanzione amministrativa per le violazioni;
  4. Si aumenta il massimo del risarcimento previsto per chi subisce un licenziamento illegittimo a 36 mensilità, a fronte delle 24 previste dal Job’s Act.

Una prima riflessione va fatta sulle perplessità che sono state opposte a queste norme, sul comportamento indecoroso degli apparati dello stato che col loro terrorismo mediatico (vedi l’INPS di Boeri) hanno tentato di ostacolare il processo legislativo andando ben oltre il margine delle loro competenze. L’obiezione più frequente mossa alla riduzione del periodo di tempo determinato si riferisce al fatto che questa misura avrebbe aumentato in maniera significativa i licenziamenti, o meglio i mancati rinnovi, e la disoccupazione. L’obiezione più indecorosa, invece, riguarda l’aumento esponenziale dei contenziosi dovuto al reinserimento della causale per i rinnovi dei contratti a tempo determinato. Per la prima volta da tanto tempo il problema del lavoro viene affrontato dal legislatore partendo dal sacrosanto presupposto dello squilibrio delle forze in campo; i due interventi a cui accennavo tentano, infatti, timidamente di ribilanciare il potere contrattuale dei lavoratori introducendo delle misure che dovrebbero aumentare le loro tutele. Si tratta di correttivi minimi che abbracciano appieno l’approccio esclusivamente privatistico in cui si vogliono inquadrare i rapporti di lavoro. La riduzione dei tempi e dei rinnovi e l’aumento delle penali per i contratti a termine non disconoscono la necessità strutturale dei medesimi, e l’inserimento della causale si limita a pretendere una legittimità formale della natura temporanea del rapporto. Eppure un coro di disapprovazioni indignate e di previsioni catastrofiche si è levato sia dai banchi dell’opposizione che dal mondo delle imprese; anche se perfino il parlamento europeo ha denunciato in una recente risoluzione la necessità di ridurre il lavoro precario riordinando la materia; e anche se la maggior parte dei tecnici del settore sposa la direzione imboccata dal decreto e auspica ancora più tutele. Si tratta di una mutazione politica tutto sommato positiva: finalmente si toglie il velo di ipocrisia che caratterizzava la discussione pubblica sul lavoro e mostrava imprese, governo e sindacati preoccupati e concordi nel dover irrimediabilmente peggiorare le condizioni dei lavoratori al fine di rendere l’Italia un paese concorrenziale su scala globale e “salvare posti di lavoro”.

Era una narrazione tossica che innescava il circolo vizioso in grado di giustificare lo smantellamento del sistema previsto dallo Statuto dei Lavoratori arrivando fino alle leggi del governo Renzi. Sarebbe lecito domandarsi perché imprese e datori di lavoro siano così preoccupati dal non poter rinnovare un contratto che per definizione è dovuto a problematiche di natura congiunturale e non ad un progetto di assunzione, eppure il contratto a tempo indeterminato continua a muoversi nel quadro delle tutele crescenti (ma anche tutele assenti) previsto dal job’s act. E ancora, come fanno gli studi di Confindustria a prevedere un aumento dei contenziosi dovuto all’inserimento delle causali? Sembra quasi che si muovano nella piena consapevolezza di un abuso delle forme contrattuali a scadenza e che abbiano paura di non poter soddisfare dei criteri minimi di liceità formale. Ma le aule di un tribunale, in uno stato di diritto, non dovrebbero essere lo spauracchio degli attori sociali, semmai il luogo prediletto di realizzazione della legge. Si continua ad assistere invece alla recita patetica in cui il mondo delle imprese fa di tutto per conservare i risultati tanto faticosamente raggiunti che gli davano definitivamente carta bianca nei rapporti con i dipendenti e, allo stesso tempo, porta avanti una pantomima tesa a negare a tutti i costi una verità tanto banale quanto dissimulata: l’imprenditore è un soggetto economico che si muove sostanzialmente nell’ottica egoistica di massimizzazione dei profitti. Bisogna gridare questa verità a gran voce e allora sarà molto più semplice evidenziare le insidie dell’approccio privatistico del Movimento Cinque Stelle, così come risulterà lampante, qualora ce ne fosse ancora bisogno, la natura liberista del Partito Democratico, praticamente allineata ai partiti europei di centro destra. Riguardo alla sedicente sinistra parlamentare di Liberi e Uguali aspettiamo con trepidazione di sapere cosa vogliono fare da grandi mentre si godono il loro secondo, terzo, o quarto mandato e continuiamo a chiederci che senso abbia votare il Job’s Act per poi invocare la reintroduzione dell’articolo 18. Come sarebbe bello conoscere le dinamiche di quelle votazioni.

 

Di Maio e il principio Lavorista

La costituzione del 1946 è incentrata (fra gli altri) sul principio lavorista. Fin dal primo articolo (“l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro…” ) si stabilisce la centralità del lavoro come primo diritto sociale. Non si tratta chiaramente di un diritto soggettivo perfetto e quindi azionabile in giudizio da parte del singolo individuo ma di un indirizzo politico; la costituzione vede nel lavoro il mezzo principale di sostentamento del cittadino e della propria realizzazione sociale e rimette allo stato il compito di perseguire e tutelare tale diritto. È l’impostazione alla base del progresso legislativo dei primi decenni di repubblica che ha portato infine alla emanazione dello Statuto dei Lavoratori e del tanto vilipeso articolo 18. La rapidità con cui, a partire dalla legge Fornero del 2012 per finire col Job’s act del 2015, si è smantellato questo sistema di garanzie tradisce le intenzioni del legislatore degli anni dieci che più che all’efficientamento del mercato del lavoro sembra intenzionato ad un cambio di prospettiva, un passaggio dal suddetto principio lavorista ad un approccio privatistico che riconduca la contrattazione al rapporto fra datore di lavoro e lavoratore. Il diritto che le modifiche previste da Di Maio potenziano è un diritto individuale che, pur muovendo in direzione opposta e tentando di rafforzare le tutele del lavoratore, gioca nello stesso campo delle riforme precedenti, quello della contrattazione singola e non collettiva. Non a caso la reintroduzione dell’articolo 18 non è mai stata veramente all’ordine del giorno. Non solo, anche il reintegro, proposto dai tecnici del ministero come estrema sanzione di un licenziamento illegittimo, non viene contemplato, così come non si prevede la causale per i primi dodici mesi di contratto a tempo indeterminato, il che vuol dire sostanzialmente equipararlo ad un periodo di prova che allunga i tempi di assenza di tutele del neoassunto. Eppure uno dei principali consulenti del ministero in questa fase è stato Piegiovanni Alleva, accanito sostenitore sia della prima quanto della seconda misura, nonché principale estensore di tutte le modifiche, la loro mancata discussione è la spia principale di quale possa essere l’indirizzo politico del governo Conte.

 

Di Maio e i sindacati

In uno degli ultimi question time al senato il ministro Di Maio ha iniziato, col solito piglio alla Savonarola, ad elencare una serie di presunti privilegi dei sindacalisti (ovviamente generici e decontestualizzati) a cui bisognava assolutamente mettere mano per ristabilire l’uguaglianza di tutti i cittadini. Al di la della consueta genericità dell’attacco e senza dimenticare casi come quello di Bonanni, a rimanere inalterata è la mistificazione di base secondo cui la politica andrebbe fatta senza alcuna garanzia e remunerazione, ma chi ha iniziato a viverla in questi anni sciagurati ha imparato a proprie spese che i tanto vituperati “costi della politica” sono la principale garanzia di indipendenza e accessibilità della stessa (del resto lo stesso Di Maio si è dimostrato non immune da necessità economiche). Se sei anni fa si poteva ipotizzare una ingenuità del leader grillino, oggi le sue dichiarazioni vanno trattate con tutta la cautela del caso, sono le stesse cose che Beppe Grillo dice da anni, farneticando di lavoratori che si rappresentano da soli in un panorama di totale disintermediazione dei rapporti sociali, che fanno valere le proprie ragioni individualmente, proprio come individualmente vedono riconosciuti i loro diritti col nuovo decreto. A restituire la dimensione politica di queste dichiarazioni sta anche il fatto che la CGIL, con un video postato sulla propria pagina facebook risulta essere fra i commentatori più moderati del Decreto Dignità senza lesinare il riconoscimento dei suoi meriti (quelli fin qui descritti e non solo). Peggio ancora fa Gianluigi Paragone, già alfiere del giornalismo gentista, adesso parlamentare grillino, che in un improvvisato video punta il dito contro la presunta volontà dei sindacati di aumentare il precariato speculandoci su “alle spalle dei lavoratori”. È un momento di rara bassezza ideologica in cui sventolando un foglio A4 Paragone sostiene che l’aumento del MOG (monte ora garantito nei rapporti di lavoro in somministrazione) invece di essere una garanzia di lavoro è un aiuto alle imprese e poi millanta la decurtazione di uno 0,32% della busta paga che i sindacati prenderebbero per fini diversi dalla loro mission ( lo 0,32% di una busta paga lorda di 2000 euro fa 6,4 euro per intenderci). Infine, coerentemente col genere di cui è indiscusso maestro, elenca casi di abusi e malversazioni padronali dimenticando di dire che non c’è nessun legame diretto con gli argomenti di cui ha appena parlato, semmai un legame sussiste con la crescente assenza di controlli e tutele. La CGIL ha risposto tempestivamente alle accuse con un post sul proprio sito: bastano poche righe per smontare l’impianto accusatorio di questo ex leghista, il vero problema è che per il linguaggio e il mezzo di comunicazione usato le argomentazioni del post non raggiungeranno mai le stesse persone e le stesse emozioni del video grillino. Le persone che hanno ricevuto il messaggio del primo probabilmente non leggeranno il secondo e si trascineranno di nuovo un astio irrazionale verso quello che è strumento di partecipazione politica e sociale. Non sappiamo ancora quale sia il fine ultimo di questi nuovi attacchi ma purtroppo possiamo immaginarlo.

I riders, i lavoratori dei centri commerciali, i ricercatori, gli insegnati, i lavoratori a tempo determinato da vent’anni… I governi precedenti sono stati così scandalosamente padronali che il Decreto Dignità potrebbe rappresentare un passo in avanti, una cosa che fa sorridere i dipendenti subissati dall’arroganza del datore di lavoro anche di fronte alla prospettiva di non essere riconfermati. Quello che passa in sordina è l’allineamento totale con la visione politica precedente che farebbe riconsiderare questo decreto per quello che è: un aggiustamento marginale, quasi fisiologico, dopo un periodo di stravolgimenti. Bisogna rimettere l’idea che il lavoro sia un diritto sociale al centro dell’agenda politica, bisogna tornare a coinvolgere le persone nella battaglia per i diritti, per cambiare nuovamente il senso comune, bastano poche parole ma dette nel modo giusto.

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