Lenin e “la questione economica fondamentale”
Dai Quaderni sull’imperialismo al Saggio popolare
di Eros Barone
«…le alleanze “interimperialistiche” o “ultraimperialiste” non sono altro che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste…».
Lenin, L’imperialismo.
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Genesi della categoria leniniana di imperialismo
La categoria concettuale di imperialismo ebbe largo corso, nella letteratura politica di diverso colore, a partire dall’inizio del Novecento, ma essa veniva adoperata prevalentemente per indicare i caratteri dell’azione politica. Bisogna giungere all’opera del socialdemocratico Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario, 1 perché venga individuata nella formazione del capitale finanziario, in quanto fusione del capitale bancario con il capitale industriale fondata sulla preminenza del primo, la causa strutturale del fenomeno politico dell’imperialismo. Sennonché, come osserverà Lenin nei suoi appunti sull’imperialismo (pubblicati sotto il titolo di Quaderni sull’imperialismo), 2 Hilferding ignora o quasi la spartizione del mercato mondiale che viene operata dai trust internazionali, ignora il rapporto tra il capitale finanziario e il formarsi di un ceto parassitario che vive di reddito azionario, ignora i nessi tra lo svilupparsi dell’imperialismo e il sorgere dell’opportunismo nel movimento operaio. 3 Insomma, non gli sono chiare tutte le conseguenze politiche dei processi strutturali che egli è nondimeno il primo ad indagare in modo organico.
Sicché, se tutta una letteratura, prevalentemente borghese, sottolineando essenzialmente l’aspetto politico dell’imperialismo, non ne vede il nesso con l’economia, lo stesso difetto si ripresenta, in una certa misura ma in modo rovesciato, anche nello Hilferding che, analizzando i fenomeni strutturali, non trae tutte le conseguenze politiche dalla sua indagine.
Il concetto di imperialismo appare in Lenin per la prima volta nel 1912 ed è direttamente collegato all’inasprirsi dei contrasti di classe, che si sta verificando nel mondo. 4 È in questo stesso momento che Lenin rivolge, per la prima volta, la sua attenzione agli altri continenti e attribuisce all’atteggiamento imperialistico delle grandi potenze occidentali la scarsa attenzione della pubblicistica di quei paesi per ciò che avviene in Asia e particolarmente in Cina. Egli ravvisa nella rivoluzione democratica e nelle posizioni politiche di Sun Yat-sen la conferma dell’esperienza compiuta in Russia con la rivoluzione democratica e contadina del 1905 e il preludio di ciò che in Russia dovrà avvenire. L’attenzione al fenomeno dell’imperialismo si congiunge così in Lenin ad una nuova sensibilità per le vicende dei continenti extra-europei, per il mondo coloniale e semicoloniale, che l’imperialismo trascina nel gorgo della politica mondiale, sicché le vicende di quei popoli si connettono, più strettamente di prima, alle lotte della classe operaia in Europa.
Pertanto, negli anni che vanno dal 1912 al 1916, Lenin concentra il suo studio sulla nuova fase dello sviluppo storico: l’imperialismo. E nel 1914-15 intreccia a questo studio un ripensamento della dialettica, una lettura di Hegel e particolarmente della sua Scienza della logica, proprio perché l’analisi dell’imperialismo, che deve spaziare su un largo orizzonte di fatti e di eventi, esige un impiego sempre più puntuale e vigoroso di quello strumento di indagine – la dialettica – che consente di collegare la molteplicità dei fatti e degli eventi in un contesto unitario e in un giudizio complessivo. In quegli anni, Lenin esamina 148 libri (di cui 106 tedeschi, 23 francesi, 17 inglesi, 2 di traduzioni in lingua russa) e 232 articoli che riguardano il tema dell’imperialismo.
Gli appunti, con cui egli accompagna quelle letture, riempiranno venti quaderni. Le note spaziano, oltre che sull’imperialismo, su una serie di temi. Riprendono la riflessione sul rapporto tra rivoluzione e obiettivi intermedi e respingono la tesi della sinistra socialista secondo cui la tattica riformistica sarebbe viziata da una eccessiva attenzione per le rivendicazioni immediate. Viene inoltre denunciata una caratteristica dell’opportunismo, il quale fa coincidere l’azione del sindacato con la difesa degli iscritti, provenienti in genere dalle categorie professionalmente più qualificate. Nei Quaderni viene infine sviluppata una critica penetrante della definizione che Kautsky dà dell’imperialismo come tendenza dei paesi industrialmente sviluppati ad annettere territori agricoli, 5 e viene particolarmente respinta una tendenza, che è palese nello studio di Hobson, a vedere l’imperialismo come degenerazione del capitalismo e non come suo necessario sviluppo. 6 È lo stesso errore in cui cade Kautsky, considerando l’imperialismo un “modo particolare”, fondato sulla violenza, in cui il capitalismo si esprime e non come una “tendenza naturale, necessaria”.
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Scienza e metodo
Per Lenin si tratta di giungere alla comprensione della sostanza reale del conflitto mondiale in corso. «Le parole ‘sostanza reale’ – precisa Lenin - mostrano che bisogna distinguere l’apparenza dalla realtà, l’esteriorità dall’essenza, la parola dalla cosa», 7 il che implica un’analisi dell’imperialismo come «sistema di rapporti economici del capitalismo contemporaneo, altamente sviluppato». 8 E, in primo luogo, occorre un’ulteriore precisazione, in questo senso, del concetto stesso di imperialismo che, pur evocando gli aspetti politici del dominio di uno Stato sugli altri, consente anche, come avviene in Kautsky, un’arbitraria separazione tra questi aspetti (“rapporto di padronanza e di violenza ad essa collegata”) e l’“essenza” della nuova fase di sviluppo della formazione capitalistica.
Il metodo applicato da Lenin è, come per gli scritti economici degli anni ’90 dell’Ottocento, quello del Capitale di Marx, arricchito però, anche nella scelta stessa dei termini, dalla lettura di Hegel (gli estratti della Scienza della logica riprodotti nei Quaderni filosofici sono di poco precedenti, o si intrecciano, al materiale preparatorio dell’Imperialismo). Dal punto di vista del materialismo, l’oggetto dell’indagine è la “cosa in sé”: non i soli fenomeni, ma la struttura intima di questi fenomeni, ossia le leggi di tendenza del capitalismo contemporaneo. La critica nei confronti delle elaborazioni che si fermano ai fenomeni, oppure, pur approfondendo sul piano teorico uno dei lati della realtà, non sono in grado di comprendere i nessi tra questo e gli altri lati, pone in atto la critica marxiana dell’economia politica. E nel medesimo quadro si colloca la “critica” della grande quantità di dati empirici che si presentano nel corso della ricerca. Queste caratteristiche del metodo di Lenin, che possono risultare meno evidenti che nelle opere giovanili a causa della destinazione “popolare” del saggio sull’Imperialismo, vengono ulteriormente chiarite dalla documentazione sullo svolgimento della ricerca, che si ricava dai “quaderni”.
Partiamo allora dalla definizione “più precisa e completa possibile” che dell’imperialismo fornisce Lenin: «L’imperialismo è uno stadio particolare del capitalismo. Questa particolarità ha tre aspetti: l’imperialismo è 1) il capitalismo monopolistico; 2) il capitalismo parassitario o in putrefazione; 3) il capitalismo agonizzante. La sostituzione del monopolio alla libera concorrenza è il tratto economico fondamentale, l’essenza dell’imperialismo». 9
Questa definizione è al tempo stesso il punto di arrivo della ricerca tendente ad individuare le categorie fondamentali, più “astratte”, della nuova fase del capitalismo e il punto di partenza per la ricostruzione concettuale del “concreto”, inteso in tutta la ricchezza delle sue determinazioni.
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Nel laboratorio dei Quaderni
Fra i temi che vengono elencati nel primo dei piani del lavoro formulati nei Quaderni sull’imperialismo (d’ora in avanti Qi) Lenin pone al primo posto il “capitale finanziario” 10 e a questo fa seguire quello delle “banche”, dei “cartelli e trusts” e, finalmente, quello del “monopolio”. Nel secondo e più completo piano, dove viene ‘ricomposto’ tutto il libro, dopo aver sottolineato che si tratta di una «fase particolare del capitalismo della nostra epoca» e che il tema è lo «studio, analisi, bilancio di questa fase», si susseguono i temi della «concentrazione della produzione», dei «cartelli e trusts», del «monopolio» e, quindi, delle «banche» e del «capitale finanziario». Nella parte in cui vengono tratte le «Conclusioni. Fondamentali tratti economici (produttivi) dell’imperialismo…», viene dato un forte risalto alla «esportazione dei capitali», che viene considerata «essenziale»; quindi si ribadisce l’erroneità della definizione kautskiana dell’imperialismo (non fase dell’economia, ma “particolare” politica) e la sua proposta di «distinguere il capitale finanziario e l’imperialismo» 11 e insieme l’«incompletezza della definizione di Hilferding». 12
La definizione di Hilferding che per Lenin è incompleta è la seguente: «capitale finanziario = ‘capitale a disposizione delle banche e impiegato dagli industriali’». 13 E nell’Imperialismo la critica viene precisata: la «definizione è incompleta in quanto vi manca l’accenno a uno dei fatti più importanti, cioè alla crescente concentrazione della produzione e del capitale in misura tale da condurre al monopolio». 14
Sennonché Hilferding non usa il concetto di “capitale finanziario” nella sua accezione più banale, anche oggi assai diffusa nell’àmbito della teoria economica borghese, di “capitale monetario”, a disposizione delle banche, dei “finanzieri”. 15 Egli pone in rilievo il legame del capitale bancario con quello industriale; non manca, in altre parti della sua opera, di rilevare la funzione dei monopoli capitalistici e si riferisce costantemente alle osservazioni di Marx ed Engels sulla funzione del credito nella società capitalistica, la concentrazione e centralizzazione del capitale ecc. Estremamente preziosa risulta inoltre la documentazione, concernente soprattutto la Germania, per gli anni che vanno dal 1890 al 1910. Eppure vi è una differenza di fondo rispetto a Lenin dal punto di vista del metodo. L’errore di Hilferding, a giudizio di Lenin, non risiede nella trattazione del capitale finanziario in quanto tale, ma nell’ottica con cui l’economista austriaco individua tale oggetto e nell’analisi dei risultati che essa genera.
Per Lenin (come per Marx), sia quando egli affronta la categoria del “mercato”, negli scritti degli anni Novanta, che ora, nel considerare quella di “capitale finanziario”, l’oggetto fondamentale dell’indagine è il modo di produzione capitalistico e lo sviluppo delle categorie, a mano a mano che l’indagine procede dall’astratto al concreto, non implica mai l’ipostatizzazione delle categorie stesse, una loro artificiosa separazione dai presupposti. Mentre per Hilferding il riconoscimento del rilievo assunto dal capitale finanziario sbocca in una sorta di “ipostatizzazione” di questa categoria e conduce ad individuare un sopravvento del momento della circolazione del capitale su quello della produzione, per Lenin invece il capitale finanziario non è che un prodotto del processo di sviluppo storico del capitalismo, «non è una casuale escrescenza del capitalismo, ma una continuazione ineliminabile e un prodotto del capitalismo». 16 L’“essenza” del “fenomeno” capitale finanziario va quindi cercata nel processo di “concentrazione della produzione e del capitale”, che trasforma il capitale concorrenziale in capitale monopolistico, e le forze che mettono in moto questo processo agiscono nell’intimo del modo di produzione capitalistico come reazione alla tendenza della caduta del saggio di profitto.
Questa impostazione, inoltre, spiega perché il libro di Hilferding mostri «una certa tendenza a conciliare il marxismo con l’opportunismo», 17 ignorando in parte che la spartizione del mondo è causata dall’affermazione del capitalismo e trascurando del tutto che questo stesso fatto provoca inevitabilmente il parassitismo e l’opportunismo. Il rimedio è sviluppare a fondo l’analisi di queste necessarie conseguenze: ecco perché l’Imperialismo di Hobson viene utilizzato da Lenin a questo proposito, ossia come antidoto alla ipostatizzazione del capitale finanziario in cui è caduto Hilferding, dal momento che l’autore inglese «fa un’ottima e circostanziata esposizione» delle caratteristiche dell’imperialismo. 18
Ottiene così una chiara conferma la tesi sostenuta da un qualificato studioso dell’analisi economica leniniana, secondo cui la via intrapresa da Lenin per sviluppare il proprio modello ortodosso trova nell’Imperialismo di Hobson il suo principale punto di riferimento. 19 Infatti, è collegando la questione dell’opportunismo al parassitismo economico e quindi all’esportazione dei capitali che Lenin riesce a generalizzare le tesi sostenute da Marx ed Engels per l’Inghilterra (e a capovolgerne la linea di tendenza). 20 Nello stesso tempo, è sottolineando l’aspetto di decadenza del parassitismo e riprendendo la tesi (di Hobson, ma anche di Bucharin) 21 della lotta tra le grandi potenze come origine della guerra che Lenin giunge infine a sostenere la sua teoria del capitalismo morente e della trasformazione della guerra mondiale in rivoluzione socialista.
Uno sguardo ai Quaderni filosofici (d’ora in avanti Qf) può chiarire il metodo di Lenin e il suo richiamarsi a quello di Marx. Annotando la Scienza della logica di Hegel sul rapporto tra la legge e il fenomeno, Lenin osserva, da una parte, la correlazione «fenomeno = interezza, totalità» «legge = parte» 22 aggiungendo che «il fenomeno è più ricco della legge», dall’altra, successivamente, che «il pensiero, salendo dal concreto all’astratto, non si allontana – quando sia corretto (NB) […] – dalla verità, ma si avvicina ad essa. L’astrazione della materia, della legge di natura, l’astrazione del valore, ecc., in breve, tutte le astrazioni scientifiche (corrette, serie, non assurde) rispecchiano la natura in modo più profondo, fedele e compiuto». 23
Se la legge è più “profonda” e il fenomeno è “più ricco”, la realtà però è unità di questi due momenti: «e concreta e astratta, e fenomeno e essenza, e momento e rapporto». 24 Commentando Hegel sul «problema dell’essenza versus il fenomeno» Lenin ha presente Il Capitale e il problema del rapporto tra «prezzo e valore» e tra «salario e prezzo della forza lavoro». 25 Probabilmente egli ha qui in mente il capitolo XVII del Capitale in cui Marx analizza la «Trasformazione in salario del valore e rispettivamente del prezzo della forza-lavoro». Ed è nella metamorfosi in forma fenomenica di salario (valore e prezzo del lavoro stesso) del rapporto sostanziale che in essa si manifesta (valore e prezzo della forza-lavoro) che Marx individua il fondamento di tutte le mistificazioni del modo di produzione capitalistico.
Sennonché i due termini (forme fenomeniche e rapporti sostanziali) non stanno affatto in una relazione del tipo di quella che intercorre tra il vero e il falso. Anche le apparenze, le forme fenomeniche hanno radici reali: «[…] queste espressioni immaginarie derivano dagli stessi rapporti di produzione. Sono categorie di forme fenomeniche di rapporti sostanziali». 26 Per queste forme «vale quel che vale per tutte le forme fenomeniche e per il loro sfondo nascosto. Le forme fenomeniche si riproducono con immediata spontaneità, come forme correnti del pensiero, il rapporto sostanziale deve essere scoperto dalla scienza. L’economia politica classica tocca in via approssimativa il vero stato delle cose, senza per altro formularlo in modo consapevole. Essa non può farlo finché è chiusa nella sua pelle borghese». 27 Dopodiché, una volta svelato l’arcano di questa forma fenomenica, Marx passa a considerare «il movimento reale del salario». 28
Del resto, è sostanzialmente sull’incomprensione del carattere dialettico del rapporto tra essenza e fenomeno, astratto e concreto, logico e storico che si fonda – sia detto ‘per incidens’ – tutta la polemica che da Böhm-Bawerk ad oggi si è avviluppata attorno alla presunta “contraddizione” tra il I e il III libro del Capitale a proposito della trasformazione dei valori in prezzi di produzione. 29
Così, nell’analisi di Lenin il “capitale finanziario” è certamente una categoria più “ricca” e più “concreta”, mentre quella di “monopolio” è più “semplice” ed “astratta”; tuttavia, quest’ultima rispecchia in modo più “profondo” i processi oggettivi. In altri termini, non si può comprendere il predominio del capitale bancario su quello industriale senza averne individuato le caratteristiche strutturali: il “fenomeno” capitale finanziario senza la “sostanza” capitale monopolistico. Per questo motivo l’indagine sull’imperialismo parte dal capitale monopolistico (concetto cui Lenin è arrivato mediante la critica di quello di capitale finanziario), ma si tratta appunto dell’inizio della “scienza”, della elaborazione concettuale del concreto (in cui si articolano, fondati però sui “rapporti sostanziali”, i differenti livelli “fenomenici” del “capitale finanziario”, dell’“esportazione dei capitali” ecc.). 30
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Differenze di metodo e di risultati: la scoperta della lotta dei capitali
A questo punto il metodo di Lenin si differenzia non solo da quello di Hilferding, che si ferma al livello di una forma fenomenica, ma anche da quello di Bucharin che si ferma invece all’astrazione e da questa trae una serie di deduzioni formalmente coerenti, la cui funzione nondimeno sembra essere più quella di colmare armonicamente i vuoti dello schema teorico che non quella di rispecchiare le contraddizioni oggettive. 31
E però, mentre per Bucharin dall’assunto basilare secondo cui la caratteristica fondamentale dell’imperialismo è la trasformazione della concorrenza in monopolio viene logicamente dedotta la necessaria scomparsa del residuo di lotta concorrenziale tra i monopoli di uno stesso paese (e una trasposizione della concorrenza dal piano del mercato interno delle singole economie nazionali al piano del mercato mondiale), per Lenin il capitalismo monopolistico non elimina alcun aspetto delle contraddizioni fondamentali del capitalismo, anzi le accentua: «La libera concorrenza è l’elemento essenziale del capitalismo e della produzione mercantile in generale; il monopolio è il diretto contrapposto della libera concorrenza. […] Nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma coesistono originando così una serie di aspre e improvvise contraddizioni, di attriti e di conflitti». 32 E siccome ogni capitale, oltre ad opporsi alla forza-lavoro, si contrappone anche ad altri capitali in quanto è mosso da una incoercibile spinta interna verso la propria valorizzazione, assume una crescente importanza, variamente intrecciata con quella tra capitale e forza-lavoro, la contraddizione costituita dalla lotta tra i capitali, fondamento della lotta tra le potenze.
L’analisi del capitalismo monopolistico non può quindi fermarsi all’“astrazione”, ma deve proseguire in modo che divenga possibile cogliere tutte le determinazioni di tutti i lati del reale e le loro reciproche connessioni e contraddizioni. Occorre “rivestire di carne e di sangue” – per usare il linguaggio del “giovane” Lenin – lo “scheletro” del concetto di monopolio. Il monopolio, proprio in quanto momento strutturale, asse portante di una determinata formazione economico-sociale capitalistica, non può essere ridotto alla concentrazione della produzione né, tanto meno, alle variabili dimensioni della fabbrica capitalistica. Tali aspetti non restituiscono, infatti, né la “simbiosi” col capitale bancario, né il complesso intreccio di rapporti sociali e politici che ruotano intorno al monopolio, né le proiezioni di queste caratteristiche sul piano internazionale.
Orbene, qui interviene lo sviluppo ineguale con le sue fasi alterne, modificando la piramide gerarchica dei capitali e creando, per l’appunto, improvvise contraddizioni. Questo processo ha due aspetti: quello della lotta orizzontale (vale a dire tra capitali in concorrenza sul mercato) e quello della lotta verticale tra capitali (che si trovano a livelli diversi della piramide imperialista). 33
I due aspetti – lotta orizzontale e lotta verticale – possono essere trattati separatamente per comodità espositiva, ma occorre considerare che quella cui dànno vita è una tipica unità degli opposti nel senso che capitali in concorrenza sul mercato si oppongono orizzontalmente, mentre, nello stesso tempo, l’esistenza stessa della loro realtà piramidale li oppone verticalmente l’uno contro l’altro. Parlando dell’uno o dell’altro aspetto intendiamo in realtà discutere della prevalenza dell’uno rispetto all’altro e viceversa. Ad esempio, nel periodo storico compreso tra gli ultimi decenni dell’800 e la prima metà del ’900 la rivalità tra l’Inghilterra e la Germania pose in risalto l'aspetto orizzontale della contraddizione, ma nello stesso tempo la Germania, come sfidante, partiva dal basso, dunque si opponeva anche verticalmente al predominio mondiale inglese. Le stesse argomentazioni che furono usate a livello di massa, come il gingoismo da una parte e lo sciovinismo vittimistico dall’altra, risentivano di questa diversa collocazione di partenza. Considerazioni analoghe valgono per inquadrare le relazioni che intercorrono, nella crisi di questi primi decenni del XXI secolo, tra i differenti poli imperialistici egemonizzati rispettivamente dagli Stati Uniti, dalla Germania, dalla Cina e dalla Russia (per un esame più approfondito di tali relazioni si consiglia la lettura degli articoli citati nella nota 33).
La concezione innovatrice di Lenin contiene dunque in embrione una visione del capitale più complessa rispetto a quella di Marx, tale da costringere ad uno sviluppo ulteriore della stessa categoria del capitale. D’altra parte, questo sviluppo appare inevitabile, se con Marx definiamo la lotta tra i capitali, la loro concorrenza, come la «relazione del capitale con sé medesimo in quanto altro capitale, ossia la condizione reale del capitale in quanto capitale», dunque una caratteristica decisiva che si afferma in conseguenza del dominio del capitale e ne rappresenta l’indispensabile complemento. 34 Il punto è che, con Lenin, questa sfera della lotta tra i capitali viene ad avere un più vasto sviluppo analitico, soprattutto riguardo alla dimensione verticale.
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Il fenomeno del socialimperialismo e il “pregiudizio” democratico
Lenin nei Qi analizza contemporaneamente il processo di formazione e il decorso del capitalismo giunto al suo ultimo stadio storico e il processo di formazione e il decorso del conseguente fenomeno sociale e politico definito “socialimperialismo”. Anche questa importante categoria interpretativa è una scoperta di Lenin, un risultato dell’applicazione scientifica del materialismo alla concezione marxista della politica. Se i cinque caratteri fondamentali dell’imperialismo definiscono la struttura economica di questa fase dello sviluppo capitalistico, il socialimperialismo è il carattere fondamentale della corrispondente sovrastruttura politica. I Quaderni di Lenin permettono di conoscerne i primordi, a cominciare da Karl Kautsky, suo principale ideologo. 35 In effetti, il socialdemocratico tedesco sviluppa un’interpretazione dell’imperialismo che, almeno su alcuni punti essenziali, non si discosta da quella del liberale inglese John Hobson. Uno di questi concerne il processo stesso dello sviluppo capitalistico su scala mondiale e le forme politiche conseguenti.
È pur vero che Kautsky ha scritto molto sul capitale finanziario e sulla politica imperialistica ed è stato un pioniere nel campo dello studio dell’imperialismo, come attesta il suo saggio Vecchia e nuova politica coloniale pubblicato dalla «Neue Zeit» del 1897-1898. Ma ciò che è importante considerare è il pregiudizio “democratico” che egli si trascina dietro ai suoi studi. Egli ritiene che il senso profondo di centocinquant’anni di lotte del proletariato internazionale sia da ricercare nella difesa e nell’allargamento della democrazia e che solo su questo terreno si può giungere al socialismo, il quale non è altro che il massimo esercizio della democrazia, ovvero la democrazia politica, e la sua massima estensione e applicazione, ovvero la democrazia sociale. Per Kautsky, come il proletariato eredita per il socialismo le forze produttive dal capitalismo, così ne eredita pure la forma politica. Che essa sia stata il massimo strumento della borghesia ha per lui un’importanza relativa, perché egli sostiene che la borghesia tende ormai ad abbandonare la democrazia nella misura in cui questa è portata avanti dal proletariato. Non è difficile constatare che a Kautsky sfugge la comprensione del rapporto di determinazione delle forme politiche da parte dei processi economici.
Nell’analisi della sovrastruttura egli, arrivando ad ipostatizzare la “democrazia pura”, commette un errore analogo a quello che, riguardo alla struttura economica e al capitale finanziario, è stato confutato in precedenza: l’errore di scambiare la forma fenomenica con i rapporti sostanziali. Il parlamentarismo diviene così, per Kautsky, la tecnica più perfezionata della democrazia ed è per questo che egli attacca la “democrazia primitiva” di tipo consiliare e giunge ad affermare la necessità della rappresentanza parlamentare, con suffragio universale, anche nella dittatura del proletariato. Sennonché, se fosse vero che la forma democratica è ormai la forma politica congeniale allo sviluppo della lotta proletaria, bisognerebbe spiegare perché da oltre due secoli la classe che domina i rapporti di produzione conviva con una sovrastruttura che non solo non corrisponde al suo contenuto economico, ma che prepara addirittura la fine del suo dominio. Proseguendo in questa direzione, Kautsky ritiene di contrapporre al capitalismo finanziario che esprime una politica imperialistica un capitalismo industriale che di tale politica non ha necessità e con cui quindi il proletariato può compiere un cammino comune, almeno per un certo tratto, sul terreno della democrazia. Sia l’imperialismo che la democrazia divengono pertanto, nella concezione “pelagiana” del socialdemocratico tedesco, due possibili scelte, entrambe sottratte alla logica totalizzante dei rapporti di produzione. 36
Osserva Lenin: «L’imperialismo produce sempre il nuovo capitalismo (dall’economia naturale delle colonie e dei paesi arretrati), produce di nuovo i passaggi dal piccolo capitalismo al grande, dallo scambio di mezzi debolmente sviluppato a quello sviluppato, ecc. I kautskiani (K. Kautsky, Spectator e soci) citano questi fenomeni di capitalismo “sano”, “pacifico”, fondato su “relazioni pacifiche” e li contrappongono al saccheggio finanziario, ai monopoli bancari, agli intrighi affaristici delle banche con il potere statale, all’oppressione coloniale, ecc., li contrappongono come il normale all’anormale, il desiderabile all’indesiderabile, il progressivo al reazionario, il sostanziale al casuale ecc.».
Dunque, per Lenin, Kautsky è un esponente della piccola borghesia e ne esprime la visione del mondo: una visione che è «reazionaria nei suoi fondamenti economici» perché cerca di spingere nel senso inverso la ruota della storia. «Questo è un nuovo proudhonismo. Il vecchio proudhonismo su nuova base e in forma nuova. Riformismo piccolo-borghese: favorevole a un capitalismo pulito, levigato, misurato e accurato». 37
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La critica di Lenin a Hilferding
Nei Qi Lenin sviluppa la critica delle tesi “centriste” 38 di Hilferding. Infatti, quando Lenin scrive l’Imperialismo, le posizioni teoriche e politiche di Hilferding erano ormai molto vicine a quelle di Kautsky. Nei Qi Lenin chiama Kautsky e Hilferding «persuasori della borghesia imperialistica, esorcisti… suoi riformatori». Subito dopo troviamo alcuni passi scelti di un articolo di Hilferding 39 riuniti sotto il titolo Hilferding (concezioni kautskiane). 40 «Hilferding – scrive Lenin – espone il solito argomento di Kautsky, secondo cui i legami dell’economia mondiale costringono a non dimenticare che nelle colonie inglesi l’importazione e l’esportazione (1899-1913) è cresciuta soprattutto non con l’Inghilterra: «La Germania [aveva scritto Hilferding] ha speso di meno per l’acquisto delle colonie e per la loro amministrazione ma, non appena il suo sviluppo capitalistico glielo ha permesso, essa ha tratto dalla loro capacità produttiva gli stessi vantaggi dell’Inghilterra…». Non è affatto vero [afferma Lenin]… La Germania ha superato l’Inghilterra nonostante le colonie di quest’ultima. Senza le colonie l’Inghilterra forse sarebbe rimasta ancora più indietro». 41
La logica di questa osservazione viene approfondita in un’altra nota che critica la concezione kautskiana ripresa da Hilferding: 42 come per le operazioni finanziarie – afferma in sostanza Lenin – anche per quelle commerciali le colonie e i paesi dipendenti rappresentano un mercato privilegiato che consente di ottenere extraprofitti. D’altra parte, questi extraprofitti sono assai utili per il capitale monopolistico anche per poter agire sul mercato libero. Mercato protetto e mercato libero, concentrazioni monopolistiche e forme capitalistiche tradizionali convivono nel sistema capitalista. Ma c’è di più: dopo aver richiamato i tratti distintivi della politica imperialistica (dazi protettivi, politica coloniale, politica di riarmo e divisione del mondo in sfere d’influenza), Hilferding utilizza tale analisi come punto di partenza per giungere rapidamente ad una tipica conclusione “centrista”: «E i popoli – egli prosegue – si trovano ora di fronte ad una alternativa: continueranno essi [un “essi” che Lenin riporta a margine sotto un NB e che fa seguire nel testo da tre punti esclamativi] questa politica dopo la guerra o vorranno porvi fine?...». «Bisogna prima prendere il potere nelle proprie mani – taglia corto Lenin – e non parlare a vanvera del “potere”.» 43
Come si può constatare, anche Hilferding è approdato a tesi riformiste. L’imperialismo è qui, come per Kautsky, la politica preferita del capitale monopolistico. Sennonché, prima Kautsky, poi Hilferding, sostengono che non è l’unica possibile: di fronte alla “catastrofe” cui essa ha condotto, pensano che sarà possibile realizzare un’altra politica basata sul libero scambio e la democrazia; pensano che potrà verificarsi nel dopoguerra un accordo pacifico tra le potenze: è la politica dell’ultraimperialismo. Lenin assume in proposito lo stesso atteggiamento da lui assunto riguardo al riformismo in generale. Egli ritiene che questa concezione sia idealistica e che, prima Kautsky, poi Hilferding, abbandonando la posizione corretta, abbiano finito col sostenere tesi reazionarie che richiederebbero, per venir applicate, il ritorno alla concorrenza.
L’ultraimperialismo è una teoria “retrograda”, scrive infatti Lenin nel capitolo IX dell’Imperialismo. Egli la pone a confronto con l’affermazione di Hobson secondo cui una «divisione della cristianità in pochi e grandi imperi federali, ognuno dei quali ha una serie di colonie non civili e di paesi dipendenti, sembra a molti lo sviluppo più conforme alle leggi delle tendenze attuali, anzi, lo sviluppo che può dare massima speranza di pace permanente sulla solida base dell’interimperialismo». 44 A parte… la sostituzione di una particella latina con un’altra – commenta Lenin – Kautsky pretende «di far passare per marxismo ciò che Hobson descrive in sostanza come ipocrisia dei pretucoli inglesi»; il «senso obiettivo» della sua teoria è di «consolare nel modo più reazionario le masse, con la speranza della possibilità di una pace permanente nel regime del capitalismo, sviando l’attenzione dagli antagonismi acuti e dagli acuti problemi di attualità e dirigendo l’attenzione sulle false prospettive di un qualsiasi sedicente nuovo e futuro “ultraimperialismo”». 45
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Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico: “o impossibili o reazionari”
La teoria kautskiana dell’ultraimperialismo rivela il suo “cuore di tenebra”, rappresentato dal socialimperialismo, non appena si esamini la correlativa rivendicazione degli Stati Uniti d’Europa. Nell’Imperialismo la rivendicazione viene discussa brevemente quando Lenin nel capitolo VIII riporta la tesi di Hobson riguardo alla prospettiva di un grande sviluppo del parassitismo in Occidente come conseguenza di un’eventuale spartizione della Cina che scaturirebbe da un accordo tra le grandi potenze. «Ecco quale possibilità sarebbe offerta da una più vasta lega delle potenze occidentali [scrive Hobson], da una Federazione europea delle grandi potenze. Essa non solo spingerebbe innanzi l’opera della civiltà mondiale, ma potrebbe presentare il gravissimo pericolo di un parassitismo occidentale… Hobson ha completamente ragione – commenta Lenin -… Qui è posto nel suo vero valore il significato degli “Stati Uniti d’Europa” nella odierna congiuntura imperialista. È da aggiungere soltanto che anche in seno al movimento operaio gli opportunisti, oggi provvisoriamente vittoriosi nella maggior parte dei paesi, “lavorano” sistematicamente, indefessamente nella medesima direzione». 46 La parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa indica dunque una prospettiva di accordo tra le potenze per la spartizione di colonie e sfere d’influenza, per lo sfruttamento in comune del mondo. 47
Qual era dunque la posizione di Kautsky sugli Stati Uniti d’Europa? Nei Qi troviamo alcune interessanti annotazioni in proposito, relative ad uno scritto di Kautsky intitolato Guerra e pace (1911). Lenin richiama innanzitutto l’attenzione sul fatto che, secondo il Kautsky del 1911, «la borghesia si volge sempre più alla politica d’oltremare, alla “politica mondiale”, cercando di estendere il raggio del suo sfruttamento alle popolazioni arretrate e indifese». Tuttavia, quando Lenin redige i suoi quaderni, la guerra è ormai scoppiata ed è naturale che egli trascriva quei passi di Kautsky che parlano di ciò che sarebbe accaduto dopo lo scoppio del conflitto.
«Alla guerra – Lenin trova scritto al termine di Guerra e pace – segue inevitabilmente la rivoluzione, non come prodotto di un piano socialdemocratico, ma in forza della ferrea logica delle cose. Gli stessi uomini di Stato tengono conto di un tale esito… La rivoluzione… sarà un fenomeno internazionale… e se anche all’inizio… si limitasse ad un singolo Stato, nella attuale situazione non potrebbe rimanere a lungo entro i suoi confini. Essa deve estendersi ad altri Stati, ed è inevitabile che allora questi Stati si stringano in un legame federativo. L’internazionale proletaria dovrà allora inverarsi nella vita dello Stato. Gli Stati Uniti d’Europa e la loro espansione finale negli Stati Uniti del mondo civile – è questa e non la singola nazione, la base statuale della futura società socialista. Le odierne nazioni saranno domani, per lo Stato futuro, ciò che oggi sono i cantoni per la Svizzera». 48
Sennonché dove Kautsky ha scritto che la rivoluzione «deve estendersi ad altri Stati» Lenin aggiunge: «e da qui Karl Kautsky fa derivare gli Stati Uniti d’Europa e la loro trasformazione, in definitiva, in Stati Uniti di tutto il mondo civile». «Karl Kautsky definisce gli Stati Uniti d’Europa come un’unione “con una comune politica commerciale (più un parlamento ecc., un esercito)». 49 La nota di Lenin mette così in rilievo un aspetto specifico di Guerra e pace. In effetti, questo articolo appartiene al periodo centrista di Kautsky e sostiene la necessità di allearsi con il movimento borghese e piccolo-borghese che si oppone alla guerra e alla corsa agli armamenti; ma l’interesse di Lenin è rivolto a valutare il significato della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa da un punto di vista rivoluzionario. Ciò va posto in relazione con la discussione esistente in proposito nelle file socialdemocratiche.
Ma qual era dunque la “sostanza della questione”? In realtà il problema riguardava Lenin molto da vicino: la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa aveva infatti sostenitori all’interno della socialdemocrazia russa (tra cui Bucharin e Trotsky); essa era contenuta anche nel manifesto contro la guerra pubblicato dal comitato centrale del partito bolscevico. Alla conferenza di Berna (12-27 marzo 1915) si accese una polemica tra Lenin e Bucharin, 50 che coinvolgeva anche questo problema. E a tale problema è dedicato il breve ma importante articolo di Lenin Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa. 51 Il testo si riferisce innanzitutto al manifesto del comitato centrale che avanzava «l’immediata parla d’ordine politica» degli Stati Uniti repubblicani d’Europa in conseguenza dell’«abbattimento rivoluzionario della monarchia tedesca, austriaca e russa». 52 «Entro i limiti del giudizio politico», osserva Lenin, la parola d’ordine è corretta: «le trasformazioni politiche a tendenza effettivamente democratica, e ancor più le rivoluzioni politiche, non possono in nessun caso… né offuscare né indebolire la parola d’ordine della rivoluzione socialista. Al contrario, esse avvicinano sempre più questa rivoluzione». 53 E il giudizio economico? «Dal punto di vista delle condizioni economiche dell’imperialismo, ossia dell’esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali “progredite” e “civili”, gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari». 54
Dunque, sostenere la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa significa in pratica sostenere l’impossibile, oppure volere un accordo per la spoliazione di un miliardo di persone. «In regime capitalistico, gli Stati Uniti d’Europa equivalgono ad un accordo per la spartizione delle colonie». 55 Con questa drastica affermazione Lenin coglie il centro del problema: «è precisamente questa utopia, l’utopia delle unione pacifica delle nazioni con eguali diritti sotto l’imperialismo, che inganna il popolo ed è difesa dai kautskiani». «Il social-liberale Hobson… fin dal 1902 ha affrontato nel modo del tutto giusto anche la questione degli “Stati Uniti d’Europa” (ne prenda nota il kautskiano Trotsky!) e di tutto quello che i kautskiani ipocriti dei diversi paesi cercano di velare, cioè: che gli opportunisti (i socialsciovinisti) collaborano con la borghesia imperialistica proprio nello sforzo che tende a creare un’Europa imperialistica sulle spalle dell’Asia e dell’Africa». 56
«Ma – continua Lenin proponendo qui, per la prima volta, la sua tesi sullo sviluppo ineguale e sulla spartizione del mondo – in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza… Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’anarchia della produzione. Predicare una “giusta” divisione del reddito su una tale base è proudhonismo, ignoranza piccolo-borghese, filisteismo. Non si può dividere se non “secondo la forza”. E la forza cambia nel corso dello sviluppo economico. Dopo il 1871 la Germania si è rafforzata tre o quattro volte più rapidamente dell’Inghilterra e della Francia, e il Giappone dieci volte più rapidamente della Russia. Per mettere a prova la forza reale di uno Stato capitalistico non c’è altro mezzo che la guerra. La guerra non è in contraddizione con le basi della proprietà privata ma è il risultato diretto e inevitabile dello sviluppo di queste basi. In regime capitalistico non sono possibili altri mezzi per ristabilire di tanto in tanto l’equilibrio spezzato, all’infuori della crisi nell’industria, e della guerra nella politica.» 57 Questo è dunque, per Lenin, l’unico vero significato che possono avere gli Stati Uniti d’Europa «sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico», 58 ed è per questo che egli raccomanda l’abbandono di questa parola d’ordine. Il fatto che poi i fautori socialsciovinisti degli Stati Uniti d’Europa si preoccupino di sottolineare che questa «“idea… non deve necessariamente essere diretta contro gli Stati Uniti” (dunque - commenta Lenin – idea di una pacifica concorrenza!)», 59 conferma l’aspetto idealistico, proudhoniano ravvisato da Lenin nel pensiero di Kautsky.
In realtà, sembra voler dire Lenin, se si sostiene che gli Stati Uniti d’Europa sono necessari per impedire che i paesi europei siano travolti dalla concorrenza internazionale, si afferma inevitabilmente la necessità di rafforzare la posizione europea rispetto alle potenze concorrenti (Stati Uniti e Giappone) nella lotta per la spartizione dei mercati, per l’approvvigionamento delle materie prime, per l’esportazione di capitali ecc., anche se ciò viene sostenuto sulla base del libero scambio. Sennonché, quando Lenin sottolineava il fatto che per Kautsky gli Stati Uniti d’Europa nel socialismo sarebbero stati una unione “con una comune politica commerciale” intendeva mettere in evidenza che comunque si sarebbe trattato di un accordo basato inevitabilmente sugli interessi delle grandi potenze europee, a scapito dei popoli coloniali, delle piccole nazioni e delle altre potenze. Questo spiega l’opposizione di Lenin anche agli Stati Uniti socialisti d’Europa: posizione, questa, la cui chiave va ricercata in un altro importante argomento degli scritti di Lenin di questo periodo: l’autodecisione delle nazioni.
In opposizione all’utopia kautskiana che sostiene «l’unione pacifica delle nazioni con uguali diritti sotto l’imperialismo», «il programma della socialdemocrazia deve mettere in evidenza la differenziazione tra le nazioni dominanti e le nazioni oppresse, differenziazione fondamentale… nell’epoca imperialista». Ma la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa non “mette in evidenza” questa “differenziazione fondamentale”, mentre la trasformazione sociale richiede il ribaltamento della struttura gerarchica della piramide imperialista e non la sua riaffermazione: «un popolo che opprime altri popoli non può essere libero». 60 Questo, naturalmente, non vuol dire opporsi ai processi di avvicinamento e di fusione tra paesi diversi; ma ciò deve nascere dalla disintegrazione del sistema imperialista e dall’affermazione di un sistema di eguaglianza completa tra tutti i paesi. In questo senso, Lenin ritiene che «gli Stati Uniti del mondo (e non d’Europa) rappresentano la forma stabile di unione e di libertà delle nazioni, che… è legata al socialismo, fino a che la completa vittoria del comunismo non porterà alla sparizione di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici». 61 D’altra parte, Lenin non manca di precisare con il consueto rigore che «la parola d’ordine degli Stati Uniti del mondo, come parola d’ordine indipendente, non sarebbe forse giusta, innanzitutto perché coincide con il socialismo, in secondo luogo perché potrebbe generare l’opinione errata della impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese, una concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri». 62
E a questo punto Lenin trae in modo limpido e stringente la conclusione teorico-politica che si ricava dalle argomentazioni che precedono: «L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si porrebbe contro il resto del mondo capitalistico, attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati». 63
Queste lotte, e quelle che stanno covando, vanno sostenute oggi: potrebbero essere, forse, indipendentemente dall'esito, la sveglia per il proletariato italiano, il risveglio da un brutto sogno.
Quando cadranno le illusioni che permettono alla stragrande massa di operai di accettare la continua erosione del salario, l'intensificazione dei ritmi e dei pericoli sul lavoro, lo stillicidio di omicidi di lavoratori, la paura del covid ? Non si sa quando ma, come detto, le lotte operaie in corso vanno sostenute comunque con risolutezza.
Senza teoria rivoluzionaria niente rivoluzione, senza partito niente teoria (e pratica) rivoluzionaria.
E' vero. Il partito lo si farà ma rivedendo in un dibattito politico ampio, alla luce delle lotte operaie attuali e prossime, duecento anni di lotta politica e teorica del proletariato mondiale. Non ci sono scorciatoie organizzative, soprattutto se si sollecitano organizzazioni dedite alla cura del proprio orticello o peggio, promuovendo un gruppetto senza spiegarne il perché (a proposito del Fronte Comunista, nel sito www.frontecomunista.it la voce degli operai in lotta non si sente, neanche sussurrata) per non parlare dell'idea di affidare la direzione rivoluzionaria a specialisti di singoli settori: piccoli regni per piccolo-borghesi?
Lenin in ogni suo intervento mirava a forgiare il gruppo dirigente del proletariato sullo scontro politico, l'aspetto organizzativo era solo conseguente alle scelte politiche e teoriche, oltre che ovviamente, adattato alla situazione generale (per lungo tempo organizzazione clandestina o semi-clandestina). Il “Che fare?” non è eccezione: solo il quinto e ultimo capitolo si occupa più esplicitamente di organizzazione, dopo aver affrontato nei primi quattro capitoli gli aspetti organizzativi solo in stretta dipendenza e subordinazione dei temi politici e teorici che sviluppa criticando le deviazioni opportunistiche allora attuali , guarda caso ancora in auge oggi a casa nostra: dogmatismo, spontaneismo, economicismo.
Se quello che dico non corrisponde alla realtà vuol dire che presto molte organizzazioni rivoluzionarie saranno al fianco degli operai in lotta.
Tra "il partito non c’è" e "il partito manca" viene posta una differenza, non una distinzione. La metto giù secca: Giulio Tononi dice che i nativi dell’America avevano il senso della menzogna (viso pallido parla con lingua biforcuta), e non è più, e chiede "chi ne sente la mancanza?"
Quel 'sesto senso' non ce l'hanno i Taino, che pure dovrebbero per genetica. Partire dalla constatazione, "non c'è", postula un vuoto e un Soggetto che lo osserva. Chi è questo individuo? A quale grado di evoluzione della materia corrisponde, giusta Engels? E il vuoto, è quello di Laclau, di Podemos, del M5S, da riempire? Inoltre, oltre a negare legittimità a chi afferma "c'è", non impone forse il vuoto anche a chi afferma "manca"? Quale prova d'esame deve passare chi sostiene la tesi "manca"? Grazie.