La sconfitta dell’Occidente e la Guerra Mondiale a Pezzi II
di Alessandro Visalli
Il vuoto nel cuore dell’occidente. Dall’austerità alla disperazione
Il 13 settembre 2014, profeticamente, Papa Francesco nel centenario della Prima Guerra Mondiale ricordò che “anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni”[1]. Con questo breve enunciato dichiarò il segno del nostro tempo tragico.
Sono passati solo pochi anni, ma sembrano un’eternità. Si era nel tempo del Job Act di Renzi, in quello di Schäuble che al G20 si oppose alle richieste di manovre anticicliche degli Usa riaffermando il vangelo dell’austerità e il surplus di bilancio europeo e tedesco. Era il tempo in cui Obama spingeva perché fossero firmati due trattati di libero scambio, in chiave anticinese e a vantaggio delle aziende tecnologiche. Il TTIP (con l’Europa) e il TPP (con l’Asia) avevano infatti un solo scopo, come Jack Lew chiarì al G20: quello di creare le condizioni per ribilanciare le partite commerciali statunitensi. Allora come ora il mondo esportava negli Stati Uniti molto più di quanto importasse da essi, e i cittadini americani consumavano più di quanto producessero. Allora come ora il debito pubblico, traduzione di quello privato, cresceva sempre di più. Allora come ora il sistema-America era complessivamente indebitato verso il mondo. E, infine, la fiducia nella capacità sul lungo periodo (oggi anche sul breve) di sostenere questo ritmo era sfidata, minacciata.
Oggi tutti quei nodi sono giunti al pettine[2].
Per questa ragione l’Occidente appare disperato e pronto a tutto. Il punto di svolta è stato lungamente preparato dal progressivo svuotamento della posizione di forza americana, internamente preparata dalla perdita del senso comune della nazione, dell’etica del lavoro, del concetto di morale sociale vincolante, della capacità di sacrificarsi per la comunità[3]. Quindi ha subito una netta accelerazione quando lo shock del Covid ha mostrato la fragilità delle linee di approvvigionamento interconnesse e determinato una devastante crisi economica, contrastata con programmi di spesa a debito senza precedenti[4]. E quando tutto ciò si è infranto sul muro della crescente competizione cinese e del confronto con la Russia.
Ma non è solo questione di potere e di geografia. La ragione più profonda è il vuoto che alberga nel cuore. In quelle classi medie e classi popolari disinteressate e perse nella lotta per la vita, disperse in innumerevoli microcircuiti autistici di muto rancore coltivati scientemente dagli algoritmi[5]. Popolazioni, quelle occidentali, ormai giunte a quello che Todd chiama il punto zero (o stato zombi) del disperato individualismo[6]. Come avevamo scritto anche in un testo precedente[7], tutto ciò è un effetto non desiderato, ma al contempo provocato, della rivoluzione neoliberale. Essa aveva come presupposto, non posto da essa, la ‘Società dei due terzi’[8] e la stabilità esistenziale che determinava. Ma procedendo l’ha dissolta, insieme alle classi medie di massa, e con essa il suo presupposto. Lungi dal riuscire essa stessa a garantire (come invece prometteva) benessere e stabilità ha scavato sotto i propri piedi[9].
In sintesi, le vite di molti e da troppi anni sono di fronte al dolore della disgregazione finale delle protezioni e certezze di un’epoca ormai lontana. Il punto è che, cadendo ogni protezione le distanze sociali si sono allargate e con essa si è dilatata la percezione di cadere. Inoltre, il tempo di lavoro si è frammentato e il ritmo è diventato sempre più serrato, l’alienazione ormai domina incontrastata. Ciò, a lungo termine, revoca quelle condizioni della dissoluzione delle classi sulle quali il neoliberismo ha fondato il suo predominio. Le revoca in quanto rende insostenibili le condizioni psicosociali di esistenza dell’individualizzazione postmoderna[10].
Il problema è che in questi termini si ha solo il vuoto, l’individualizzazione proprietaria ed edonista non è più disponibile, e quando lo è assume quel caratteristico carattere compulsivo e disperato che registriamo ovunque, la vecchia forma sociale è persa. Sarebbe necessario riemerga a coscienza, con la forza e la paziente determinazione dei processi sociali, questo vuoto disperato. Ovvero, sarebbe urgente contrastare il vuoto producendo pieno. Per fare qualche passo in tale direzione occorre partire da un giusto schematismo e da analisi strutturali (ovvero analisi della totalità delle relazioni costitutive, per quanto sempre rischiose e incomplete), e degli interessi sociali che in esse di addensano. Cercando di produrre abbozzi di analisi concreta, individuando leggi di mutamento situate e storico-concrete. Analisi comprensibili solo a partire dai conflitti e dalle contraddizioni presenti. Conflitti che sono costantemente esorcizzati e contraddizioni nascoste.
Non che non siano stati fatti tentativi politici e di politiche economiche, anche costose, per sanare il vuoto, Bush Jr. lanciò nel 2001 il Economic Growth and Tax Reconciliation, un programma che mobilitava milletrecentocinquanta miliardi di dollari in dieci anni, poi fu emesso il TARP, da settecento miliardi, per soccorrere le banche durante la crisi finanziaria. Obama l’American Recovery and Reinvestiment Act nel 2009, che valeva ottocentorentuno miliardi. Quindi il Tax Cuts and Job Act, nel 2017, di Trump aveva una dimensione di millecinquecento miliardi in dieci anni, e il Cares Act antiCovid duemiladuecento miliardi. Tra i programmi di Biden si possono ricordare l’American Rescue Plan, nel 2021, da millenovecento miliardi e soprattutto l’Inflation Reduction Act nel 2022, da settecentoquaranta miliardi. Alcuni di questi programmi dalle dimensioni impressionanti sono concentrati sulle classi medie e le piccole imprese, altri sull’alta finanza e sui ricchi contribuenti. Tuttavia, la differenza, rispetto agli stimoli cinesi[11], è che in Usa un importo complessivo stimabile nel 6% del Pil è stato impegnato in tagli fiscali regressivi, in favore delle classi superiori, e sussidi temporanei. Al contrario, in Cina somme simili sono state impiegate in investimenti infrastrutturali pubblici ed espansione del credito bancario con focus sulla capacità produttiva.
A lungo termine gli investimenti cinesi hanno reso più competitivo il manifatturiero, producendo effetti a cascata sulle classi lavoratrici e medie, ma hanno provocato sovracapacità che il governo cinese ha successivamente riassorbito.
Brevemente, usando gli stimoli decisi dal governo in Cina nel periodo 2008-2024 la rete ferroviaria ad alta velocità è passata da zero a quarantacinquemila chilometri (ovvero, più del resto del mondo messo insieme); il sistema metropolitano è passato da due linee a ventisette a Pechino e da otto a venti a Shanghai; gli aeroporti da sessanta a duecentoquaranta; la capacità manifatturiera dalla quota del quattordici per cento su base mondiale al ventotto per cento. Il Pil da quattromilaseicento a diciassettemila miliardi di dollari. La povertà è diminuita, con quattrocento milioni di persone che ne sono uscite e la crescita media in quindici anni è stata del sei per cento anno. Il paese è diventato leader in molte industrie di punta.
Di converso, negli Stati Uniti incentivi maggiori in termini assoluti (quasi novemila miliardi a fronte di tremila), hanno destinato solo cento miliardi a infrastrutture pubbliche e non hanno invertito il declino della capacità manifatturiera. La classe media ha visto il suo reddito mediano stagnare e il debito è cresciuto enormemente per un massivo trasferimento dal debito pubblico ai super ricchi (via tagli fiscali).
La ragione fondamentale è semplice. Come ricordavano gli autori dei Monthly Review negli anni Settanta[12], di fronte a una crisi, nel capitalismo contemporaneo ogni politica pubblica deve in primo luogo confermare i rapporti di forza sociali, ovvero garantire la riproduzione del capitale nelle mani in cui è. Di fronte a sfide che possono indebolire la propria capacità di canalizzare la ricchezza, le élite si comportano piuttosto come quelle bismarckiane della metà dell’800: cercano di cambiare tutto per conservare lo stesso mondo. E si sforzano sistematicamente di stimolare nuovi cicli di speculazione e sviluppo alimentati dal debito (soprattutto pubblico); cicli gestiti da strette (o strettissime) e affidabili élite tecnocratiche.
Torniamo al confronto tra le politiche di stimolo. Il sistema orientale (qui parleremo di quello cinese) è capace di indicare, con strumenti di programmazione, di sostegno e di autorità, la direzione nella quale si vuole vada la dinamica economica e sociale. Quello occidentale, viceversa, presume che questa debba essere scelta dal “mercato”, ovvero dalla libera dinamica degli interessi e delle forze economiche, con il minimo di interferenza pubblica. La differenza è che il sistema pubblico cinese mostra nei fatti una capacità di correzione della rotta, non appena percepisce la traiettoria di sviluppo come estrattiva anziché produttiva. Il sistema pubblico occidentale, e Usa in specie, non ha questa capacità; ogni amministrazione disfa le scelte della precedente e le lobby bloccano ogni riforma e correzione ogni volta questa colpisce qualcuno di rilevante. Ad esempio, in Cina nel 2020 società come Alibaba, Tencent, Didi, apparentemente potentissime, sono state drasticamente colpite riorientando le risorse verso manufacturing high-tech, semiconduttori e EV. A partire dal 2016 è stato gradualmente compresso lo shadow banking che era cresciuto con gli stimoli infrastrutturali, la stessa cosa è stata fatta con la crisi immobiliare di Evergrande e Country Garden che non sono state salvate, ma lasciate fallire in modo controllato (agendo su fornitori, creditori, regolatori). In Usa, invece, il Tarp ha salvato le banche con fondi pubblici senza imporre alcuna contropartita[13], e la politica industriale è stata sempre non coordinata (il Chips Act è l’unico esempio non in linea).
Tutto questo mostra una cruciale differenza:
nell’ecosistema cinese i diversi “sistemi tecnici”[14] sono incorporati in un set di obiettivi strategici chiari, stabili, e ben comunicati a tutti gli attori. Obiettivi che, in linea con quella che è, come vedremo in seguito, un’antica tradizione, premia chi si allinea e penalizza i “free rider”.
Al contrario nell’ecosistema occidentale le imprese e gli attori economici (inclusi i cittadini lavoratori) navigano nell’incertezza regolatoria costante. Ogni cambio di governo, o di set politico, produce un repentino cambio di priorità e di schemi di sostegno. In questo ambiente regolativo fare lobby è la chiave di tutte le azioni, tutto premia l’assenza di adesione a set di pianificazione strategica o valori condivisi.
In questa divaricazione pesano, da una parte, la fusione tra tradizione confuciana e leninista, per cui lo Stato è percepito come coordinatore strategico, le imprese devono servire gli obiettivi nazionali, il capitalismo è incorporato in un progetto politico esplicito e finalizzato a obiettivi pubblici e sociali. Dall’altra, la finzione che Stato e mercato siano separati (mentre il primo serve selettivi interessi privati). Conseguentemente la pianificazione diventa un tabù ideologico quando a farla è la parte pubblica. Si interviene solo in emergenza, sotto direzione delle lobby che si sono attivate per dichiararla.
Il primo sistema, quello Cinese, mostra velocità decisionale e rapidità esecutiva, capacità di imporre agli attori costi a breve termine per benefici a lungo, coordinamento sistemico intersettoriale, neutralizzazione degli interessi particolari. Chiaramente può provocare errori (esempio il Grande Balzo o la Rivoluzione Culturale), e forme di repressione del dissenso (cosa che, peraltro, avviene anche in Occidente), come anche bruschi mutamenti di rotta. Ma, d’altra parte, non subisce l’impossibilità di fatto di seguire l’orientamento del popolo (ad esempio, in Usa una schiacciante maggioranza vuole la riduzione delle ineguaglianze e la riduzione dello strapotere della finanza, ma non si può agire in tale direzione), o di seguire politiche razionali (la diversificazione energetica in Europa, che pure sarebbe questione di vita e di morte in senso geopolitico[15]).
Questo è il motivo per il quale le forze economiche e sociali che dominano la politica in Occidente falliscono. Non possono affrontare il vuoto nel cuore dell’Occidente perché ne sono la causa e dovrebbero negare se stesse.
Tentativi e progetti egemonici
Il fallimento deriva da un tentativo impossibile: rigenerare il capitalismo affinché all’ordine neoliberale segua ancora un ordine che lo salvi senza cambiarlo. Ovvero che alla centralità dei soggetti creati dal sistema di regolazione neoliberale (quell’insieme di soggetti che si connettono alla cosiddetta “finanziarizzazione”) segua quella dei medesimi.
Non è la prima volta che accade, quando tramontò il modello di regolazione fordista-keynesiano, tra gli anni Settanta e Novanta avvenne una transizione simile. In questa lunga fase, al calare del millennio, furono estremizzati e al tempo pervertiti gli elementi che ormai non funzionava più per le élite[16]. Lo si fece allargandoli su scala mondiale attraverso una potente dinamica di integrazione subalterna (ponendo al centro nuovi assetti tecnologici e la creazione dell’ordine nel quale viviamo). Ora si tratta in mutate condizioni di ripetere l’operazione.
Molto brevemente, durante tutto il dopoguerra e poi sempre più negli anni Sessanta di espansione economica gli scontri tra capitali commerciali e sistemi economici riemergenti (Germania, Giappone, Italia, in generale Europa) e i dominanti capitali statunitensi, determinarono la necessità di rivedere il compromesso egemonico con divisione del lavoro tra finanza e industria. Si assestò allora quella che a partire dagli anni Novanta fu letta come una nuova mondializzazione capitalistica che non passava più per il monopolio industriale (progressivamente migrato a Est), ma tramite il controllo della frontiera della tecnica e dei mercati finanziari, con relativo dominio delle informazioni. In altri termini, con l’accresciuta capacità di estrazione di valore tramite tecnologia (in particolare l’abilitatore dell’informatica) e finanza. Samir Amin denunciò in quegli anni come la “triade egemone” (Usa, Europa e Giappone), si definiva come “metropoli”. Grazie al controllo delle tecnologie fondamentali, essa era ormai in grado di delegare la produzione non più alle sue classi lavoratrici, fattesi troppo attive e rivendicative, quanto ai paesi “sub-imperialisti” o “periferici”, nei quali veniva riciclato il capitale come debito. In questi paesi, strutture più autoritarie comunque strettamente controllate dalla catena del debito finanziario (e dagli organismi internazionali come FMI e BM), sotto il dominio del dollaro ormai “fiat”[17], garantivano un ricostituito saggio di sfruttamento. A loro volta, questi margini, senza cadere più nell’economia locale (che avrebbe teso ad aumentare i salari, ostacolando il profitto), né al centro o in periferia, andavano ad alimentare il circuito del ricircolo della finanza[18]. Chiaramente, mentre cadeva il “compromesso keynesiano” e si perseguiva deliberatamente deflazione dei salari e disoccupazione, per spezzare la resistenza dei lavoratori e recuperare i profitti in Occidente, si rendeva necessaria una nuova ideologia. Questa si presentò, a partire dagli anni Ottanta, nella forma della “rivoluzione reaganiana” (e thatcheriana), le quali progressivamente sono divenute negli anni successivi il neoliberismo che abbiamo conosciuto in questo millennio.
Come scrivevo in Dipendenza:
Gli elementi della nuova base tecnologica sono dunque: informatizzazione, finanziarizzazione, reti lunghe, deregolazione e austerità (riassetto fiscale). Essenzialmente, messa in contatto delle “periferie” e “semi-periferie” con il “centro” dominante al fine della codificazione, normalizzazione, trasmissione e accumulazione del valore in forma astratta[19].
In una prima fase, questo nuovo schema al contempo materiale, ideologico e regolatorio, ruppe il tentativo di contrapposizione multipolare che gli accordi dei paesi “non allineati” a Bandung[20] (nei quali la Cina svolgeva un ruolo rilevante) avevano introdotto negli anni Cinquanta. La nuova disciplina del capitale si inserì nelle competizioni interne dei paesi “in via di sviluppo” procedendo alla cooptazione delle classi dirigenti. Nei prossimi capitoli ne misureremo la conseguenza sul versante delle crisi ideologiche (formazione del pensiero “post-coloniale”, sua crisi e mutazione in “decoloniale”).
La divisione del lavoro fu che mentre in Occidente la trasformazione procedette attraverso meccanizzazione, flessibilizzazione e interconnessione a rete, nel mondo “in via di sviluppo” si passò semplicemente a forme di “accumulazione primitiva”[21]. Si instaurò quella particolare dialettica tra classi dominanti e dominate, al centro come nella periferia, addensata in nodi e flussi nei quali ogni soggetto è creato dalla sua posizione nelle relazioni tra capitali, merci, forza lavoro. In questo contesto, che avrà grande influenza anche sulla dinamica dei saperi ‘controegemonici’, come vedremo, ciò che va compreso è che i centri dominanti interconnessi a quelli dominati dai flussi dei tre fattori di produzione appena nominati, come anche le borghesie “compradore” locali, sono sempre un effetto della totalità. Si creò quel mosaico di centri e periferie che abbiamo chiamato “mondializzazione”. Centri dinamici e interconnessi, gli uni e gli altri reciprocamente dipendenti, ma non eguali, e legati da rapporti di sfruttamento.
Giovanni Arrighi vide in Caos e governo del mondo[22] questo passaggio come un segnale del possibile declino dell’egemonia americana, ma fuori da ogni semplice logica causale lineare. Si trattò, guardandolo con il senno di oggi, dell’effetto della crescente difficoltà a creare ordine e alla superficie di riassorbire fenomeni di sovraccumulazione e conseguente creazione di capitali mobili. Insieme ai capitali vennero i relativi ambienti sociali “densi” dediti alla loro gestione e di cui parla la Sassen, in Territorio, autorità, diritti[23]. Si attivò perciò una feroce competizione da parte delle forze territoriali e statali. Furono, in sostanza, le organizzazioni territoriali che presero a competere tra di loro per attrarre e trattenere il capitale mobile, avviando con ciò processi imponenti di redistribuzione verso l’alto.
In Dipendenza[24] sottolineavamo come in una prima fase, che è durata almeno un trentennio e ora si è conclusa, il centro imperiale, statunitense, vincendo in modo visibile affermò una nuova egemonia e ricreò un ordine, riorganizzando il mondo. Nello scontro tra organizzazioni che lottavano per accumulare potere e prestigio, secondo una logica che Arrighi chiamò “territorialista” (e che si riproducevano estraendo valore per via autoritativa) e organizzazioni che sono interessate alla valorizzazione e accumulazione, che chiamava “capitaliste”, prevalsero le seconde. Ne derivò il passaggio dallo schema TDT’ a DTD’, e l’attraversamento di una fase di caos sistemico. Lavorando con concetti messi a punto da Ferdinand Braudel nella sua trilogia[25], Arrighi individuò un modello non economicista nel quale il fattore decisivo diventava il “vantaggio posizionale” di natura topologica[26].
Ora ciò che accadde in questa transizione fu che la densità dinamica della soluzione di riorganizzazione del capitale che chiamiamo “fase finanziaria” raggiunse a metà del primo decennio limiti interni, manifestatisi nel 2008, che da allora sono continuamente spostati in avanti per “guadagnare tempo”[27]. Sul piano sociale e sociopolitico si può dire che la dinamica sta nuovamente eccedendo le capacità organizzative (ed egemoniche) espresse dal blocco sociale e tecnico centrale. Il blocco sociale espresso da finanza, microelettronica, automazione industriale, negli ambienti densi e interconnessi delle aree “core” (negli Stati Uniti le aree delle coste) non ha più il dominio della narrativa, la guida degli immaginari e l’egemonia. La cosiddetta “fase populista”, ne era la conseguenza[28].
Come in quella fase, che vide il cosiddetto “compromesso keynesiano” mutare nella fase “neoliberale”, anche ora si tratta di estremizzare e pervertire, per superare, al contempo confermare, l’ordine sociale esistente per saltare nel prossimo. L’operazione ideologica è di enorme ambizione, non va sottovalutata. Si tratta di raccogliere la sfida posta dall’evidente, e non nascosto, fallimento dell’economia neoliberale. Un’economia eccessivamente concentrata sul breve termine, sull’arricchimento come rapina invece che sulla creazione di valore. Ma anche sull’esaltazione delle parti peggiori dell’uomo, la distruzione della natura entro e fuori di esso. L’idea è di raccogliere la sfida per rovesciare il fallimento in un successo dei medesimi attori. Una vera e propria rifondazione ideologica dall’alto che è espressamente proposta dalle élite per le élite di fronte al baratro del conflitto, della perdita di egemonia e di controllo del mondo. Si tratta di un tentativo di riaggregazione di classe, oltre e sopra le differenze e le fratture geopolitiche in via di allargamento. Una riaggregazione necessaria e decisiva per ricandidarsi come sempre alla gestione del reale, ma da una posizione più salda.
Questa estenuazione della soluzione neoliberale ai conflitti intercapitalistici e di classe si manifesta politicamente nel ‘ciclo populista’ degli anni Dieci del nuovo millennio. Per analizzarla dobbiamo tornare sul piano della cronaca. Allora giova ricordare come, a oltre dieci anni dai tentativi obamiani, abbiamo avuto nei primi decenni del millennio un ciclo di Presidenti che più lontani non potrebbero essere; sintomo a loro volta della divaricazione degli Stati Uniti profondi: prima Trump, che sconfisse una troppo sicura Clinton, e poi Biden, il quale sfruttò il Covid per affermarsi come ancora di sicurezza, ma finì per lanciare il mondo nell’avventura ucraina[29] (abbaiando alla porta della Russia, come ancora si trovò a dire Francesco[30]). Un calcolo complesso, ma anche una scommessa persa, quella di vincere facilmente contro l’orso russo. Quindi, ancora dopo solo quattro anni, si determinò il ritorno di Trump. Siamo, con questa seconda vittoria, nel primo quarto di secolo, a quindici anni dal ciclo neocon di Bush Junior (con le sue avventure mediorientali), otto dal ciclo Obama e sedici anni dopo la crisi-spia della finanziarizzazione esemplificata dal crollo del 2008. A sua volta il 2008 è al termine di un ciclo di bolle alimentate politicamente che risale almeno a un decennio prima, e che fu il segnale della necessità di tornare a qualcosa che potesse, almeno per il grande capitale finanziario, soccorrere; a una sorta di ‘Big state’. Nel linguaggio arrighiano, alla necessità di ribilanciare la logica “territorialista” con quella “capitalista”.
Da allora, a ben vedere il tema è sempre stato questo: come rimettere sotto controllo gli spiriti animali del capitalismo finanziario, senza andargli contro, ma alimentandoli. Una sorta di surf impossibile su una onda anomala e impazzita. Prima fu tentata la via diretta di riempirli di soldi dei contribuenti: allora, come ricordato, ci furono reiterati pacchetti di stimoli bypartizan, da parte della coppia Bush-Obama. Poi venne la ricerca sempre più parossistica di un nuovo “motore economico” (si potrebbe dire di una nuova bolla), mentre cresceva la consapevolezza della crisi terminale della “mondializzazione” anni Novanta. Nel 2015, nel Discorso sullo Stato dell’Unione del secondo mandato, Obama cercò di proporre come motore la svolta ambientalista e le politiche energetiche. La Ue seguì nel 2019 con il “Green Deal”, mentre in seguito, dopo aver scoperto che la Cina si stava facendo campione delle relative tecnologie, il decisore statunitense ha scelto di proseguire cambiando cavallo: rigenerando il keynesismo militare. Tutto questo senza dimenticare tentativi come la IA generativa, i data center, l’auto elettrica in Occidente, la digitalizzazione, la cybersicurezza e le smart grid, altri verranno. Tutti schemi di investimento e impiego dei capitali fluttuanti spinti, e in qualche modo canalizzati, da necessarie campagne di comunicazione per creare il giusto hype, da politiche monetarie, incoraggiamenti, ‘emergenze’, da veri e propri atti di imperio.
Il punto è che si tratta sempre di spinte di stabilizzazione funzionali a transizioni geopolitiche, o forme di guerra ibrida, volte a controllare simbolicamente il futuro e ricostruire la speranza (degli investitori). Tutte volte a scongiurare l’incubo della dissoluzione del capitale.
E anche che, ogni volta, comportano un riaggiustamento ideologico che punta a coinvolgere anche i cosiddetti pensieri ‘controegemonici’, i quali, nell’ambiente di interesse e di comunicazione dominato dal capitale, non possono essere indipendenti. Per cui, a fare un esempio, è di moda contestare la svolta energetica “green” proprio esattamente, e solo, quando il capitale ha deciso di superarla con la mobilitazione “di guerra”. E’ chiaro che come forma di mobilitazione di capitale e distruzione creativa funziona molto meglio una politica che può essere controllata da una o due stazioni appaltanti principali e si riferisce a una ventina, forse, di aziende per lo più interconnesse, che non una la quale è per natura decentrata (dato che l’energia rinnovabile ha bassa densità e l’inquinamento è ovunque).
Nel frattempo, tornando agli anni Dieci, si era nel pieno del ‘ciclo populista’, espressione di parte della rivolta delle classi medie tradite dalla mondializzazione. Un ‘ciclo’ reso visibile dalla Brexit, da diverse elezioni sorprendenti in Europa (tra cui in Italia) e dall’emergere, prepotente, della proposta populista di destra di Trump e di sinistra di Sanders. La scelta dell’establishment democratico verso la Clinton segnò la partita; il primo Trump oppose allo stile di Obama il suo esatto contrario.
Il primo era un discorso universalista e tecnocratico: proponeva una “agenda”, fondata su valori percepiti dai più come astratti, radicati in una visione della libertà come destino storico. Quello di Trump era nazionalista e populista: indicava nemici concreti, sceglieva come forza motivante un meccanismo radicato nella promessa della protezione. Un’agenda che si radicava direttamente nel fallimento di Obama. Un fallimento generale: infatti nei suoi primi anni calò la disoccupazione ma ciò avvenne perché crebbe il lavoro povero e l’ineguaglianza. Inoltre, perché la partecipazione della forza lavoro calò sotto il 60% e crebbero la violenza e la povertà sanitaria. La classe media si sentì quindi abbandonata e assediata dai “poor job”, e minacciata dal tentativo insistito di rilanciare la mondializzazione.
Fu così che il primo Trump irruppe nella cittadella: parlando di “ricostruzione” e di “ripristinare la promessa”. Parlando a sezioni diverse della società (quelle che anche Sanders, peraltro, cercava di intercettare), il nuovo Presidente cambiò completamente tono. Dall’ottimistico ‘viaggio’ si passò ai toni cupi che indicavano un ‘nemico’ interno: nella sua narrazione quei “piccoli gruppi” che, fiorendo, vivono alle spalle della “gente” che perde il lavoro e vede le fabbriche chiudere.
Trump guardava a “madri e bambini intrappolati nella povertà”, in “fabbriche arrugginite”, sparse “come lapidi”, alle prese con un sistema educativo costosissimo, ma che lascia troppi senza speranza, dove il crimine si espandeva. La definiva una “carneficina”. Mentre Obama volava su alte parole, in questo abilissimo, Trump, simulando rozzezza e semplicità, indicava concretamente nemici, vicini. Nel suo discorso ciò che ci danneggia è la concorrenza di altri. Quindi è la globalizzazione, sono proprio quegli immigrati che la sinistra vuole accogliere. Sono quelle politiche, derivanti dall’idea che “il mondo è sempre più piccolo” e che bisogna proseguire avanti sulla strada, e “rischiare”, che bisogna essere adulti e forti, orgogliosi e vincenti. Sono le politiche che hanno solo “arricchito le industrie estere”, sovvenzionato gli eserciti di altri (ad esempio attraverso la Nato), difeso i confini di altri, fatto vendere alla Cina i suoi pannelli fotovoltaici, le sue macchine elettriche, le sue batterie. Fatto altri ricchi e “noi” poveri.
Chiaramente, nei toni e nelle forme, quello di Trump (e di Sanders, e di Corbyn[31]) è anche un cambio di retorica motivato dalla ricerca di una diversa base sociale che non sia imperniata solo sulle classi medie superiori urbanizzate. Che cerchi, cioè, di recuperare dalla rabbia dispersa negli innumerevoli microcircuiti autistici di muto rancore l’energia politica per entrare nella cittadella. Di entrare, sicuramente nel caso di Trump, ma ritengo anche negli altri[32], per ‘aggiustare’ la società e il sistema socioeconomico e di potere, non per cambiarlo. Aggiustare conservandolo. E conservare l’egemonia Occidentale con esso.
Vedremo, leggendo Howard Zinn[33], che questo negli Stati Uniti è sempre stato un trucco delle élite. Un trucco praticato dal tempo di Andrew Jackson il quale, alla luce della minaccia di rivolte come quella del movimento della Valle dell’Hudson, combinando toni populisti e retorica liberale, finse amicizia con la classe lavoratrice mentre si appoggiava sull’ascendente classe dei commercianti. O dai presidenti dell’era “progressista” da Theodore Roosevelt in poi, che iniziarono la proiezione imperiale americana come esplicito tentativo di aprire mercati protetti e quindi sbocchi controllabili senza essere costretti a risolvere il sottoconsumo (nel pieno della depressione del 1893) alzando i salari interni. In altre parole, spostando all’esterno la tendenza a trovare un nemico e un inferiore al quale rivolgere il proprio risentimento. Se del caso usando il più vecchio trucco di deviazione dell’attenzione, quello evocato da Theodore Roosevelt, quando, vedendo la forza dei crescenti movimenti populisti, disse: “questo paese ha bisogno di una guerra”, ovviamente verso le razze “inferiori”.
Mentre, alcuni anni dopo, si arrivava al punto apicale della sfida socialista interna nacque, quindi, una sorta di capitalismo politico che attenuava e sopiva, che concedeva, ma per tutelare meglio gli interessi a lungo termine della classe capitalista, operando per i suoi interessi generali e prospettici, più che per quelli della singola fabbrica o industriale. Oppure, saltando in avanti, nel contesto della crisi degli anni Settanta del Novecento, quando l’establishment giocò una volta ancora la carta del travestimento nella figura di un ricchissimo imprenditore di arachidi del Sud, Jimmy Carter, che si vestì da contadino e costruì un potente richiamo populista. Secondo la lettura di Zinn, Carter, Presidente indicato a suo dire per il ruolo da Rockfeller e Brzezinsky, introdusse un pacchetto sofisticato di apparenti riforme e potenziamento delle spese militari sul quale, in continuità, si inserì (cambiando retorica) Ronald Reagan.
Riassumendo, e in linea generale, in questo ultimo quindicennio, abbiamo assistito a tentativi di ristabilizzare la situazione nel quadro di una crescente sfida internazionale (poi sempre più manifestatasi nei Brics). Avendo, da una parte un declinante network globalista, e dall’altra un raggrumarsi ancora frammentario e contraddittorio di interessi e desideri.
Il primo, utilizzando le analisi di Saskia Sassen può essere descritto come un network imperniato in luoghi densi e grandi città e costituito da grandi banche, istituzioni di regolazione, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici[34]. Ovviamente qui si sta parlando dello strapotere di sistemi di aziende private di natura finanziaria o post-industriale (come Google, Facebook, Apple, ma anche Amazon, etc…) e della corona di aziende, organizzazioni, sistemi d’ordine (come istituti di normazione) e grandi network professionali o di servizi evoluti. Nella loro capacità di spostare immensi volumi di denaro, e di loro alias o feticci, e di esercitare una pressione disciplinante insopportabile anche per i più potenti degli stati. Segni di questo movimento furono gli spostamenti costituzionali che, in tutti i paesi occidentali, ma non in molti orientali, si crearono verso l’esecutivo a danno delle funzioni democratiche legislative. E la privatizzazione, deregolazione, mercatizzazione delle funzioni pubbliche. L’aumento degli enti di regolazione “indipendenti”[35] che assorbono prerogative pubbliche. Sono queste strutture che impediscono di sfuggire oggi alla pressione delle Lobby. Il punto, come mostra la Sassen, è che queste forme non sono state organizzate secondo il principio di autorità nazionale o territoriale (ovvero secondo il vecchio frame dello Stato-nazione), e dunque non fanno discendere la loro normatività (non priva di capacità di minaccia e disciplinante, come si vede costantemente quando evochiamo “i mercati”) dalla ragione di Stato, e neppure dal principio dell’autogoverno democratico. Corrispondono a tali circuiti forme denazionalizzate di cittadinanza che hanno trovato spazio nelle pieghe e si sono costituite in nuova Classe Globale, antevista anche da un acuto analista come l’ultimo Ralph Dahrendorf nel suo efficace, Dopo la democrazia[36]. Nel 2001 il sociologo autore di Quadrare il cerchio[37], denunciava che lo spostamento del potere decisionale in organismi sovranazionali (il principale è la Ue) e alla loro intersezione reciprocamente controllante, neutralizzava il processo democratico. Come denunciava negli stessi anni anche Colin Crouch[38], il “misterioso network che chiamiamo mercato” si è sottratto a qualsiasi controllo. Nel suo testo evidenzia quella che chiamò allora “una nuova classe globale”[39], legata da interessi che oltrepassano i confini nazionali; una classe che dunque non è legata da alcun patriottismo. Una nuova forza produttiva che vive in un mondo tutto suo, egemonizzando l’industria culturale, indicando mode e trend. Si tratta dell’espressione di “nuove forze economiche e sociali, che hanno a che fare con le tecnologie dell’informazione”. Una nuova classe sociale che “si è sollevata sull’onda delle nuove forze”, che gli forniscono insieme denaro e potere. Per essa le nuove forze centrali sono alcuni asset intangibili, ma potentissimi nel contesto delle tecnologie dell’accesso e del contatto dominanti: Concetti, Competenze e Connessioni (le “tre C”). Queste classi, di cui Obama era ovviamente anche biograficamente un alfiere, sono ricche di entusiasmo e apertura al futuro, dinamiche e aperte allo sviluppo. Questo gruppo, che ha fatto spesso le stesse limitate scuole internazionali, master esclusivi, che parla uno slang riconoscibile, che ha uno sguardo, un movimento inconfondibile, che sente l’odore del successo, in quegli anni “fissò i trend, indicando la direzione, esercitando l’egemonia culturale”[40]. Maggiore espressione, denunciava l’anziano sociologo e politico europeo, di questo processo fu la stessa Unione Europea. “Un’entità politica in cui le leggi sono fatte in segreto, in sessioni chiuse del Consiglio dei Ministri, [e che] è un insulto alla democrazia”[41].
Sulla base di questa egemonia ciò che, in definitiva, è venuto a termine in questi anni di estenuazione della soluzione neoliberale e finanziaria è la diagnosi stessa della Sassen in quegli anni: la capacità, “vendendo debito”, di imporre agli Stati, anche potenti, le loro priorità. Ovvero di anteporre il “compiacimento dei mercati” alle finalità pubbliche e di benessere.
Secondo uno schema consolidato nell’ultimo quarantennio, ma ormai indebolito, ciò si tradusse nell’oltranzista difesa dall’inflazione a qualsiasi prezzo in termini di deflazione del lavoro e instabilità politica. Cioè, con le parole della Sassen, nel “persistente incapsulamento del mercato globale del capitale in una rete di centri finanziari che operano negli stati nazionali, non all’estero, cruciale per capire la regolazione ed il ruolo dello stato nel mercato globale del capitale”[42]. Naturalmente, operarono nel contesto di Stati Nazionali come gli Stati Uniti (in alcune fasi anche la Germania), ovvero dominanti. Ma anche in questi guadagnando una semiautonomia, un “disincapsulamento”, che li rese democraticamente e socialmente irresponsabili. Ma anche, per l’ordine del discorso che stiamo perseguendo, irresponsabili in termini di potenza collettiva e lunga durata strategica.
Pensiamo alla crisi greca del 2015. Syriza vince le elezioni con un mandato popolare anti-austerità. Ma il governo greco deve negoziare non con altri governi democraticamente eletti, ma con la 'troika': BCE, FMI, Commissione Europea. Tre istituzioni tecnocratiche, non elettive, che impongono condizioni draconiane ignorando il voto popolare. Questo è il network globalista in azione in quegli anni: priorità dei ‘mercati’ (cioè dei creditori) sulle finalità pubbliche, disciplinamento degli stati via debito, irresponsabilità democratica. Oggi sarebbe crescentemente difficile da ripetere.
Il secondo network emerse a partire dagli anni Dieci. Si oppose a quello ‘globalista’ descritto dalla Sassen e si manifestò in Europa attraverso versioni di ‘sinistra’ (la prima Syriza, il primo Podemos, Corbyn, Wagenknecht) e di destra (Le Pen, Farage, la prima Meloni e il primo Salvini). Negli Stati Uniti, e nella versione di Trump, è formato almeno da due componenti: le forze che si aggregano nel MAGA[43] e il grande capitale finanziario-industriale[44] che cambia bandiera. Abbiamo Elon Musk e con esso molta parte del “Capitalismo californiano”, poi Hedge Fund sotto traccia, alcune specifiche Tech Company come Palantir e Peter Thiel, che si allineano. Alcuni settori energetici “sporchi” (ovvero del petrolio e del gas) e industrie pesanti. In sintesi, Trump sarebbe stato eletto (e rieletto) da un network in formazione, ma dotato di potenti agganci di potere e in sincronia effettiva con una potente corrente sociale, per riportare in termini controllabili la proiezione di controllo dalla quale dipende la stessa possibilità di accumulazione, in qualsiasi forma. E dalla quale, soprattutto, dipende la possibilità di competere con quelle forze che si sono sottratte ormai all’influenza del primo network (come si vede dalla inefficacia delle sanzioni alla Russia ed alla Cina stessa).
Quindi per:
Restringere le catene logistiche bisognose di protezione, e ridurre drasticamente i costi di protezione sostenuti in proprio,
Rinegoziare il multilateralismo e quindi i margini di autonomia economica degli attori principali (USA, Europa in via di disarticolazione, Russia, Cina, Giappone),
Rigarantirsi gli spazi di autonomia strategica, e quindi reindustrializzare e ribilanciare il commercio.
Chiaramente, questa agenda non ha come scopo la cura del “vuoto” (ovvero della perdita di senso e di direzione delle classi medie e lavoratrici, che provoca fenomeni morbosi e la stessa divaricazione politica), quanto riposizionarsi in una competizione geopolitica e frenare il declino di potenza. Ha, cioè, come scopo l’alimentazione e non la sostituzione delle élite estrattive.
Una delle cose decisive da osservare (in parte anche in Biden) è che questo rivolgimento presuppone la messa sotto controllo da parte dello Stato delle forze animali del capitale mobile (facendo leva su quelle delle diverse forme di capitale fisso), dunque richiede l’affermazione della “logica territorialista”[45] alla scala opportuna. Il punto centrale è che un Impero americano sempre più sfidato deve ripristinare, prima che sia troppo tardi, l’autentica fonte di sovranità statuale: il controllo della domanda interna. Ciò perché non può più essere certo di controllare i meccanismi estrattivi i quali nutrono la sua debolezza (la mancata produzione, l’eccesso di consumo, la dipendenza dai flussi finanziari, l’ormai insostenibile, ma necessaria, centralità del dollaro). Ma ciò può avvenire solo se si pongono sotto controllo responsabile, se si riconducono alla logica della potenza dello Stato e non del singolo agente, i flussi di capitale e se si commercia su un piano appropriato. Secondo ragioni di scambio controllate dal centro e non dalla periferia, dall’acquirente e non dal venditore.
In definitiva, e questo serve a capire meglio il clima di scontro nel quale scivoliamo. La coalizione che ha scelto Trump (e Vance) è espressione dell’esaurimento per estenuazione, soprattutto sociale, e dopo numerosi tentativi falliti, del modello di ‘accumulazione per spoliazione’ del liberismo. Tale modello fallisce soprattutto per l’aumento della concorrenza internazionale (come avvenne nel ciclo di fine Ottocento e inizio Novecento descritto da Karl Polanyi che pose termine all’egemonia inglese). È quindi espressione del tentativo di trovare una nuova formula politica di gestione della situazione. Paradossalmente una nuova formula che può anche passare per un’estremizzazione della spoliazione verso i subalterni. Spoliazione che avviene più scopertamente per via politica.
Parte necessaria di questo tentativo, qui occorre fare attenzione, è il superamento con assorbimento-incorporazione e quindi funzionalizzazione delle spinte popolari. Il populismo deve allora diventare forma di governo e rientrare nella sua componente più radicale e ribellista. Si tratta, in un certo senso, della seconda gamba del nuovo potere. Al contrario del tentativo di Obama, questo avviene sul piano del “Nazionalismo imperiale” (un poco come fece Benjamin Disraeli). Ne fa parte necessaria la ricerca di un “dividendo imperiale”, intorno al quale ritrovare l’equilibrio interno necessario per vincere (pacificamente si spera) la sfida storico-epocale con la Cina. Deve perciò passare per l’estrazione dalle province (principalmente l’Europa, come peraltro tentava di fare Biden), e la creazione di una nuova coalizione di potere, con referenti sociali precisi. Quindi per la ricerca di una soluzione storica che abbia la forza di riattivare un ciclo di egemonia che rivoluzioni-conservando per stabilizzare l’impero e la nazione insieme (questa è la novità direi), sopendo, reprimendo e creando nuova gerarchia. Non è per caso che, a saper ascoltare con attenzione, il vero argomento avanzato contro la transizione ambientale ed energetica non è tanto che si tratta di una politica ‘globalista’ (lo è, per necessità, ma è anche territorialista e persino sovranista, dato che punta sulla indipendenza), non è che danneggia i ceti lavoratori (può avere questa dimensione, ma non è affatto una necessità), o che è “di sinistra” (perché non ha colore), quanto che è “cinese”. Ovvero che abbiamo perso la corsa.
Per comprendere il progetto che sottende alla Guerra Mondiale a Pezzi, con variazioni tra Presidenti anche importanti, bisogna capirlo, in definitiva, come una nuova forma del progetto imperiale obbligato a passare necessariamente per un’aspra riorganizzazione del mondo intero su base multipolare (bi o tripolare), prevedendo una nuova divisione dei compiti e delle gerarchie. In questo progetto devono perdere, almeno in senso relativo, i centri industriali e finanziari semi-rivali (la Germania, l’Italia, il Giappone, la Francia, probabilmente la servizievole e volenterosa Inghilterra), se non accettano di stare al loro posto di fortini di confine e consumatori-subfornitori.
In questa nuova struttura d’ordine, potrebbe anche esserci uno spostamento relativo di ricchezza dall’economia dell’intrattenimento e immateriale, privilegiata nella fase finanziaria, a quella produttiva. Non è necessariamente una buona notizia nelle condizioni della tecnologia contemporanea e perché, dal punto di vista dei lavoratori servono competenze diverse. Ma potrebbe essere necessario in un mondo nel quale la Cina laurea molti più ingegneri (e migliori) di tutto l’Occidente messo insieme, ed in India il doppio (che è dieci volte il numero USA) e nel quale l’Iran laurea come gli USA, la Russia il doppio[46].
Il “Nazionalismo imperiale” (al posto dell’Universalismo imperiale) potrebbe essere in questo contesto la nuova forma ideologica adatta (una forma, sia chiaro, che richiederà anni per affermarsi). Questa forma ideologica, nella versione Usa, potrebbe restare una forma di universalismo predatorio esattamente come il progressismo liberal, ma sotto vestiti di diverso colore (che all’inizio confonderanno).
Lotta per il cuore del mondo, scontro tra progetti
Allargando lo sguardo, potremmo avere come posta della Guerra Mondiale a Pezzi, il superamento della fase unipolare, ormai morta, e della centralità dell’Occidente con essa, ma in favore di diversi e alternativi modelli multipolari:
il primo, probabilmente immaginato come sbocco finale da Trump, e da parte dell'establishment Usa, che vede una nuova divisione in blocchi di influenza, nella quale ognuno abbia i “suoi” satelliti da gestire (leggi, verso i quali regolare a proprio favore le ragioni di scambio) e da “proteggere” (cosa che costa), e tra questi ci siano scambi regolati dai rapporti di forza.
Il secondo, che presumibilmente interessa alla Cina (ma non alla Russia), può essere descritto come “armonia sotto il cielo”, e si traduce in un sistematico rifiuto della logica amico-nemico, piuttosto sostituito da quella delle vie (Dao) molteplici alla comune umanità.
Il primo passa per un Grande Accordo, il secondo passa per l'ONU e gli organismi di cooperazione, ma, soprattutto, per gli scambi. Il secondo è gradualista, paziente, avvolgente, fatto di incremento delle interdipendenze, degli scambi e per questo può sembrare mondialista, ma il suo spirito è completamente diverso.
Resta un punto. Il dominio del discorso universalista occidentale sta venendo meno. Di questo discorso siamo al tramonto. Siamo, insomma, al termine del macrociclo nel quale la centralità militare, tecnologica e della formazione del capitale nell'Occidente collettivo ha avuto inizio. Ovvero, alla fine di quel grandioso movimento che si avviò con l'aggiramento spagnolo del blocco turco e la distruzione delle Americhe. La dipendenza e l’assorbimento dei capitali periferici, insieme all'intero sistema morale, ideologico e sociale che vi è stato costruito sopra (la stessa coppia Occidente/Oriente che lo organizza), è ormai presentata davanti agli occhi del mondo e rigettata ogni giorno di più.
Si era trattato di un ciclopico evento geopolitico: l’aggiramento della centralità (e del blocco) mediterraneo. Quel mare abitato da cretesi e fenici, sbocco di egiziani e delle grandi civiltà persiane, frequentato dai greci e conteso da Cartagine e Roma, testimone del turbine arabo e poi del dominio della Sublime Porta, quindi di veneziani e genovesi. Un mare periferico, si intenda, sbocco occidentale del grande centro geopolitico dato dal mondo di lingua Farsi (dall’Afganistan agli Emirati Arabi passando, ovviamente, per la Persia), e poi indiano e cinese (da Occidente a Oriente)[47]. Fino all’aggiramento prodotto dai sovrani spagnoli e portoghesi l’Europa germanica e latina aveva due blocchi in successione a separarli dai luoghi più ricchi del mondo (l’India e la Cina): il mondo arabo e turco, e il retrostante mondo persiano. Restava solo la possibilità di aggirarlo verso Est, o verso Sud. Dal secolo XIV fu aperta quindi la via verso Occidente.
Da allora l’Europa si pensò come centro.
Nel pensarsi come centro l’Occidente ha costruito, sulle basi della trascendenza cristiana, ma pervertendola, una comoda interpretazione: vinciamo perché siamo la punta avanzata della storia, del progresso umano verso la perfezione, e otteniamo il premio di questo essere per il buon diritto che ci viene dalla forza civilizzatrice del commercio, oltre alla potenza della nostra tecnologia e scienza. È il ‘dolce commercio’[48] che, necessariamente e per sua dinamica interna porta con sé attraverso la spinta del consumo l'allineamento del mondo agli standard dell'Occidente. L’idea era di considerare la “modernizzazione”[49] compiuta storicamente, ed in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il XIX secolo come una “tappa”[50], storicamente necessaria, dei “progressi”[51] della “Ragione” che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è quindi considerato possibile, né civile e morale, né produttivo ed autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[52], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere.
Questo mito fu scosso nella prima metà del Ventesimo secolo dall’esperienza della distruzione della tecnica (le mitragliatrici ed il gas nella Prima Guerra mondiale, i bombardamenti ad alta quota, le macchine di sterminio, le atomiche nella Seconda), ed è oggi sfidato dalla direzione che stanno prendendo i fatti.
L’attuale esaurimento per estenuazione di questo giro di idee, e della forza che la rendeva plausibile, almeno per noi, determina uno scuotimento. La mente di ogni buon cittadino occidentale, democratico e progressista, è infatti scossa e confusa dall’indisponibilità russa ad arrendersi, dalla nascita dei Brics e la sua espansione, dall’irresistibile crescita della Cina, dalla crescita di movimenti politici non liberali nei santuari occidentali.
Cambiare la ‘Piattaforma tecnologica’
Questo riassetto geopolitico ed egemonico in corso, posta della Guerra Mondiale a Pezzi, richiede alcuni passaggi necessari:
bisogna rompere le connessioni economico-finanziarie, fatte di flussi di merci ma anche di capitali, di aree di ricircolo dei surplus e di riserve;
costringere gli attori intermedi a scegliere il campo nel quale stare, e che sarà separato da alti muri di tassi e barriere non commerciali;
indebolire la finanza e creare le condizioni per una reindustrializzazione fondata necessariamente sulla nuova “Piattaforma tecnologica”[53] che si sta affacciando sulla scena.
Una “Piattaforma” imperniata non più sulla vecchia, che era costituita da Ict standardizzante e centralizzate[54], industria a rete lunga, decentrata e caratterizzata da forme specifiche di dominazione del lavoro, quindi da funzioni di concentrazione e liberazione dei flussi di capitali, deregolazione e indebolimento delle capacità di comando dello stato, fuga fiscale. In sostanza. imperniata su scambio deflattivo e economia del debito.
Ma su una nuova, determinata dall’insieme dei nuovi abilitatori tecnologici, e geostrategici, che possiamo sintetizzare in cinque aree che sono contemporaneamente arene di competizione:
- la lotta sulla frontiera tecnologica. IA Generativa (“debole”, per ora), che porta con sé la sfida per il controllo dei modelli linguistici e l’automazione cognitiva; la robotizzazione antropomorfa e non; il cloud e datacenter, con la sfida decisiva per la sovranità del dato; la Iot e comunicazione, con le reti distribuite; l’imposizione di standard tecnici e normativi; il quantum computing e la supremazia crittografica; le biotecnologie; la sfida per il controllo del suolo, della sua produttività, dell’economia dei semi e dell’automazione. La lotta per il controllo dell’educazione. Gli attori chiave qui sono, Nvidia per i chip, Open AI e Google per il software ma sfidato da competitori cinesi sempre più agguerriti (come Alibaba, Baidu, DeepSeek), il cloud e controllo del dato, come AWS e Azure, ma anche la sfida di Hauwei. In questa prima area la frontiera non è solo hardware, ma anche semantica (chi definisce le categorie, le lingue, le decisioni automatizzate).
- La sfida per il controllo delle enormi e crescenti necessità energetiche, indispensabili per poter acquisire, stabilizzare e scalare la supremazia tecnologica. In questa area troviamo il controllo dei giacimenti, uranio, gas, petrolio, gas, litio per le batterie; le infrastrutture smart, le reti digitali autonome e resilienti, di indispensabile necessità strategica (per resistere agli attacchi alle infrastrutture); le rinnovabili, le fossili, il nucleare, i vettori energetici intermedi (come l’idrogeno, il cui risiko è alle porte), e via dicendo. Qui è decisivo l’accesso continuo, sicuro, scalabile e non minacciabile e logistica.
- La logistica e mobilità. Droni e cargo autonomi, le nuove rotte di proiezione commerciale e militare e la lotta intorno ai punti di controllo; i grandi progetti infrastrutturali rivali, la Belt and Road cinese (che passa per l’Iran), i canali del “Patto di Abramo” (che passano per Israele), i porti di destinazione alternativi, le linee ferroviarie strategiche (lungo l’Asia, come quella, inaugurata pochi giorni prima della guerra del Golfo, che arriva in Iran partendo dalla Cina); le vie marittime consolidate, come Malacca, Suez, lo stretto di Hormuz, Panama.
- La competizione per l’Artico. Con la lotta per le materie prime critiche, le “terre rare”, l’uranio, il nichel, il litio, il cobalto, il gas e petrolio, l’oro e gli altri metalli. I collegamenti artici, che possono far risparmiare mesi (il passaggio a Nord-Est e quello a Nord-Ovest). La sfida per la sovranità dei paesi limitrofi e per la banchina, la militarizzazione. L’Artico è il nuovo Golfo Persico del Ventunesimo secolo: qui si trovano risorse, passaggi e visibilità satellitare. Il controllo dell’Artico permette accesso alle materie prime e logistica navale ad alta efficienza, bypassando colli di bottiglia (Suez, Malacca). È anche un punto d’appoggio per la guerra elettronica e missilistica del futuro.
- La competizione per lo spazio. Le piattaforme come Starlink e Kuiper, le armi orbitali; i satelliti geoposizionali come Galileo, Beidou, Glonass; il controllo delle telecomunicazioni, e del Gps; la sorveglianza e intelligence; il C5ISR (Command, Control, Communications, Computers, Combat Systems, Intelligence, Surveillance, Reconnaissance). Qui agisce la Space Force americana, ma anche Beidou. Chi controlla lo spazio controlla la comunicazione globale, la capacità di proiezione di forza, la sicurezza degli scambi digitali. È la nuova “high ground”, la quota dominante della guerra informazionale.
Questa nuova “Piattaforma tecnologica” emergente, all’incrocio di queste cinque aree, è anche una nuova agenda delle lotte, intrecciata al “fallimento dell’Occidente” che ne fa da sfondo geopolitico. Le sue dinamiche non sono oggi tutte prevedibili.
Si può però anticipare, ne faranno probabilmente parte:
la radicalizzazione delle tendenze di connessione ubiqua e potenziamento cognitivo, con conseguente distruzione delle rendite cognitive di ampi strati del ceto ‘medio’ dei servizi.
Il passaggio dalla centralità di un’industria (e servizi) con lavoro neo-servile, che ha dominato l’ultimo trentennio, alla divaricazione tra industria ‘core’ senza lavoro e aree di micro-lavoro individualizzate.
La fuga di capitali che si sono scoperti fragili per l’esaurimento dello scambio deflattivo e dell’economia del debito, in primis negli Usa.
Come esito potrebbero affermarsi punti di equilibrio in una nuova regionalizzazione competitiva.
Il punto centrale è che nel passaggio da una “Piattaforma tecnologica” all’altra, ormai non più rinviabile, la vecchia divisione/organizzazione del lavoro, che di spostamento in spostamento è giunta all’oggi, dovrà essere rivista. E anche che questa transizione non sarà pacifica. Come si è visto dalle mosse di apertura, comporterà un esercizio di violenza economica e costrizione politica nella quale si dovrà vedere alla fine chi prevarrà. Non sarà solo questione di scontro tra aree politiche e statuali, quanto tra aree geografiche interstatali e relative costituency sociali. Tra ceti e gruppi, per riposizionarsi e difendere i loro spazi normativi economici ed esistenziali.
La forma sociale che si è affermata nell’era neoliberale, ovvero negli ultimi cinquanta anni, fatta di lavoro debole e flessibile di massa, e sezioni ad alto reddito cooptate nell’economia di scambio finanziario, potrebbe essere spiazzata. Le forme di economia duale, con massive differenze tra centri e periferie, entro ogni area economica (e conseguente polarizzazione sociale e politica) sono quelle che determinano il vuoto del cuore dell’Occidente.
La lotta per la “Piattaforma tecnologica” è dunque lotta per la sua sostituzione o permanenza. Come vedremo è anche lotta per l’affermazione di una “Cosmotecnica” e sarà il centro delle lotte sociali, e tra aree politiche dei prossimi decenni.
In termini molto generali, allargando lo sguardo, la posta della Guerra Mondiale a Pezzi diventa il definitivo superamento della fase unipolare. Tutti gli attori primari sanno che è ormai trascorsa, ma è da definire la direzione. La dinamica dell’insieme delle arene di confronto e lo schema competitivo, ma anche le tendenze della tecnica, portano verso una progressiva regionalizzazione. Ovvero a spazi economici chiusi o semi-chiusi (ai quali la Cina si oppone, secondo uno schema che si connette con una diversa cosmologia), diverse sovranità tecnologiche (ovvero schemi normativi e di standardizzazione, ecosistemi tecnici, pratiche sociali connesse, abilitazioni e meccanismi di sorveglianza e controllo), una pronunciata ristrutturazione logistica e controllo militare delle aree produttive, flussi e ragioni di scambio tra prodotti e servizi a diverso livello tecnologico.
In questo scontro alcuni dovranno perdere e arretrare ulteriormente, alcuni capitali rischieranno la svalutazione, intere aree di capitalizzazione (anche di capitalizzazione fissa, ovvero di centri territoriali ed urbani), rischieranno il declino. Per questo non sarà pacifico. Andremo incontro ad una nuova stagione di conflitti sociali, alla ripresa della lotta materiale[55], ma anche ad una lunga fase di confronto e scontro tra desideri, modelli e volontà di potenza. Ovvero ad una Guerra Mondiale a Pezzi combattuta per il dominio dei corpi, delle cose e delle menti.
Non si tratta, quindi, né solo né principalmente di una guerra commerciale, ma del completo ridisegno di tutte le relazioni internazionali e di tutte le relazioni sociali nei sistemi-paese. Il problema è giungere a questo, dato che lo status quo non è sostenibile e aumenta gli squilibri. Al contempo di farlo senza cadere nella Trappola di Tucidide[56].
Le armi in mano alle parti sono:
per gli Usa restringere e annullare il loro ruolo di “acquirente di ultima istanza”, al contempo creando una contrazione industriale nei paesi esportatori e ridimensionando il ruolo centrale del dollaro, forse sostituendolo con qualcosa di meno controllabile e ricattabile;
per la Cina utilizzare le riserve per sfidare la stabilità del debito pubblico americano, ma soprattutto usare la propria potenza commerciale e produttiva per creare una dipendenza e un regime tributario di nuovo tipo, scambiando ricchezza ma conservando il controllo;
Per gli attori intermedi decidere verso quale economia rivolgere la propria attenzione prioritaria.
Probabilmente il passaggio dallo “Scambio deflattivo” a un nuovo sistema economico, che non necessariamente assomiglierà a quello welfarista[57] porterà a un non breve periodo di assestamento dei prezzi, in un clima inflattivo, inoltre alla perdita di ruolo delle società leader della “economia immateriale” e della finanza connessa[58]. Per questo è cruciale, ed è il vero obiettivo, costringere un più ampio ecosistema di paesi a condividere le tariffe, in cambio dell’esenzione[59]. Nel breve termine lo scontro sarà esistenziale, anche ove non apparisse tale, gli Stati Uniti rischiano la recessione, la destabilizzazione finanziaria e il salvataggio della FED al prezzo del crollo dell’egemonia del dollaro; la Cina rischia la destabilizzazione del consenso interno in strati intermedi di piccola borghesia, politicamente pericolosi. Entrambi, in caso di perdita di equilibrio, potrebbero trovare la strada di un’escalation distrattiva. In tal caso la Trappola di Tucidide si aprirebbe e si potrebbe scivolare verso il confronto diretto.
Di qui la diagnosi per la quale vincerà chi riuscirà a gestire la transizione tecnica conservando coesione sociale. Non già chi troverà le parole più alte e ipocrite (gioco nel quale sembra attardata l’Unione Europea). Vincerà chi avrà la migliore visione, e più pratica, della situazione e dei diversi interessi e valori operanti, chi avrà più pazienza e capacità di tessere reciproche relazioni, chi costruirà alleati e non subalterni rancorosi. In una prospettiva più ampia, o di medio periodo, chi riuscirà a superare meglio il modello mercatista, fondato sullo sfruttamento degli squilibri (da parte cinese a espandere con successo e ulteriormente il mercato interno, da parte americana a ristrutturarlo a danno dei servizi e vantaggio delle filiere produttive interne e relative aree territoriali e sociali).
Tutto questo è lo sfondo, per ora tratteggiato in modo sommario, della Guerra Mondiale a Pezzi, la sua posta in gioco. Nessuno può mettere indietro l’orologio, dunque la fase unipolare e il dominio assoluto della finanza sono terminati. Al contempo scivoliamo, e sempre più velocemente, in una nuova “Piattaforma tecnologica” che avrà con la vecchia una sola cosa in comune: la dipendenza dall’energia. Vincerà questa competizione, anzi, essenzialmente chi avrà più energia (per alimentare computer quantistici, data center, IOT, modelli computazionali) e non per caso si combatte o sulle linee di passaggio dell’energia o intorno ai giacimenti.
Per andare oltre questa diagnosi al contempo necessaria e insufficiente, nel Capitolo secondo concentreremo lo sguardo sulla storia dei rapporti dell’Occidente con l’Altro da sé. Un Altro che questi ha sistematicamente negato e al contempo, perciò, sfruttato con singolare perversa innocenza.







































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