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il rasoio di occam

Quale comunismo? Un invito a rileggere il “Manifesto del Partito Comunista”

di Michele Martelli

Il “Manifesto” non è la sacra Bibbia, né il Catechismo dei comunisti, ma un’opera aperta, laica, profana, imperfetta, incompiuta, in fieri, con luci e ombre, intuizioni geniali e difetti innegabili. Un’opera che va letta e studiata senza estrapolarla dall’epoca in cui fu scritta e senza pregiudizi fideistici, al pari di ogni altro classico della politica

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Comunismo si dice in molti modi

«Il Manifesto del Partito comunista è uno dei più grandi scritti politici di tutti i tempi»[1]. Così un filosofo e stu

dioso liberale italiano ultracritico di Marx, allacciandosi a un giudizio analogo del giovane Max Weber, poi divenuto il grande sociologo, denominato l’Anti-Marx, o «il Marx della borghesia»: «il Manifesto è una realizzazione scientifica di prim’ordine. Questo è innegabile»[2].

Ma perché, chiediamoci in via preliminare, Marx ed Engels l’hanno intitolato Manifesto del Partito comunista, e non «socialista»? In primo luogo, per ragioni politiche contingenti: a) perché il compito di scriverlo gli era stato affidato nel dicembre del 1947 dal Congresso londinese della Lega dei Comunisti (ex-Lega dei Giusti)[3], in cui militavano da qualche tempo: b) perché – lo spiegò poi Engels nella Prefazione del 1890 al Manifesto – «socialisti» si definivano in quel tempo i seguaci di «vari sistemi utopistici» (Owen e Fourier), e molti «ciarlatani sociali» e riformatori borghesi (tra cui Proudhon), mentre invece con «comunismo» si intendeva il «movimento» reale, le agitazioni e le lotte concrete degli operai[4]. In secondo luogo, per ragioni filosofiche e teoriche: la loro idea di comunismo era stata già da loro elaborata nelle sue linee fondamentali dal 1844 al 1847 in diversi scritti di critica e confutazione del socialismo utopistico e del riformismo borghese. Il loro comunismo, lungi dall’essere «un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi», coincideva col «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»[5].

Ma ragioni teoriche e ragioni contingenti finivano con l’intrecciarsi strettamente. Nella stessa pagina della Prefazione citata, Engels distingueva il comunismo del Manifesto anche da quello «utopistico», «soltanto istintivo, spesso un po’ rozzo» di alcuni visionari politici pre-quarantotteschi (Weitling e Cabet). In un altro scritto di qualche anno prima, Engels aveva definito «comunismo critico» la sua (e di Marx) concezione politica del 1847 da esporre nel futuro manifesto della Lega[6]. Si potrebbe aggiungere che il comunismo di Marx ed Engels era assai lontano da quello «anarchico o libertario» di Bakunin, alle cui tesi nell’ambito dell’Associazione internazionale dei lavoratori (1864-1872) essi opposero una lunga e tenace lotta politico-teorica[7]. Il comunismo anarchico di Bakunin era peraltro diverso da quello, di poco posteriore, di Kropotkin o Cafiero.

Dunque, prima e dopo il Quarantotto, comunismo si diceva in almeno tre modi: utopistico, critico, e anarchico. Modi che andavano poi declinati in tanti sotto-modi quanti erano gli autori e gli agitatori in questione. Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, la parola comunismo, andata in disuso (con l’eccezione del movimento anarchico, nonché di Antonio Labriola, che adottò il nome di «comunismo critico»[8]), fu sostituita da «socialista» e «socialdemocratico». Engels, che nel 1892 parlava di «noi socialisti tedeschi»[9], fu fino alla morte il padre nobile, e al tempo stesso, un severo critico, al pari di Marx, di certe tendenze antirivoluzionarie che la socialdemocrazia tedesca già da allora cominciava a evidenziare. La parola comunismo tornò in uso dalla Rivoluzione d’Ottobre, e dalla nascita dei vari Partiti comunisti terzinternazionalisti, in avanti.

Da allora ad oggi, fu declinata in altri infiniti modi, l’uno al tempo stesso simile e differente dall’altro, da paese a paese, da partito a partito, da autore ad autore, e spesso in accoppiamento con altre parole. Così si è avuto un comunismo rivoluzionario, riformista, cristiano, democratico, sovietico, cinese, cubano, e così via. Il che si potrebbe dire, con le dovute differenze, per ogni altro -ismo, per esempio del socialismo o del liberalismo (da declinare anch’essi al plurale). Se è vero dunque che comunismo si dice in molti modi, quanti gli autori, programmi e fenomeni al tempo stesso simili e diversi che ad esso si richiamano, sarebbe preferibile forse cercare di ricavarne un concetto idealtipico, aperto e rivedibile in base ai dati empirici e storici, piuttosto che farne, come oggi è diventato di moda, un’ipostasi negativa, metafisica e sovrastorica.

 

Contenuto dell’opera

Nel primo, il più importante, dei quattro capitoli in cui è diviso, il Manifesto affronta il tema dell’antagonismo tra borghesi e proletari. Dopo aver accennato alla concezione della storia come lotta fra classi antagoniste, da quella fra liberi e schiavi nell’antichità fino a quella contemporanea fra borghesi e proletari, il Manifesto esalta la funzione rivoluzionaria della borghesia per il suo cosmopolitismo, per aver accresciuto smisuratamente produzione e consumo, creato un mercato mondiale rendendo i paesi interdipendenti, trascinato nella civiltà con i bassi prezzi delle merci anche le nazioni più barbare, assoggettato la campagna al dominio urbano e creato città enormi, tramutato i vecchi professionisti e intellettuali (le cui attività una volta erano oggetto di culto e di venerazione) in prosaici stipendiati al suo servizio.

Ma così facendo, simile all’apprendista stregone che non riesce a dominare le potenze infernali da lui evocate, la borghesia ha provocato ciclicamente crisi commerciali ed epidemie di sovrapproduzione da cui può uscire solo con la preparazione di crisi più generali e più violente, che minano le condizioni stesse della sua esistenza come classe dominante. Condizioni tanto più precarie e insostenibili, dicono Marx ed Engels, in quanto la borghesia ha contemporaneamente creato col proletariato industriale la classe rivoluzionaria che la seppellirà.

E ciò per diversi motivi: sia perché il salario operaio è appena sufficiente per i mezzi di sussistenza; sia perché, ridotto ad accessorio della macchina, l’operaio vede il suo lavoro deprivato di qualsiasi autonomia e dignità; sia perché a causa della libera concorrenza i vecchi e nuovi ceti medi produttivi vanno in rovina precipitando nel proletariato; sia infine perché le diseguaglianze sociali fra proletari e capitalisti crescono a ritmo vertiginoso, provocando l’immiserimento crescente del proletariato. Ecco perché, in conclusione, non essendo l’esistenza della classe borghese più compatibile con la società, diventa chiara, secondo gli autori del Manifesto, l’inevitabilità storica sia del tramonto della borghesia sia della vittoria irreversibile e definitiva della classe operaia.

Nel secondo capitolo, dopo aver chiarito che i comunisti non sono un partito esterno al proletariato, ma la sua «parte» interna più progressiva e teoricamente avveduta, il Manifesto si volge alla difesa dei comunisti dalla valanga di accuse rivoltegli dai loro avversari: innanzitutto, i comunisti non vogliono abolire ogni proprietà privata, ma solo la proprietà borghese dei mezzi di produzione, e quindi l’appropriazione privata del profitto e del capitale; in secondo luogo, non la famiglia, la persona, l’educazione, la religione, la patria, i valori etico-politici e le presunte verità eterne i comunisti vogliono eliminare, ma solo la forma storica socialmente limitata, dogmatica e distorta che tutto ciò ha assunto col dominio delle vecchie classi privilegiate preborghesi prima e della borghesia capitalistica poi.

Segue un programma di misure rivendicative in 10 punti, basate sulla nazionalizzazione delle industrie, dei mezzi di trasporto, della proprietà agraria parassitaria e del credito (tra le altre misure, anche «un’imposta fortemente progressiva», cioè un sistema fiscale come fattore di redistribuzione della ricchezza, tuttora fortemente osteggiata in Occidente – insieme alle politiche di nazionalizzazioni – dalle destre neoliberiste, e l’«istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli», con l’abolizione del lavoro infantile, cosa, anche questa, in molti paesi del mondo ancora da venire). Il capitolo si chiude con una suggestiva immagine della società futura: «un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti»[10]. Un’idea solidaristica, anti-individualistica e anti-liberista di libertà che, a mio parere, ogni progressismo politico-sociale dovrebbe far propria.

Quelli restanti sono i capitoli più strettamente legati alla contingenza politica: il terzo capitolo sottolinea la distinzione fra il comunismo marx-engelsiano e le varie teorie comuniste e socialiste dell’epoca (feudali, borghesi, piccolo-borghesi e utopistiche), di cui abbiamo in parte già parlato; il quarto dichiara l’apertura e disponibilità dei comunisti ad ogni alleanza politica, sociale e nazionale con i vari partiti d’opposizione antifeudali e antiborghesi, dalla Svizzera alla Polonia alla Germania. Il Manifesto si chiude col famoso proclama rivoluzionario: «Le classi dominanti tremino al pensiero di una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdere che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti paesi unitevi»[11].

 

Attualità/inattualità

Come ogni classico, anche il Manifesto presenta elementi di attualità e di inattualità, considerando però che l’inattuale di oggi può diventare l’attuale di domani, e viceversa. Inattuale è certo oggi, in Occidente, l’appello alla rivoluzione immediata, spiegabile col fatto che l’opera fu scritta nel pieno delle violente sommosse popolari del Quarantotto, di cui voleva essere un manifesto programmatico, espressione, scrivevano i due teorici comunisti, di un «movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi»[12].

Del pari superata è la tesi, colorata di un malcelato escatologismo messianico, dell’imminenza della fine della borghesia, perché incapace di risolvere le contraddizioni esplosive tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione da essa stessa innescate; a quasi duecento anni dal Quarantotto, la borghesia ha dimostrato di poter reggere a ogni tipo di crisi economica e di conflitto politico-sociale, rinascendo ogni volta dalle sue ceneri. A ciò si aggiunge la troppo semplicistica prefigurazione della società comunista del futuro, priva di contraddizioni e conflitti sociali, dove, si legge nel Manifesto, «il pubblico potere perderà il suo carattere politico»[13]: anche supposta la futura scomparsa dell’antagonismo fra borghesi e proletari, resteranno pur sempre classi, ceti, gruppi sociali e singoli individui divisi da interessi, passioni, opinioni, legittimamente diversi e conflittuali, e forse anche potenzialmente antagonistici, la cui auspicabile composizione, nel pieno rispetto e protezione dei diritti individuali e del pluralismo delle idee, non potrà che essere affidata al potere pubblico politico. Il «paradiso» non è di questa terra. E l’utopia si rovescia facilmente in distopia.

Ne deriva che superata appare anche l’idea dello Stato moderno come «comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese»[14]. Tale era in effetti lo Stato liberale, o liberal-feudale (cioè supportato dai residui dei vecchi ceti feudali) nella metà dell’Ottocento; oggi, in forza di decenni di dure e sanguinose lotte operaie e popolari, lo Stato ha assunto almeno in Occidente complesse e articolate forme istituzionali democratico-rappresentative allora del tutto impensabili. Alla conquista dei diritti politici e civili (libertà di opinione, stampa, associazione, ecc.) ha fatto progressivamente seguito quella dei diritti sociali (al lavoro, alla salute, all’istruzione, ecc.) e dei diritti di nuova generazione (sessuali, di genere, bioetici, ecc.). Diritti democratici che vanno difesi, attuati, progressivamente allargati, affinché, come suggerisce il Marx della Questione ebraica[15] (1844), la meta dell’universale «emancipazione politica» e giuridica si possa coniugare con quella dell’universale «emancipazione umana», cioè di classe, economico-sociale.

Ciò che del Manifesto soprattutto resta attuale è, a mio parere, lo schema teorico di fondo, che individua nella centralità dell’antagonismo tra borghesia e proletariato, capitale e lavoro la caratteristica della società moderna. Ma è uno schema che va rivisto e aggiornato, con opportune approfondite analisi sia della nuova, più complessa e stratificata composizione di classe della società, sia dei nuovi poteri forti capitalistici, della funzione globale della finanza, del rapporto Stati/economia e così via[16]. Mi pare però difficile da negare che, se la catastrofica previsione dell’immiserimento crescente della classe operaia e dell’inevitabile proletarizzazione dei ceti medi è stata storicamente parzialmente smentita nel passato per quanto riguarda l’Occidente, non lo è stata su scala planetaria. Il colonialismo e l’imperialismo capitalista, con la depredazione e l’oppressione dei paesi, popoli e nazioni del Terzo mondo, «i dannati della terra» (Frantz Fanon), ne sono stati purtroppo nell’Otto-Novecento la prova provata.

Ultimamente, quella previsione sembra confermata da trent’anni di globalizzazione neoliberista, alle radici di una crisi economico-finanziaria mondiale di proporzioni inimmaginabili e non ancora del tutto superata. Non solo l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze sociali, e l’ulteriore devastazione economico-sociale dei paesi poveri, causa, insieme a guerre e terrorismo, dell’odierna immigrazione di massa e di vecchie e nuove forme di lavoro schiavizzato, ma anche l’attuale tendenziale processo di pauperizzazione delle classi lavoratrici e dei ceti medio-bassi professionali e produttivi dell’Occidente una volta opulento – sono sotto gli occhi di tutti. Senza dire del disastroso saccheggio della terra e dello sconvolgimento degli eco-sistemi da parte del neocapitalismo odierno, che ha portato lo squilibrio ecologico del pianeta ad un punto prossimo alla fine, compromettendo le nostre stesse condizioni di sopravvivenza come specie[17].

Per finire, il Manifesto non è la sacra Bibbia, né il Catechismo dei comunisti, ma un’opera aperta, laica, profana, imperfetta, incompiuta, in fieri, con luci e ombre, intuizioni geniali e difetti innegabili. Un’opera che va letta e studiata da un lato senza estrapolarla dall’epoca in cui fu scritta, e cioè relativizzandola e storicizzandola, dall’altro compulsandola criticamente, senza pregiudizi fideistici, al pari di ogni altro classico della politica, per ricavarne ipotesi, metodi e criteri teorico-pratici per meglio comprendere, orientarsi e agire nel mondo, ai fini della necessaria (e tuttavia incerta, perché non garantita da nessun Dio o Provvidenza) realizzazione di una nuova società più giusta e più egualitaria, o meno ingiusta e meno inegualitaria di quella attuale.

L’assolutizzazione e dogmatizzazione del marxismo a sistema perfetto e compiuto di dottrine onniesplicative (l’onnisciente Diamat), appartiene oramai al passato, anche se recente, ed è comunque da rigettare decisamente[18]. Anche pensando a Marx. Il quale, qualche anno prima di morire, ebbe modo di dissociarsi nettamente da alcuni suoi seguaci francesi della fine anni ’70: «Tout ce que je sais, c’est que je ne suis pas marxiste»[19]. Se per marxismo si intende un complesso dogmatico e intoccabile di idee, si può dire, in questo senso, che Marx non solo non è mai stato marxista, ma forse è stato il primo antimarxista della storia.


NOTE
[1] G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Laterza, Roma-Bari, 1981, p. 94.
[2] M. Weber, Il socialismo, 1918, in Id., Sul socialismo reale, con interventi di M. Cacciari e G. Bedeschi, Savelli, Roma, 1979, p. 40.
[3] Cfr. F. Engels, Per la storia della Lega dei Comunisti, in appendice a K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, a cura di E. Cantimori Mezzomonti, introd. di L. Riberi, con Postfazione di B. Bongiovanni, Einaudi, Torino, 2014; sulla storia della Lega, vedi anche l’opera classica di F. Mehring, Vita di Marx (1918), introd. di M. A. Manacorda, Edizioni Rinascita, Roma, 1953, pp. 136-140.
[4] F. Engels, Prefazione all’edizione tedesca del 1890, in appendice a K. Marx e F. Engels, Manifesto cit., p. 109.
[5] K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca (1845-46), tr. di F. Codino, introd. di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 25.
[6] F. Engels, Per la storia cit., p. 62.
[7] Cfr. K. Marx - F. Engels, Marxismo e anarchismo, a cura di G. M. Bravo, Editori Riuniti, Roma, 1971.
[8] A. Labriola, In memoria del Manifesto dei Comunisti (1895), in Id., La concezione materialistica della storia, introd. di E. Garin, Laterza, Bari, 1965, p. 7.
[9] F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Prefazione del 1882, introd. di G. Prestipino, Editori Riuniti, 1970, p. 31.
[10] K. Marx e F. Engels, Manifesto cit., p. 32.
[11] Ivi, p. 50.
[12] Ivi, p. 24.
[13] Ivi, p. 32. (Cfr. D. Losurdo, Introduzione a K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari, 2018, pp. XLI-XLII).
[14] Ivi, p. 9.
[15] K. Marx, La questione ebraica (Zur Judenfrage), con testo tedesco a fronte, a cura di G. Scuto, Bolsena (VT), 2003, pp. 71-91.
[16] Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011; Id., La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012.L. Gallino,
[17] Sull’attualità/inattualità di Marx, cfr. M. Musto (a cura di), Marx revival. Concetti essenziali e nuove letture, Donzelli, Milano, 2019.
[18] Della critica storico-teorica dello stalinismo, mi sono occupato in M. Martelli, I filosofi e l’Urss. Per una critica del «socialismo reale», La Città del Sole, Napoli, 1999; Id., Il Secolo del Male. Riflessioni sul Novecento, Manifestolibri, Roma, 2004, pp. 123 sgg.
[19] Cfr. B. Bongiovanni, Postfazione a K. Marx e F. Engels, Manifesto cit., pp. 138, 162-163, 186-187.

 

Comments

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Anna
Friday, 17 July 2020 14:17
AlsOb
Anche il lavoro salariato per Marx è storicamente determinato. Più banalmente direi che si è trattata di una “dimenticanza” nella sua opera. Ed è una “dimenticanza” che include ma che va al di là del tema dell’uguaglianza di genere ( il lavoro riproduttivo non sempre e ovunque è stato solo femminile ) : riguarda il non aver dato conto che “l’arcano dell’accumulazione” capitalistica ( Il Capitale, Libro Primo ) presuppone l’occultamento, la naturalizzazione e svalutazione dell’ “arcano della riproduzione”. Ora, questa “dimenticanza” di Marx ed Engels probabilmente fu dovuta al massiccio ingresso in fabbrica delle donne (e dei bambini) che in quel momento risaltava ai loro occhi, come Il Manifesto stesso in parte testimonia. In realtà, anche negli anni successivi, la specifica divisione sessuale del lavoro (non meno importante delle enclosures o del primo colonialismo per la transizione al capitalismo) (e la separazione stessa tra ambito della produzione e ambito della riproduzione ha una storia che culmina con l’invenzione della casalinga a tempo pieno nella seconda metà del XIX secolo) rimane una questione inevasa da entrambi.
Poi, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ad aver “perso di valore” (ma più per cambiamenti culturali che socio economici) non è stata tanto la “famiglia”, ma la famiglia “tradizionale”, “patriarcale” (e meno male, no?). Ma più che parlare di “due sfruttati all’interno di uno stesso nucleo famigliare”, direi che Il capitale ha utilizzato il salario maschile come strumento di regolazione e di disciplinamento del lavoro e della condizione femminili (ricordiamoci che, ad esempio in Italia fino alla modifica del diritto di famiglia degli anni ’70, la “moglie” era formalmente subordinata al “marito”): appunto come strumento di appropriazione e accumulazione di un’enorme fetta di lavoro non pagato.
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AlsOb
Thursday, 16 July 2020 17:25
Anna, senza voler aggiungere, occorre ricordare che per Marx a differenza di Ricardo, come spiega, il salario di sussistenza è storicamente e culturalmente determinato quindi dinamico. Nella pratica con l'ingresso massiccio delle donne nella forza lavoro, il che è una base essenziale del boom e rivoluzione economica degli anni 60, il salario di sussistenza per un nucleo famigliare e relative condizioni riproduttive è diventato quello di due sfruttati. E infatti la famiglia perde valore.
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AlsOb
Thursday, 16 July 2020 17:06
Ciò che lascia un poco perplessi dello scritto la cui tesi e conclusione, "Se per marxismo si intende un complesso dogmatico e intoccabile di idee, si può dire, in questo senso, che Marx non solo non è mai stato marxista, ma forse è stato il primo antimarxista della storia."senza molte problematizzazioni può essere condivisa, sono due punti.
Il primo la partenza da un testo che Marx stesso pone come aperto, per essere una enumerazione e chiarificazione di principi generali scientificamente e politicamente sempre validi, la cui declinazione storica tuttavia segue antidogmaticamente l'evoluzione tecnica, economica e sociale. Perciò sembra essere preso (e forse lo stesso Marx) un poco a pretesto anche se per una nobile causa.
"However much that state of things may have altered during the last twenty-five years, the general principles laid down in the Manifesto are, on the whole, as correct today as ever. Here and there, some detail might be improved. The practical application of the principles will depend, as the Manifesto itself states, everywhere and at all times, on the historical conditions for the time being existing".[Marx]
Sarebbe inoltre opportuno per compiere un passo avanti specificare tecnicamente quali siano gli elementi in Marx o in Stalin o altrove da correggere o rimodulare e mostrare, per le adeguate applicazioni, la effettiva comprensione delle condizioni economiche attuali per evitare le ricorsive astratte e altrettanto dogmatiche lamentele, che vanno bene in ogni circostanza, ma che in pratica servono poco. Altrimenti si rischia solo di riciclare nel suo piccolo in nuovi colori le roboanti e superficiali declamazioni di un Nikita qualunque che se ci fosse stato un partito comunista intelligente avrebbe pensionato immediatamente per intuire che nella sua stoltezza avrebbe solo avviato un percorso verso il disastro, con stolti in aumento esponenziale.
Il secondo punto ha a che fare con l'atteggiamento di autoflagellazione, il che per molti versi è comprensibile e sarebbe doveroso se condotto soprattutto per la giusta ragione, cioè i comunisti o sedicenti tali sono dogmaticamente coerentemente saltati da Marx a Lucas facendosi promotori da maggiordomi arricchiti del capitalismo neoliberista prendendo leggermente per i fondelli gli sfruttati, ma al tempo stesso fa da contrasto all'indulgente uso di categorie pseudoeconomiche della pseudometafisica neoclassica che è un distillato ideologico dogmatico antiscientifico e mistificatorio. Le categorie di Marx, l'unico che abbia capito il ruolo della moneta nel modo di produzione capitalistico, magari con qualche lieve completamento, sono le sole a permettere la rappresentazione e comprensione del capitalismo in particolare nella sua versione attuale fittizia tendente al neo medioevo, ma sono ignorate e non studiate. E gli stessi marxisti critici e antidogmatici finiscono per indulgere al dogma neoclassico per non voler apparire troppo dogmatici.
Come incoraggiamento a leggere e studiare Marx oltre dogmatici slogan e a pensare l'azione politica in modi non settaristici va bene. E ciò sarebbe in accordo con l'invito di Marx a non essere troppo "marxisti" per risultare pregiudizievole . Si parte del resto da zero. Poi però sul piano pratico ci vorrebbero contenuti e una grammatica per leggere i fatti e interpretarli e non riciclare riverniciare le narrazioni della classe dominante che spende trilioni di dollari e euri per imporre falsa coscienza e falsi dogmi.
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Anna
Thursday, 16 July 2020 16:54
Fabio
Si, Marx ne parla nei paragrafi dedicati alla famiglia nel secondo capitalo, ma specificamente nel primo capitolo, Borghesi e Proletari, dove si legge che i costi che genera l’operaio si limitano ai mezzi di sussistenza di cui egli necessita per il proprio sostentamento e la propria riproduzione. Facendo coincidere la possibilità della riproduzione della forza lavoro con la sola capacità di acquisto, tramite il salario, dei beni prima necessità, Marx non mostra ( e non lo mostrerà nemmeno nei Grundrisse, ne Per la critica dell’economia politica o nel Capitale ) come, prima ancora del “lavoro salariato”, sia quello riproduttivo ( domestico e di cura, cioè il lavoro che trasforma le merci in effettivi elementi di sussistenza per l’operaio salariato ) la condizione di esistenza del capitale, perché condizione di riproduzione della forza lavoro. Il “contratto sessuale” ( C.Pateman ) o “l’aggregato domestico” ( I.Wallerstein ) vengono taciuti e non vengono analizzati. Sia chiaro, non vorrei essere fraintesa : chi ha poi sviluppato meglio questi concetti ( potrei aggiungere ovviamente Silvia Federici e tante/i altre/i ) devono molto a Marx ; senza Marx non avrebbero nemmeno avuto gli strumenti per iniziare le loro ricerche.
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Fabio
Thursday, 16 July 2020 14:48
Anna, non mi sembra che Marx sviluppi "poco" o "male" i concetti di sussistenza e riproduzione. Lo fa nel secondo capitolo, nei paragrafi dedicati alla famiglia. Non ci vedo un'analisi sviluppata "male". Forse inevitabilmente sintetica ( ricordiamoci gli scopi divulgativi del Manifesto ) ma "male" non mi pare affatto. Per il resto posso essere d'accordo, ma su questo punto direi di no.
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Anna
Thursday, 16 July 2020 12:58
Marx ( notoriamente un critico dei Testi Rivelati ), era consapevole di essere un uomo del XIX secolo , la cui prospettiva era ineluttabilmente limitata da quella realtà sociale . Quindi nel Manifesto ci sono parti divenute obsolete ( quasi subito, come le tattiche raccomandate ai comunisti in Germania ; Guizot, Metternich e lo zar entrarono presto nei libri di storia ; e quanto alla “letteratura socialista e comunista” gli stessi Marx ed Engels ammisero nel 1872 che era già sorpassata ). Cosa più importante, è naturalmente linguaggio del Manifesto che non va estrapolato dall’epoca e dal contesto in cui fu scritto. Termini come “stand” (ceto) o “demokratie” (democrazia) o “national” (nazionale), o trovano oggi scarsa applicazione o non hanno più il significato che avevano nel discorso politico-filosofico degli anni Quaranta dell’Ottocento ; quel “partito comunista” di cui il testo dichiarava di essere “il manifesto”, non aveva nulla a che vedere con i partiti di vario tipo della politica novecentesca. “Partito” significava ancora essenzialmente una tendenza o una corrente d’opinione o d’indirizzo politico ( sebbene Marx riconobbe che è nella lotta di classe che il problema del partito si pone, con urgenza, come strumento nello stesso tempo di concentrazione e di disseminazione del potere e su una dimensione immediatamente internazionale ) .
Come è già stato ricordato, nel Manifesto ci sono poi concetti, come quello di lavoro, che Marx preciserà successivamente e, aggiungo, ce ne sono altri poco sviluppati, o sviluppati male, anche successivamente ( ad esempio quelli di sussistenza e riproduzione ). Altri ancora, come la polarizzazione tra borghesia e proletariato, che oserei definire veri in se stessi, indipendentemente dal tempo e dal contesto : ma solamente, esclusivamente, unicamente, se si dismettono gli occhiali del nazionalismo metodologico e se si indossano quelli planetari, globali, mondiali. ( come d’altro canto lo stesso Marx prefigura con l’analisi del mercato mondiale ) .
Ma a mio parere quando un testo viene definito “classico”, non vuol dire che sia superato, ma che è un’Opera importante e fondamentale . Vuol dire che non perde mordente e che quindi rivela delle capacità penetranti dal punto di vista interpretativo e analitico nonostante il passare del tempo , come appunto Il Manifesto. “Classici” sono la Critica della Ragion Pratica, Il Capitale etc. etc.
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Anna
Thursday, 16 July 2020 11:15
A costo di scrivere delle banalità, credo sia il caso di completare la risposta che l’autore fornisce circa la distinzione, in Marx, tra “socialismo” e “comunismo”. Come noto , il socialismo in Marx corrisponde alla fase di transizione tra società capitalista e società comunista; corrisponde cioè alla “dittatura del proletariato” ( K.Marx, “Critica del programma di Gotha”, pag 30 ), “alla prima fase della società comunista, qual è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalista” ( ivi, pag 17 ). In questo caso, se il comunismo, come è chiaro nel Manifesto, corrisponde al regno della libertà, a “un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti” ( Marx, Engels, “Il Manifesto del partito comunista”, pag 35 ), il socialismo rappresenta invece la prima fase della società comunista, “non come si è sviluppata sulla proprio base, ma come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le macchie della vecchia società dal cui seno essa è uscita”( K.Marx “Critica del programma di Gotha”, pag 15 ). Questo è il motivo principale per cui Marx si dichiarava comunista e non socialista. Il socialismo , cioè la proprietà statale , è quello che Marx nei Manoscritti chiama comunismo “rozzo” .
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romke
Tuesday, 14 July 2020 17:22
Il professor Martelli si è impegnato nella più comune e ripetuta pratica revisionistica stampando questo miserabile articolo. I passaggi soliti:
- riassumere a proprio modo un testo: non accenna al lavoro salariato quale aspetto centrale dello sfruttamento capitalistico, cioè lavoro non pagato, sebbene venga ripreso almeno quattro volte da M.E. nel testo; esempio "Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per moltiplicare il lavoro accumulato"
- incensare aspetti generali e socialmente, al momento,"indolori": tipo la centralità dell'antagonismo borghesia e proletariato che si affretta però a voler rivedere.... ma che non rivede qui
-sentenziare infine che ci sono argomenti non più attuali, come il carattere non più di classe dello Stato che sarebbe divenuto ora democratico e migliorabile (come se democratico e migliorabile non potessero essere caratteristiche dello Stato quale strumento di soggezione di una classe sulle altre).
Dunque lo sfruttamento è una questione su cui discutere con possibilità di ammorbidirlo, lo scontro tra le classi può trovare una mediazione grazie a questo stato democratico così piento di attenzioni per i lavoratori
E ad averne voglia, l'articolo è pieno di spunti sui quali intervenire.
L'invito alla lettura del Manifesto da parte del professore è solo occasione per affossarne i temi, tutt'ora validi. Mi domando perchè ora? Forse che vuol dare una mano, diffondendo sfiducia, al Ministro dell'Interno che sta preparando lo Stato democratico al prossimo autunno di "rabbia sociale"?
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Eros Barone
Tuesday, 14 July 2020 15:24
L'autore di questo epitaffio muove da un'ottica dogmaticamente liberaldemocratica e sembra desideroso di archiviare il "Manifesto" come un classico del pensiero politico, alla stessa stregua della "Città del Sole" di Tommaso Campanella o dei "Due trattati sul governo" di John Locke o, per citare un contemporaneo, di "Una teoria della giustizia" di John Rawls. Gli è che il "Manifesto" marx-engelsiano non è soltanto un classico di cui sia lecito, in sede presuntivamente critica, sceverare col bisturi e pesare col bilancino "ciò che è vivo e ciò che è morto". Esso è stato ed è ancora, innanzitutto e soprattutto, uno dei testi fondamentali della formazione teorica rivoluzionaria di centinaia di migliaia di militanti comunisti in tutto il mondo: il primo testo che getta le basi e traccia le grandi prospettive di una conoscenza scientifica della società e della sua storia, strettamente legata alla lotta del proletariato. In questo senso, la storia del "Manifesto" rispecchia fedelmente, con le sue luci e le sue ombre, la sua trasparenza e la sua opacità, la sua emergenza e la sua latenza, il rapporto fra la teoria
marx-engelsiana e il movimento di classe, ossia il grado di 'fusione', storicamente determinato, della teoria e della pratica. Non meraviglia dunque che il testo del "Manifesto" sia stato oggetto di correzioni, precisazioni e perfino vere e proprie rettifiche, connesse a fasi determinate di tale rapporto. Così, nella prefazione del 1883 Engels, che era allora impegnato nella stesura dell'"Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato", corregge la tesi iniziale del "Manifesto" ("La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi"), riferendosi alla preistoria della società (il comunismo primitivo). E' poi noto che quando il "Manifesto" fu steso Marx non aveva ancora elaborato la teoria del plusvalore. Ma la più importante di tutte le correzioni è anche la prima in ordine di tempo, ed è enunciata nella prefazione del 1872 come il risultato immediato della Comune di Parigi: un evento storico che apporta una lezione teorica tale da concludere quella delle rivoluzioni del 1848 e da aprire un nuovo periodo. In questa prefazione gli autori del "Manifesto" affermano che il programma del "Manifesto" "è oggi qua e là invecchiato", e introducono questa importante rettifica: "... la Comune ha fornito la prova che 'la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini...". In "Stato e rivoluzione" (1917), opera che è quasi interamente dedicata alla rettifica in parola e alla conseguente polemica con l'opportunismo, Lenin scriverà che "è estremamente caratteristico che gli opportunisti abbiano snaturato proprio questo emendamento sostanziale; e i nove decimi, se non i novantonove centesimo dei lettori del 'Manifesto del partito comunista' ne ignorano certamente il significato". Questo è un punto essenziale, destinato ad essere ignorato dagli opportunisti di ogni risma. Essenziale perché concerne un punto nodale della stessa teoria marx-engelsiana, su cui più volte si è giocata la sua sorte, e su cui senza dubbio si gioca ancora oggi.
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michele castaldo
Monday, 13 July 2020 17:55
Egregio professor Martelli,
una vecchia canzonetta napoletana faceva interloquire il pubblico con il cantante che raccontava la storiella con un "E allora?" e il cantante dopo la seconda strofetta si sentiva ripetere ancora "E allora?".
Ecco, leggendo il suo articolo vien da chiedersi: E allora?
Proviamo allora a ragionare, in una fase molto confusa e complicata, guardando in avanti dopo aver capito quello che abbiamo alle spalle perché - per dirla con Woese, a proposito della biologia "Il vero obiettivo della biologia non è cambiare il mondo, ma comprenderlo", quasi in polemica con Marx su Feuerback che pensava di cambiarlo. Ma cosa non si perdona a un rivoluzionario che butta il cuore oltre l'ostacolo?
Stabilito perciò che il Manifesto fu un laboratorio e non una bibbia, cerchiamo di chiarire cosa furono invece i Grundrisse prima e il Capitale poi, ovvero la parte analitica del capitalismo, altrimenti la discussione è monca.
Ebbene, per Marx il capitalismo è un movimento storicamente determinato, anarchico e impersonale degli uomini con i mezzi di produzione.
Ora, «storicamente determinato» vuol dire che si tratta di un movimento - come ogni movimento storico - FINITO, ovvero che sorge grazie a condizioni, esauritesi le quali si avvia alla sua fine. Non ci vuole una particolare laurea per capire questo concetto. Si tratta di volerlo, questo si, capire oppure no.
La domanda da porsi perciò in primis è: a che punto è oggi il movimento storico del modo di produzione capitalistico?
E in secundis come ci rapportiamo alla sua fase di crisi, ma non di una generica crisi superabile come tutte le altre, no, perché - ecco il punto centrale della diagnosi - quelle si inquadravano in una fase storica di crescita e di espansione del suo movimento e dell'accumulazione, mentre QUESTA CRISI attuale presenta i connotati di una crisi definitiva sia per i suoi caratteri strutturali, cioè l'impossibilità a riprodurre valore, sia per le conseguenze prodotte sull'ambiente e il restante della natura oltre che nei confronti dell'umanità stessa.
In questi termini va posta la questione.
Di fronte a uno scenario del genere ci sono solo DUE possibilità di relazionarsi: a) difesa comunque del modello dei rapporti cui l'uomo è arrivato e dunque cercare di migliorarlo, salvaguardandolo; b) prendere atto che si tratta di un movimento storico che proprio perché è impersonale vige di leggi proprie che l'uomo non riesce a modificare e aiutarlo alla sua inevitabile implosione. Terzium non datur.
Mi perdoni l'ingenua domanda:
Se così, lei, professor Martelli, come si collocherebbe?
Michele Castaldo
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