La classe operaia è tramontata?
di Maria Grazia Meriggi*
Da alcuni decenni ormai nella discussione pubblica si è affermata un’idea che non ha permeato solo la discussione politica ma anche il discorso sociologico e ha influenzato la ricerca storica: il tramonto della classe operaia. Di recente il perdurare della crisi iniziata alla fine del 2006 negli Usa e che ha influenzato profondamente mercati del lavoro e modelli produttivi e l’insorgere elettorale e sociale dei populismi1hanno rimesso all’ordine del giorno delle agende politiche l’importanza del lavoro come fonte di reddito e di integrazione sociale ma non certo la centralità dei lavoratori e dei loro conflitti.
Questa eclissi ha assunto le forme più svariate. Quella “di sinistra” ritiene che si possa parlare di classe solo in presenza di esplicite manifestazioni di coscienza di classe, espressa politicamente. Per questa concezione, più leninista che marxista, prima l’integrazione nel “ceto medio” poi l’adesione (supposta? reale?) ai populismi avrebbe decretato l’eclissi della classe operaia come soggetto politico e questo compito dovrebbe essere assunto da altri “ultimi del mondo”. Ho scritto più leniniana che marxista – con tutte le semplificazioni che queste definizioni implicano – perché altre tradizioni teorico-politiche attribuiscono centralità anche alle forme immediate del conflitto di classe che si può manifestare nei luoghi di lavoro o nelle mobilitazioni sociali in forme che comportano il silenzio politico: non dimentichiamo che per il giovane Marx una delle prime manifestazioni di classe nella Francia del 1848 è l’insurrezione “elementare”, accusata di essere “bonapartista”, del giugno2. “Maledetto sia il giugno!”, anche se quella sconfitta ha aperto la strada al successo elettorale di un regime autoritario – il bonapartismo – che ha esibito almeno nella propaganda della fine del ’48 alcuni tratti populisti.
Altre analisi con le quali invece è necessario confrontarsi sono quelle sulle trasformazioni dei sistemi produttivi che avrebbero reso minoritari e/o irrilevanti gli operai nei sistemi produttivi capitalistici. Queste analisi indicano due aspetti. La contrazione dell’occupazione operaia in senso stretto dopo le ondate di crisi e delocalizzazioni della fine del Novecento. La sostituzione come fonte di profitto dello sfruttamento della forza lavoro con la speculazione finanziaria: non solo bancaria ma immobiliare e qui un problema certamente esiste se pensiamo a quante realtà produttive al centro di lotte importanti (la INNSE, la Rimaflow) hanno avuto al centro proprio il possibile uso speculativo e non produttivo delle loro aree.
Ci sono poi altre tesi – più interessanti ma anche più insidiose – che leggono con intelligenza la complessità dei sistemi produttivi investiti dalle nuove tecnologie informatiche come occasione di valorizzazione di una parte della forza lavoro e di nuova armonia sociale.
Al centro delle discussioni dovrebbero essere dunque i soggetti sociali protagonisti della crisi e il loro ruolo nell’organizzazione del lavoro, di cui spesso la “sinistra liberale” mette in luce – in una specie di “utopia del Capitale” – esclusivamente gli effetti innovativi. È vero infatti che l’automazione presente in molti settori industriali innovativi riduce quantitativamente i posti di lavoro ma crea anche ruoli tecnici in cui ci possono essere operai con funzioni complesse di controllo e verifica sui processi che possono essere anche premiati economicamente. Non si può parlare di superamento del taylorismo in tutti i settori ma certo – pensiamo all’industria dell’auto, dalla Toyota alla FCA – alla subordinazione del lavoro al macchinario della catena di montaggio si sostituiscono, secondo i metodi messi a punto dal management giapponese, il just in time e la flessibilità delle mansioni, con un ricorso costante all’intervento dei lavoratori nell’adempimento della “filosofia” aziendale. Insomma più saperi tecnici, più interventi degli operai e salariati nel rendere più fluido e senza sprechi il processo produttivo.
Si tratta però di una “messa al lavoro” ancora più intensa di competenze e partecipazione alle finalità produttive per il profitto che non lascia nemmeno spazio per le “furbizie” e la conquista di momenti di tempo liberi dallo sfruttamento. Qui avanzerei una prima risposta alle tesi di eclissi della classe operaia. È vero che in questi settori avanzati la distinzione fra categorie è meno netta che nella fabbrica fordista ma la possiamo anche interpretare come generalizzazione della condizione operaia – di lavoro umano comandato – prevista dal Marx degli scritti preparatori del Capitale noti come Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857/’58)3: la messa al lavoro dell’intelletto generale come fattore produttivo.
D’altra parte gli operai, minoritari in Occidente, sono massa sterminata nei paesi ormai protagonisti dello sviluppo, l’India e la Cina. Ma anche nell’Occidente sviluppato si è generalizzata la condizione operaia nel senso prima indicato. Se ovviamente la densità umana e sociale della working class del suo tempo si è imposta a Marx negli anni Quaranta dell’Ottocento, la nozione marxiana di classe operaia non coincide, infatti, semplicemente con la “tuta blu” ma con la messa al lavoro delle risorse fisiche e intellettuali per il profitto.
Questo vale per i settori in cui ancora prevalgono i rapporti di lavoro a tempo indeterminato – che però coesistono con lavoratori somministrati da agenzie del lavoro (di diritto privato: legge Biagi) o da quelle cooperative create per abbattere il costo del lavoro note come “false cooperative”. Ma mentre lo sviluppo tecnico e l’automazione creano nuovi lavori e funzioni avanzate, ne rendono intanto superflui migliaia e migliaia creando lavoro povero in un mercato del lavoro spietatamente concorrenziale e disoccupazione tecnica che nessun corso di formazione o nessun centro per l’impiego possono superare. L’individuazione della disoccupazione tecnica del resto risale agli anni ’10 del Novecento4! Ma accanto a questi settori è cresciuto come è ben noto il lavoro terziario di servizi comunicativi, progettuali, alla persona o anche semplicemente parasubordinati con contratti a tempo determinato. In questo settore coesistono attività manuali e tradizionali con attività ad alto contenuto progettuale, persone che hanno abbandonato precocemente la scuola e altre con alta e talvolta altissima scolarità. Definire – come viene spesso fatto – i molti lavoratori stabili e precari, con difficoltà economiche che impediscono spesso di progettarsi una vita indipendente dalla famiglia, una massa plebea e rancorosa contrapposta a un cosiddetto e indefinito ceto medio o medio alto colto tendenzialmente progressista, non solo attribuisce a questa “massa” i suoi bisogni come colpe, ma evita di analizzare le differenze di ruoli, figure, formazione e quindi immagini del futuro di questa “massa” di lavoratori poveri. Lavoratori che dipendono dalla chiamata dell’agenzia o direttamente dell’imprenditore e per i quali il tempo di vita è interamente colonizzato dal lavoro, dalla sua progettazione, dalla sua organizzazione che spesso è autorganizzazione. Pur con forzature polemiche Sergio Bologna negli interventi de Il lavoro autonomo di seconda generazione5ha contribuito a mettere a fuoco più di vent’anni fa le risorse e i problemi di questi lavoratori ormai non più “atipici”. D’altra parte l’importanza della speculazione finanziaria nel creare profitti indebolisce certamente il potere contrattuale dei lavoratori ma non sostituisce certo la materialità dei processi produttivi nella globalizzazione. Possiamo certamente ritenere produttivo il settore della logistica così centrale nella produzione di profitti e nella trasformazione del paesaggio produttivo anche delle periferie6.
Precarietà e coesistenza, spesso negli stessi luoghi, di lavoratori stabili e precari, attacco costante alle prestazioni del welfare hanno creato una percezione di insicurezza che è reale, alla quale, come è noto, precise agenzie politiche e il sistema dei media indicano invece un falso obbiettivo: la concorrenza dei migranti e la società “meticcia” come minaccia invece che come occasione.
Organizzare insieme gli operai “quasi ingegneri” e quelli resi “quasi superflui”, gli stabili (la cui stabilità è necessaria per le elevate funzioni nella catena del comando) e i precari, gli autoctoni e i migranti. È probabilmente questo il problema che ci si deve porre e senza passare dal quale gli stessi appelli umanitari rivolti all’accoglienza dei migranti, cui certo non si deve rinunciare, rischiano di restare inutili.
Il movimento operaio ha affrontato più volte, nel corso di due secoli, crisi e depressioni (dal 1874 circa agli anni Novanta dell’Ottocento; dopo la crisi statunitense e poi mondiale dopo il 1929); trasformazioni nell’organizzazione del lavoro; flussi migratori intensissimi prima della Grande Guerra verso l’America Latina e verso gli Usa, negli anni fra le due guerre in Francia e Inghilterra e in tutta Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale con la variante delle intense migrazioni interne. Ma fin dagli esordi della modernità capitalistica le migrazioni sono state indissociabili dal suo sviluppo: anche quando i “migranti”, i “diversi”, erano scozzesi, irlandesi, belgi, a dimostrazione evidente che la percezione della “differenza” è una costruzione sociale e che la classe operaia non può che essere plurinazionale e integrare uomini e donne di diverse comunità. Come spiegare altrimenti le popolazioni di modesti centri artigianali superare rapidamente i 500 mila abitanti nel corso di tutto l’Ottocento inglese?7
Oggi tutti questi problemi convergono in una fase di crisi economica da cui il nostro paese – non posso qui entrare in analisi più generali – non è uscito con una consistente e significativa ripresa dopo la crisi dei subprime del 2006.
Da queste note sparse mi sembra possa emergere il carattere ideologico della tesi dell’eclissi dei lavoratori come classe centrale nella società. Lavoratori al plurale quali sono sempre stati anche ai tempi delle sintesi politiche che non dubitavano di sè stesse.
Quali segmenti del mondo del lavoro e quali soggetti organizzati possono, allora, essere considerati centrali nella ricomposizione della tragica frammentazione che stiamo vivendo mi sembra l’interrogativo centrale.
Oggi la rappresentanza politica di una bene individuata composizione di classe – con tutti i problemi che essa pone – sembra consegnarci una crisi d’epoca. Quella sindacale, pur grave, invece riceve ancora da parte di tanti lavoratori una domanda tenace che sopravvive alle sconfitte. Certamente perdura il problema che i sindacati non si sono attrezzati ancora alle lunghe filiere di imprese, come la FCA. Ma almeno in Italia i sindacati e soprattutto la Cgil restano organizzazioni di massa – i numeri dati a casaccio su radicali cadute nelle iscrizioni sono appunto spesso a casaccio e frutto di una comunicazione superficiale o intenzionale – in cui si manifesta anche a una domanda di servizi che non dovrebbe essere completamente disprezzata. Spesso i Caf o gli sportelli legali sono una prima occasione di contatto col sindacato. Ma soprattutto al sindacato si chiedono capacità di contrattazione e di accompagnamento nel mercato del lavoro in una situazione in cui però drammaticamente manca al sindacato un interlocutore istituzionale costante e credibile.
Il ruolo di una sinistra politica in grado di non limitarsi alle analisi potrebbe essere, oggi, quello di fare da ponte, attraverso i nostri militanti, fra le pratiche se non fra le organizzazioni della Cgil, dell’Usb incisiva nella logistica, di associazioni come Acta8. Ogni volta che – in sedi modeste come alcune mailing list – si prova a discutere fra dirigenti e intellettuali che fanno riferimento a questi mondi, le discussioni sono aspre ma è anche vero che sono discussioni in cui tutti i partecipanti concordano almeno sulle realtà sociali e produttive di cui si parla. Un coordinamento di delegati e RSU potrebbe essere una base di partenza al cui interno i migranti non sarebbero più la “schiuma della terra” oggetto di biopolitica ma lavoratori da organizzare.
Comments
Di recente una classe della classe medica ha imposto un trattamento sanitario obbligatorio ai bambini, e anche ad alcune figure professionali; presumo che fra poco tutta la popolazione dovrà essere sottoposta a questi trattamenti; ancora più gravi sono i protocolli che vengono imposti per le maggiori malattie degenerative, il cancro in particolare, impedendo lo sviluppo di terapie alternative e di basso costo (vedi la vergognosa truffa della ministero della sanità sulla sperimentazione Di Bella).
Ecco, in questo momento di confusione, forse una linea di azione potrebbe ripartire dal basso, avvicinando tutte queste forme di lotta e di resistenza che vengono bollate come forme di negazionismo, complottismo. Come non provare un senso di indignazione, di rabbia, di rivolta nel vedere il bracciante che per pochi euro si rompe la schiena nei campi, mentre i supermanager percepiscono milioni di salario o di liquidazione? c'è bisogno di una teoria delle classi che ce lo spieghi? che organizzi un movimento e una forma di ribellione? o forse il discettare teorico è un modo di salvarsi la coscienza, o di illudersi di fare qualcosa? Tra l'altro il bracciante agricolo e il supermanager sono entrambi lavoratori, e quest'ultimo potrebbe dire che sì lavora tantissimo, mica si limita alle otto ore. Non ci vuole molto a capire e a sostenere le organizzazioni del territorio in lotta contro quelle forme di investimento statale per le cosiddette grandi opere, che vanno invece a foraggiare le grandi imprese e che distruggono il territorio. Occorre riconoscere e appoggiare queste forme di lotta e di resistenza dal basso, poi può venire una forma di organizzazione politica, ma il contrario è velleitario, pericoloso.
No, la classe operaia non è tramontata esiste e si è perlomeno decuplicata da quando Marx con Engels scrissero il Manifesto. Si è estesa in tutti i continenti e con il capitale si è globalizzata. Chi nega questo dato oggettivo nega la realtà dei fatti. E' stata balcanizzata, questo sì e messa in condizioni di non nuocere.
Quello che però da materialisti dovremmo mettere sotto lenti di ingrandimento non è la sua esistenza, ma se essa come classe sfruttata nel Modo di produzione Capitalistico possa fungere da soggetto per abbattere un movimento storico di cui fa parte. E' questa la questione che oggi abbiamo di fronte.
In Europa purtroppo con Marx e dopo Marx ci siamo illusi che la classe operaia avesse potuto abbattere il capitalismo come la borghesia aveva disarcionato dal potere politico l'aristocrazia. Una tesi presente nel Manifesto del 1848 sulla quale abbiamo costruito la nostra illusione. Non avevamo capito che il proletariato cresce col crescere dell'accumulazione e va in crisi col decrescere della stessa.
Il tuo appello a costruire intorno ai sindacati confederali e quelli minori una prospettiva programmatica deve fare i conti con un cambio di fase che non consente nessuna possibilità di ripresa di lotta riformistica per conquistare quota parte dell'accumulazione proprio perché da un lato non cresce l'accumulazione mondiale e dall'altro lato la concorrenza dilania tanto le forze borghesi quanto quelle proletarie.
Basta osservare quello che sta accadendo sotto i nostri occhi: dappertutto i lavoratori vengono attratti dall'orbita sovranista, in modo particolare in Occidente. In italia stiamo assistendo a un dramma che si sta consumando sotto i nostri occhi, all'Ilva di Taranto, dove vige la paura, il silenzio, lo sconforto, sia fra gli operai dello stabilimento che fra gli abitanti della città.
Questo quadro ci obbliga a una riflessione profonda: non ci sono più spazi rivendicativi, siamo stretti in un angolo come movimento ideale che si richiama al comunismo.
Il povero Landini è l'espressione di questo disagio, lui, come tutti noi, siamo frustrati dinanzi alla inazione degli operai e balbettiamo frasi sconnesse e prive di logica. Altrimenti detto: non abbiamo la forza e il coraggio di dire quello che andrebbe detto: sarebbe necessario una rivolta popolare, ovvero contrapporre la forza della mobilitazione di piazza contro la forza delle leggi del capitale. Esattamente quello che sta accadendo in Cile, tanto per fare un esempio.
Agli operai andrebbe detto chiaro e tondo: o mobilitazione di piazza o sconfitta certificata.
Se gli operai continuano a guardare al capitale, al capitalista e al capitalismo come i girasoli guardano il sole non c'è nessuna possibilità di spostare i rapporti di forza all'interno degli equilibri capitale-lavoro.
Se Arcelor Mittal non vende perché l'acciaio cinese viene esportato a un prezzo inferiore, non è affar nostro, noi come specie umana vogliamo vivere e se il capitalismo come sistema mondiale non è in grado di garantirlo lo mettiamo in discussione.
La storia d'oggi , non di ieri e ieri l'altro, ci obbliga a prendere in considerazione quello che non pensavamo di fare. Tutto qua.
Michele Castaldo
In quanto alla CGIL, come le altre confederazioni nazionali, nonché tutti quanti i sindacati minori, ivi comprese molte organizzazioni cosiddette di base, sono sindacati di regime, e quindi, in un sistema capitalistico, di chi potranno fare gl’interessi, dei lavoratori ..?