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Il lavoro importato: brevi note ai commenti

di Aldo Barba e Massimo Pivetti

Come promesso (vedi il mio post precedente) Barba e Pivetti mi hanno inviato alcune note ai commenti al loro libro sul "lavoro importato" (invi comprese le reazioni ai miei "Appunti a margine di un libro politicamente scorretto", una riflessione sulle tesi del libro in questione che ho pubblicato qualche giorno fa su questa pagina). Copioincollo qui di seguito il testo inviatomi dai due autori [Carlo Formenti]

COPERTINA Migranti a Ellis Island 1892Il nostro Il Lavoro Importato. Immigrazione, salari e stato sociale, edito da Meltemi, è un libro divisivo nel tema e per le tesi che vi si espongono. E’ normale quindi che generi reazioni contrapposte. Quelle avverse tendono a ricadere in tre tipologie. Le reazioni appartenenti alla prima tipologia si caratterizzano per lo stabilire una connessione immediata tra il libro ed il dibattito politico corrente in Italia. Poco interessate al merito del discorso che sviluppiamo, la questione che pongono riguarda l’ ‘opportunità politica’ di scrivere, a sinistra sembrerebbe, un libro di questo genere in questo momento. L’accusa, per farla breve, è di “fare il gioco delle destre”. Di questo si tratterebbe per alcuni, perché i problemi causati dall’immigrazione ai ceti popolari sarebbero un’invenzione diversiva dei capitalisti, volta a sviare l’attenzione dalle reali cause dell’accresciuto malessere sociale; per altri, meno sprovveduti, il problema invece esiste, ma a sinistra sarebbe controproducente parlarne in quanto causa o anche solo pretesto di ulteriori frammentazioni del campo. In un caso come nell’altro, ci sembra che questa lettura vuotamente politicista del nostro saggio costituisca la prova più evidente dell’opportunità di discutere esplicitamente il tema.

Una seconda tipologia di reazioni, anch’essa periferica rispetto al merito della questione, muove più o meno esplicitamente al nostro lavoro un’accusa di economicismo. Fosse anche vero quanto andiamo argomentando sull’esercito industriale di riserva e l’azione disciplinare svolta attraverso l’immigrazione sui lavoratori indigeni, staremmo perdendo di vista il fatto che si tratta di uomini. Anzi, non soltanto di uomini, ma “degli ultimi”. Qui crediamo si sia incappati in un equivoco.

E’ ovviamente assurdo pensare che chi come noi suggerisca la necessità di affrontare il problema migratorio attraverso i controlli e la chiusura difetti di pietas, magari rispetto a coloro che propugnano ad esempio un’incondizionata apertura. La critica è quindi chiaramente rivolta all’analisi; ma se è così, il punto è che l’analisi deve essere spregiudicata e non figlia dell’emotività. Le immagini dei cadaveri nel Mediterraneo provocano raccapriccio e lasciano sgomenti, ma lo sgomento non deve impedire di ragionare. E’ ormai francamente insopportabile che le persone “colte” continuino a deplorare la “chiusura mentale” e la “disumanità” che le classi popolari manifesterebbero con la loro avversione nei confronti dell’immigrazione. La solidarietà nei confronti degli ultimi fa sì onore a chi la esercita, ma decisamente molto meno se la si esercita a scapito dei penultimi dei quali si abbia la fortuna di non far parte – o si sia cessato di far parte. Nel suo Ritorno a Reims, edito in Italia da Bompiani, il sociologo e filosofo francese Didier Eribon analizza il suo sconcerto di fronte all’ “irrigidimento razzista” degli ambienti popolari di sinistra, sviluppatosi in Francia nel corso degli anni Settanta e Ottanta. I suoi genitori, egli racconta, entrambi operai comunisti, avevano ottenuto a metà degli anni Sessanta un appartamento in una cité di case popolari, di quelle situate ai confini delle città e fino ad allora abitate quasi esclusivamente da francesi o da immigrati provenienti da paesi europei:

Non sopportando più la nuova situazione nel quartiere, i miei genitori decisero di lasciare l’appartamento per fuggire da ciò che consideravano un’intrusione molto pericolosa, in un mondo che prima apparteneva a loro di cui si sentivano sempre più spodestati. Mia madre si lamentava soprattutto della “sfilza” dei figli di questi ultimi arrivati, che urinavano e defecavano sulle scale e che, una volta adolescenti, fecero sprofondare il quartiere nel regno della microcriminalità, in un clima di paura e insicurezza. Era fuori di sé per il degrado del palazzo, evidente sui muri lungo le scale, sulle porte delle cantine individuali, nei sottoscale e sulle cassette delle lettere all’entrata – che non appena riparate venivano subito distrutte – da cui la posta e i giornali sparivano troppo spesso. Per non parlare dei danni alle macchine per strada: specchietti rotti, carrozzerie graffiate … Non sopportava più il rumore continuo e gli odori di una cucina diversa, né le urla del montone che, per la festa dell’ ‘id al-kabir, veniva sgozzato nel bagno dell’appartamento al piano di sopra. Le sue descrizioni provenivano dalla realtà o dalla fantasia? Senza dubbio da entrambe. Ma non sono la persona adatta per dirlo, visto che non abitavo più con loro e che non andavo mai a trovarli. Quando al telefono le dicevo – non riusciva a parlare d’altro – che esagerava, mi rispondeva: “Si vede che non è casa tua. Nei quartieri dove abiti tu, queste cose mica le vedi”. Che avrei potuto risponderle?

A fronte delle “manifestazioni di accoglienza” e delle politiche di apertura nei confronti dell’immigrazione da parte della cultura e delle forze politiche di sinistra, consenso e coinvolgimento delle classi lavoratrici non potevano che finire per dissolversi completamente in Europa. Lo scollamento tra la sinistra e le classi popolari, come scriviamo nelle conclusioni del nostro libro, in nessun campo è stato così marcato in Europa come in quello dei flussi migratori.

Veniamo infine alle reazioni che toccano di più il discorso economico. Vorremmo al riguardo in primo luogo ribadire che tra i cultori di scienze sociali sono soprattutto gli economisti a dichiararsi favorevoli all’aumento delle migrazioni. Ciò non deve stupire, tenuto conto che le tesi della maggioranza di essi sono spesso nient’altro che delle razionalizzazioni apologetiche del punto di vista dei capitalisti e dei loro rappresentanti. Di queste razionalizzazioni il sostegno incondizionato di ogni aspetto della mondializzazione ha costituito in questi ultimi decenni una delle manifestazioni più importanti. E’ stata così prodotta una copiosa letteratura nella quale si cerca di argomentare che l’immigrazione non ha effetti negativi di lungo periodo (spesso, si sostiene, neppure di breve) sui salari e le condizioni di vita dei ceti popolari nelle regioni maggiormente interessate dal fenomeno. Discutere criticamente questa tesi è stato l’obiettivo principale del nostro libro. La premessa di questa discussione è che la scienza economica, tanto nelle sue elaborazioni teoriche quanto in quelle empiriche, non riesce ad offrire una risposta univoca in merito. Sulla questione non vi è alcuna contrapposizione tra l’ “irrazionalità” dell’opinione popolare e la “verità” degli scienziati. Con questo non vogliamo naturalmente affermare che non sia possibile articolare un discorso sensato e plausibile, ma soltanto ricordare che essere contro l’immigrazione non è come essere contro la penicillina.

L’argomento centrale della nostra analisi è che ciascuno dei tre aspetti principali della mondializzazione – la libertà di movimento dei capitali, quella delle merci e quella delle persone – ostacola ogni miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari, insieme alla semplice difesa delle conquiste faticosamente conseguite in passato dal mondo del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato. Ciascuna di queste tre libertà genera concorrenza tra lavoratori di nazioni diverse, caratterizzate al loro interno da differenti rapporti di forza tra capitale e lavoro e da una diversa coscienza di classe. Si tratta di una concorrenza incompatibile con qualsiasi “solidarietà proletaria internazionale”. L’unione dei “proletari di tutti i paesi” nel conflitto di classe interno a ciascuna nazione è inconcepibile, a meno di ipotizzare che i rapporti di forza tra capitale e lavoro siano sufficientemente omogenei nelle diverse nazioni. I flussi migratori di fatto costituiscono il canale più diretto attraverso il quale si verifica la concorrenza tra lavoratori di nazioni diverse e questo spiega perché sia anche quello nei cui confronti più netta si è manifestata l’ostilità dei ceti popolari. Ciò nonostante, la loro ostilità e quella del lavoro dipendente indigeno verso l’immigrazione è stata sostanzialmente rifiutata come tema politico da pressoché tutta la sinistra europea, un rifiuto che sarebbe oggi difficile negare che abbia considerevolmente contribuito alla perdita della sua base sociale.

Gli effetti depressivi dell’immigrazione sui salari derivano dal fatto che essa determina nelle economie più sviluppate una maggiore offerta di lavoro a basso prezzo. Noi argomentiamo nel libro che anche quando si tratti di manodopera poco qualificata l’impatto del fenomeno non resta circoscritto al livello inferiore della scala delle retribuzioni ma tende ad estendersi, allo stesso modo di ciò che accade di fronte ad abbassamenti per legge del salario minimo, al livello immediatamente superiore, e poi di livello in livello spostando alla fine verso il basso l’intera struttura salariale. Naturalmente l’immigrazione non è omogenea al suo interno, sicché l’impatto sulle condizioni di vita dei ceti popolari autoctoni ne riflette anche la composizione. Così, per quanto riguarda la pressione concorrenziale a lavorare di più per meno, in Italia come nelle altre maggiori nazioni dell’Europa occidentale essa è stata esercitata in tutti i settori specialmente dai lavoratori dell’Europa dell’Est, giunti in massa con l’implosione del blocco sovietico e poi con l’entrata di quei paesi nell’Unione europea nel corso del primo decennio di questo secolo. Lo stesso tipo di pressione, seppure più debole e concentrata nel settore dei servizi e in agricoltura, è stata esercitata dai flussi provenienti dall’India, dal Bangladesh, dal Medio Oriente e dall’Africa del Nord. Di natura molto diversa è l’impatto dei flussi migratori dall’Africa nera, il cui drammatico svolgimento tende naturalmente a porli al centro dell’attenzione. Il loro impatto diretto sul mercato del lavoro è relativamente meno importante. Essi concorrono con gli altri flussi al peggioramento della qualità della vita nei quartieri popolari – all’accumulo di disagi abitativi, nei trasporti, nei servizi, nonché al peggioramento del sistema scolastico e all’aumento dell’insicurezza in quei quartieri. Ma, da un lato, in termini di spesa pubblica al netto della loro capacità di contribuire alle entrate dello Stato, costano considerevolmente di più degli altri; dall’altro, particolarmente difficile e lenta è la loro integrazione. Merita a quest’ultimo riguardo non perdere di vista come i nostri connazionali che emigrarono in Francia tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 ci misero almeno due generazioni per riuscire ad integrarsi nella più avanzata società francese dell’epoca. Ben difficilmente gli immigrati dall’Africa nera potrebbero oggi riuscire ad integrarsi in meno di tre o quattro generazioni; nel frattempo, con ogni nuova ‘ondata’ o contingente, si ricomincerebbe per così dire da capo. Da nessuna popolazione europea appare ragionevole aspettarsi che possa finire per accettare tranquillamente di subire a tempo indeterminato lo stress della presenza di una tale diaspora, sempre meno integrabile perché sempre più grande e dunque sempre più tendente a sviluppare rapporti al suo interno piuttosto che con i nativi.

Ora, anche tra coloro i quali non assumono un atteggiamento negazionista circa i bassi salari che affliggono i lavoratori delle nazioni interessate dal fenomeno e non troppo forti sono le resistenze ad accettare un ragionamento che si dipani lungo le linee da noi indicate, molti sono stati i commenti ‘benaltristi’. Si, in parte anche l’immigrazione – questo il loro tono – ma il vero problema è l’immigrazione illegale e non l’immigrazione tout court; oppure, il vero problema è il degradarsi delle leggi che tutelano i salariati e li sottraggono alle vicissitudini del mercato; oppure, ancora, il vero problema è il prezzo delle merci a basso costo che provengono dai paesi emergenti che hanno livelli salariali infimi, e via discorrendo. Che l’immigrazione sia soltanto un aspetto, sebbene importantissimo, di un più generale contesto che determina l’indebolimento del potere contrattuale dei salariati siamo in effetti noi stessi a suggerirlo, in questo lavoro come nel nostro precedente La scomparsa della sinistra in Europa – contesto che nella nostra analisi, come abbiamo ribadito, riconduciamo esplicitamente alla mondializzazione e alle sue ‘tre libertà’. Sulla questione ‘immigrazione irregolare versus immigrazione regolare’ vorremmo invece brevemente soffermarci, perché è un tema sollevato con insistenza, in special modo dai lettori di formazione giuridica. Il ruolo disciplinare che la manodopera eccedentaria esercita sui salariati e sulle loro pretese informa tutto il complesso di norme e istituzioni poste a presidio del mercato del lavoro. Non si tratta tanto o soltanto della concorrenza mossa da lavoratori non tutelati dalla legge, che cesserebbero pertanto di agire come fattore di disciplina una volta regolarizzati. Il punto è che la legge non tutela abbastanza i lavoratori e i salari, anche quelli contrattuali, sono troppo bassi. E il risalire la china di bassi salari e di tutele carenti è a monte un problema di forza contrattuale. L’eccesso di manodopera eccedentaria è la causa della bassa forza contrattuale dei salariati e l’immigrazione accresce un eccesso di manodopera presente anche nelle sole forze di lavoro indigene.

Queste considerazioni rimandano ad un altro punto di discussione, più specificamente riferito al sindacato ed al suo ruolo. E’ certamente possibile richiamare qualche esperienza di lavoratori immigrati sindacalizzati che abbiano concorso a rafforzare il clima rivendicativo in una particolare azienda o vertenza. Ma questi casi devono essere valutati senza dimenticare l’indubbio allontanamento di tanta parte della manodopera indigena dal sindacato, dal quale non si sente più rappresentata. Pensare che non abbia nulla a che vedere con questo l’atteggiamento di apertura del sindacato nei confronti dell’immigrazione di lavoratori con un diverso livello di coscienza di classe, e posti nella condizione oggettiva di dover accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi salario, ci sembra il segno più evidente del totale smarrimento in cui la sinistra di classe è scivolata.

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Michele Castaldo
Tuesday, 10 December 2019 17:04
Premesso che tutti gli argomenti del libro qui riportati sono veri, il punto in questione è: da quale punto di vista si affronta un problema? Perché dire che la posizione che i due autori esprimono fa il gioco delle destre vuol dire tutto e niente, perché se la realtà vira a destra non la puoi riportare a sinistra con la sola forza della volontà.
Mettiamo perciò i piedi nel piatto dicendo innanzitutto che il po-po-lo è un sostantivo plurale composto da tre sillabe contenenti tre zeri, che può essere? se non un'onda magmatica in balia degli eventi.
C'è del razzismo nelle fasce dei settori penultimi - e ultimi aggiungo - della società? certo che c'è e non è stato importato da Salvini, perché questi, semmai, è l'espressione del razzismo sociale di questa fase in Italia, in Europa e in tutto l'Occidente.
Dire questo è fotografare la realtà, dunque gli autori del libro da questo punto di vista hanno spago abbondante per tessere, e tessono.
Ma scrivere in modo politicamente scorretto non lo si fa fotografando la realtà ed accodandosi ad essa, perché così facendo si gioca sporco perché si predispone alla soluzione con una proposta da piccolo borghesi perbenisti, conservatori e reazionari, e dunque ci si accoda al po-po-lo affiancando Salvini da "sinistra".
Il punto in questione - che gli autori rimuovono e non a caso - è che l'Italia è stato un paese colonialista ed è tuttora un paese imperialista con soldati in più parti del mondo per continuare la rapine delle risorse delle materie prime in molti paesi "arretrati". Questo fatto ha consentito per oltre un secolo al po-po-lo (quello di cui sopra) italiano ed europeo di vivere, a cascata, al di sopra delle proprie possibilità. Oggi che quelle possibilità vengono messe in forse dall'onda di rimando di un movimento storico in crisi che porta sulle nostre coste milioni di affamati non sappiamo come fare.
C'è però dell'altro e di più, ovvero che gli immigrati vengono fatti venire, ripeto VENGONO FATTI VENIRE, per sostenere l'economia italiana in concorrenza con quella del resto d'Europa e delle asiatiche. Su questo hanno ragione gli autori del libro.
Il punto in questione però è che i due sovranisti vorrebbero la la botte piena e la moglie ubriaca, ovvero gli immigrati in quantità sufficiente ma non superflui, e in ciò denotano tutta la loro pochezza analitica, e sognano ad occhi aperti una "nuova valle verde" e non capiscono in che direzione sta andando l'intero sistema del modo di produzione capitalistico.
C'è un'altro punto sul quale va posta l'attenzione, quello della denatalità. I borghesi "illumunati" nel tentativo di salvare capre e cavoli - cioè loro e il loro sistema di sfruttamento e di oppressione - allevano l'idea e l'azione sul rilancio della natalità attraverso gli immigrati, mostrandosi dei poveracci nel vero senso della parola, perché non riescono a capire che la denatalità è l'espressione, su questo versante, della crisi del modo di produzione, come scriveva l'Avvenire, il giornale dei vescovi italiani qualche giorno fa.
Mettiamo allora le cose in chiaro: le due opzioni in campo sono: a) quella di Salvini che vuole si che arrivino in quantità industriale ma privi di controllo e sottoposti solo alla legge della questura, ovvero schiena piegata e repressione; mentre b) per la "sinistra" tutta la "sinistra" , insieme alla maggioranza della Chiesa cattolica di Francesco si tratta di gestire il fenomeno affinché non sfugga di mano e funga come valvola di sfogo per i paesi di provenienza, insomma come miraggio per i disgraziati di tanti paesi tuttora rapinati dall'imperialismo.
Dunque la proposta degli autori del libro in questione si pone come terza ipotesi, ma è fuori da ogni logica analitica della fase storica e non potendola applicare essa si pone al servizio degli ambienti più reazionari della società, compresi quei settori del po-po-lo di cui accennavo sopra.
Fa specie però che chi si richiami alla sinistra ed ai suoi valori sotto l'icona di Gramsci si ponga alle terga del peggior populismo schifosamente razzista, auspicando un "sol dell'avvenire tranquillo" da borghese piccolo piccolo. Il tutto finché, per necessità, quello stesso po-po-lo non si tramuti in popolo tumultuoso e torbido, cioè in movimento antisistema integrando in esso immigrati e autoctoni mettendo in fuga il perbenismo di destra e di sinistra e imponendo le sue leggi.
E' tanto lontano questo giorno? non lo sappiamo, ma vorrei mettere in guardia gli intellettuali che si rintanano nel sovranismo nazionalista di sinistra: i grandi movimenti di massa, i tumulti, quelli veri, non si fanno anticipare da squilli di tromba, ma si presentano all'improvviso contro gli sprovveduti "pensatori". Le masse, scriveva Rosa L. sono come la thàlatta: mortale bonaccia e bufera urlante, la più abbietta vigliaccheria ed il più selvaggio eroismo. La massa è sempre quello che deve essere a seconda delle circostanze storiche.
Ve l'aspettavate la Francia di questi giorni? Ecco, siamo ai primissimi prodromi. Tutto qua.
Michele Castaldo
Sicché
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