Immigrazione, gingoismo ed “esercito industriale di riserva”
di Eros Barone
Generalmente, il caos è il disordine esistente tra l’ultimo ordine di cui si è a conoscenza e l’ordine futuro ancora da realizzarsi. E’ una fase pericolosa e incerta, nella quale ogni elemento di solidità sembra sgretolarsi…Sebbene il caos sia in genere una fase difficile e faticosa, è anche dinamica, una fase di grande creatività e sviluppo.
Sun Tzu, L’arte della guerra.
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Immigrazione: dati reali e percezione
Com’è possibile che l’immigrazione, a dispetto della sua modesta consistenza e relativa incidenza se paragonata ad altri paesi europei come la Francia, l’Inghilterra e la Spagna, abbia assunto un rilievo così sproporzionato nell’agenda politica del governo, dei ‘mass media’ e, a partire da qui, nella percezione e nella sensibilità della maggioranza della popolazione italiana?
Il primo dato da considerare è l’entità del fenomeno: tra regolari e irregolari, gli immigrati presenti nel Bel Paese sono (dati ISTAT), all’incirca, 6 milioni, ossia il 10% sul totale della popolazione, quindi una percentuale e un dato assoluto che, in un paese moderno che è la sesta o settima potenza mondiale, non dovrebbe giustificare la sindrome da ‘invasione’ paventata e/o indotta ad opera di determinate forze politiche e sociali.
Sennonché, stando ai sondaggi demoscopici che sono stati effettuati, 1 l’Italia è il paese europeo dove lo scarto tra i dati reali poc’anzi citati e la percezione soggettiva espressa dagli intervistati è in assoluto il più ampio. Basti pensare che i cittadini intervistati percepiscono l’esistenza di una percentuale di immigrati che assomma a più del doppio (esattamente il 25%) di quelli risultanti dai dati reali. Orbene, di fronte alle dimensioni (sia reali che immaginarie) di questo fenomeno sono possibili e concretamente osservabili due tipi di reazione: la prima è quella di chi, attenendosi al dato numerico della consistenza e incidenza tutto sommato modeste del fenomeno, arriva tranquillamente a negare che tale fenomeno costituisca un problema; il secondo tipo di reazione è quello di chi, riflettendo sullo scarto tra i dati e la percezione, ritiene corretto supporre che il problema relativo all’immigrazione sia molto più ampio e profondo di quanto appaia dalle sue dimensioni statistiche.
Per esprimerci in termini dialettici, si può affermare che tra i due tipi di reazione intercorre un rapporto assimilabile a ciò che nella teoria degli opposti è definito come rapporto tra opposti correlativi asimmetrici. Perché si tratta di opposti correlativi asimmetrici? Perché, se si trattasse di opposti correlativi simmetrici, il conflitto avverrebbe tra opposti ‘omogenei’, mentre, mancando nel carattere asimmetrico tale connotazione, è evidente la natura ‘disomogenea’ degli opposti che entrano in conflitto. Non è pertanto difficile riconoscere nel primo tipo di reazione l’atteggiamento cosmopolita dei ceti alto-borghesi e di una certa piccola borghesia intellettuale, per i quali la questione dell’immigrazione inizia e finisce al momento dell’ingresso degli stranieri nel nostro paese; laddove nel secondo tipo di reazione è identificabile l’atteggiamento ben diverso, tanto rude quanto autodifensivo, di quegli strati proletari e di quei settori della piccola borghesia tradizionale, per cui la questione dell’immigrazione inizia, sì, ma non finisce affatto in quel momento.
Come spesso accade nella dinamica della società capitalistica, il conflitto che si apre, anche se è determinato in ultima istanza dalla opposizione tra capitale e lavoro, può essere molto differente nelle sue “Erscheinungsformen” (forme di manifestazione) da questa opposizione fondamentale (l’esempio classico è il conflitto tra fascismo e antifascismo, che ha tagliato e taglia trasversalmente le diverse classi sociali, e, nel caso qui esaminato, il conflitto, anch’esso trasversale, fra cosmopolitismo e nazionalismo, una plastica rappresentazione del quale è stato il recente episodio dell’arresto della capitana della nave “Sea-Watch 3” appartenente ad una ONG tedesca). 2
Se si guarda alla questione migratoria da questo diverso punto di vista (che è poi quello corrispondente ai bisogni immediati delle classi subalterne), non è difficile scoprire che la questione dell’immigrazione, in apparenza così semplice stando ai dati numerici (che con Hegel si potrebbero ben definire come “la qualità tolta”), 3 è fortemente surdeterminata, 4 nella concreta totalità sociale, da tutta una serie di problemi e di connessioni che la rendono sempre più rilevante e la sottraggono, nella sua reale dimensione, che è multilaterale e plurivalente, alle determinazioni puramente quantitative, in sé scarsamente rilevanti.
I problemi che si accampano sulla scena dell’immigrazione sono, a questo punto, altrettanti aspetti (o elementi) della condizione proletaria all’interno dell’attuale società capitalistica: dal problema abitativo al problema della sicurezza, da quello dell’assistenza pubblica a quello del degrado urbano, per finire là dove in realtà ha inizio il problema nodale che definisce, da un punto di vista marxista e comunista, la questione migratoria: il problema dell’esercito industriale di riserva e della sovrappopolazione lavorativa nelle tre forme che tale sovrappopolazione assume (eccedente, fluttuante e stagnante).
A questo proposito, è da osservare come la catastrofe storico-politico-morale della cosiddetta ‘sinistra radicale’, che ha aperto sconfinate praterie alle incursioni populistiche e demagogiche della destra nazionalista e fascisteggiante, si sia consumata proprio su questo terreno con l’abbandono, da un lato, della questione centrale del lavoro salariato e della produzione del plusvalore come criteri conoscitivi dell’attuale formazione sociale e coerenti direttrici dell’iniziativa politica, ideologica e culturale di classe, e, dall’altro lato, con la correlativa assunzione della concezione individualistica e piccolo-borghese dei diritti civili. In termini dialettici, si è trattato dello scambio e della sostituzione della teoria degli opposti correlativi asimmetrici con la teoria degli opposti correlativi simmetrici: scambio e sostituzione che spiegano il carattere politicamente ‘miserabile’, socialmente postulatorio e moralmente consolatorio delle ‘quote rosa’, delle ‘unioni civili’, delle adozioni e di tutta la mistificante panoplia del ‘diritto eguale’, apprestata e posta in atto per ‘omogeneizzare’ e controllare entro l’àmbito giuridico della legalità borghese le condizioni e i comportamenti delle variegate minoranze sessuali, etniche e culturali presenti nella società tardo-capitalistica.
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Il ‘lato oscuro’ del proletariato: gingoismo e aristocrazia operaia
Nel libro intitolato Imperialismo (1902), che costituisce una delle fonti critiche più importanti cui attinse Lenin nel corso della stesura del suo celebre saggio sull’Imperialismo, fase suprema del capitalismo (1917), il liberale progressista inglese John Atkinson Hobson (1858-1940), stabilendo uno stretto collegamento tra il fenomeno gingoista e l’azione mistificatrice della propaganda imperialista, riassume la sua diagnosi di tale fenomeno in questa formula: «Il gingoismo è né più né meno che la smania, non nobilitata da alcuno sforzo o rischio o sacrificio personale, dello spettatore che gioisce dei pericoli, delle sofferenze e dello sterminio di fratelli che non conosce, ma di cui brama la distruzione in preda a cieco impulso di odio o di vendetta suscitato artificiosamente». 5
Chiunque, non condizionato da questa sindrome, ne sia stato il testimone inorridito, quando non coinvolto, in uno qualsiasi dei laboratori del processo di fascistizzazione in corso (bar, stadi, birrerie, raggruppamenti consueti di persone in piazze o angoli di strade dei quartieri periferici o dei centri metropolitani ecc.), sa che si tratta di un atteggiamento non dissìmile da quello dello spettatore degli spettacoli sportivi di massa (come il calcio), che Hobson giustamente considerava tra i più efficaci veicoli di diffusione della mentalità gingoista. 6
Certo, a differenza che nel periodo di ascesa dell’imperialismo, quando questo manifestò con maggiore crudezza i suoi aspetti bellici ed espansionistici, periodo a cui risale l’origine del termine ‘gingoismo’ (quindi tra la fine dell’Ottocento, dapprima con la guerra russo-turca nella regione rumeno-danubiana e poi con la guerra ispano-americana per Cuba, e l’inizio del Novecento, con la sanguinosa guerra anglo-boera); a differenza di ciò che accadde in tale periodo, si diceva, il gingoismo presente nei paesi imperialisti occidentali ha oggi (non un carattere aggressivo, anche se può rapidamente acquisirlo ma) prevalentemente ‘difensivo’ e ‘semi-spontaneo’, essendo alimentato non dai principali ‘mass media’ legati alla borghesia capital-imperialista, ma da quella parte minoritaria dei ‘mass-media’ che è caratterizzata da un indirizzo apertamente reazionario, populista e razzista.
Del resto, se si leggono gli appunti e le glosse dei suoi Quaderni sull’imperialismo non vi è dubbio che Lenin fosse rimasto impressionato e convinto dalle acute osservazioni di Hobson sulla particolare connotazione del gingoismo come “voluttà visiva” e, in generale, sull’attitudine ‘voyeuristica’ di larghi settori della popolazione (attitudine oggi indotta con tanto maggiore efficacia attraverso la ‘realtà aumentata’ prodotta dalle più avanzate tecnologie audiovisive). Lenin sostiene, dunque, che le tendenze gingoiste del periodo imperialistico hanno nella classe operaia una base economico-sociale ristretta, ma ben definita. Con questa osservazione Lenin intendeva riferirsi all’“aristocrazia operaia”, di cui ci ha consegnato un’analisi che ancor oggi conserva tutta la sua importanza.
Secondo Lenin, la base economico-sociale dell’aristocrazia operaia aveva due componenti: una era costituita da quella parte di proletariato che traeva un vantaggio, per via di salari più alti e di migliori condizioni di impiego, dallo stadio di sviluppo avanzato raggiunto dal sistema capitalistico nell’età dell’imperialismo (si trattava di una minoranza non trascurabile, che secondo Hobson arrivava a toccare circa il 20% del totale della classe operaia, con punte del 40% nei settori dell’industria metallurgica e navale); l’altra componente era formata dagli elementi di estrazione borghese e piccolo-borghese presenti nei quadri medio-alti degli apparati di partito e sindacali (i cosiddetti “compagni di strada” che, conservando in diversa misura la loro matrice sociale, erano particolarmente inclini a farsi promotori o prosseneti più o meno consapevoli, all’insegna dell’eclettismo e del riformismo, di contaminazioni culturali e ideologiche con le classi dominanti).
In tutto questo Lenin riconosceva con grande chiarezza gli effetti dei rapporti di interrelazione tra il movimento operaio e la società borghese-capitalistica: da un lato, un processo di burocratizzazione dei sindacati e dei partiti indotto da un sistema sociale basato sulla irreggimentazione delle masse; dall’altro, un mutamento della composizione sociale e della stratificazione gerarchica nella classe operaia, parallelo a quello dei rapporti produttivi e di lavoro. La nozione di “aristocrazia operaia diventa perciò sempre più estensiva a mano a mano che i suddetti processi si allargano e si approfondiscono, investendo a livello capillare l’intero organismo sociale. Così, quando si scaglia contro i “partiti operai borghesi” Lenin non solo generalizza il fenomeno a tutti i paesi imperialisti, ma ne allarga anche la base sociale, talché il processo finisce col coinvolgere tutti quei soggetti che in cambio del loro opportunismo ottengono «posticini redditizi e tranquilli in un ministero e nel comitato dell’industria di guerra, nel parlamento e nelle varie commissioni, nelle redazioni di solidi giornali legali o nelle amministrazioni di sindacati operai non meno solidi e obbedienti alla borghesia». 7 Pertanto, la connessione gingoismo-aristocrazia operaia resta un punto fermo dell’analisi di Lenin. Quando nel saggio sull’imperialismo afferma che «l’ideologia imperialista si fa strada anche nella classe operaia, che non è separata dalle altre classi da una muraglia cinese», Lenin dimostra di avere ben chiara questa connessione. 8
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Immigrazione ed “esercito industriale di riserva”
Non vi è dubbio che il problema dell’immigrazione nei paesi capitalistici sia uno di quei nodi inestricabili del sistema borghese che possono essere sciolti solo con il totale ribaltamento di prospettiva realizzato dalla società socialista.
Come ha notato l’economista indiano Prabhat Patnaik, fino a pochi decenni fa il capitalismo aveva generato flussi migratori tra zone omogenee. Il primo tipo di flusso aveva luogo all’interno dell’Europa oppure procedeva dall’Europa verso l’America o l’Australia ed era costituito da grandi masse di manodopera qualificata, che non ingrossavano, ma contribuivano a tenere sotto controllo l’esercito industriale di riserva. Il secondo tipo di flusso procedeva dalla Cina o dall’India verso altri paesi coloniali o semi-coloniali, quali il Sudafrica. Quindi, osserva Patnaik, da alti salari ad alti salari o da bassi salari a bassi salari. Le politiche protezionistiche adottate dai paesi capitalisti avanzati, separando rigidamente queste due aree, impedivano ai prodotti del Sud di invadere il Nord (vedi l’esempio del cotone indiano), mentre il protezionismo era stato distrutto nel Sud a cannonate (vedi l’esempio della guerra dell’oppio).
Il significato di questa compartimentazione del mercato del lavoro consisteva dunque nel fatto che, mentre i salari reali nel Nord crescevano con la produttività del lavoro, i salari reali nel Sud continuavano a ristagnare ad un livello di stretta sussistenza sotto la pressione delle sue enormi riserve di lavoro. Orbene, la globalizzazione attuale ha spazzato via questa compartimentazione dell’economia capitalistica mondiale. Così è accaduto che il capitale dal Nord si è spostato al Sud, delocalizzandovi gli impianti per le esportazioni verso il mercato mondiale complessivo, compresi i mercati del Nord che sono ora aperti a tali esportazioni dal Sud. Sennonché la conseguenza di questo processo è che i lavoratori del Nord sono ora esposti alle conseguenze funeste dei flussi costituiti dalle enormi riserve di lavoro del Sud. 9
D’altra parte, la globalizzazione imperialistica e le politiche neoliberiste che il capitalismo ha attuato negli ultimi decenni sono state determinate dalla irrisolvibile crisi economica di sovrapproduzione di capitale, che ha spinto il capitalismo (produzione e mercato) a proiettarsi in tutto il mondo. In tal modo, la globalizzazione ha fatto aumentare soprattutto i profitti, permettendo ai capitali di muoversi su scala globale. Ma a livello locale e non globale l’effetto è stato che la classe operaia dei paesi occidentali è ora esposta alla concorrenza di un esercito industriale di riserva che non è più limitato al proprio territorio, ma è esteso a tutto il mondo.
Mutamenti di carattere epocale come quelli testé sinteticamente evocati non possono non generare nei paesi occidentali squilibri e tensioni, che prendono la forma della ‘guerra tra poveri’, contrapponendo proletari italiani colpiti dalla crisi e proletari stranieri.
Cerchiamo pertanto di focalizzare le cause di questa ‘guerra’. Prendendo come punto di riferimento i dati del 2014, che sono i più aggiornati, vediamo che in tale anno vi sono state 509 mila nascite (il livello minimo dall’Unità d’Italia), mentre i morti sono stati 597 mila unità. Ciò significa che in Italia mancano circa 100 mila individui l’anno. Poiché il numero di figli per donna che dovrebbe mantenere la popolazione in pareggio nel lungo periodo è pari ovviamente a 2, possiamo dedurne che finora i vuoti nella popolazione in Italia si sentono poco sia a causa della diminuzione dei morti, fattore che però provoca il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione con tutti i relativi problemi, sia a causa dell’immigrazione.
Il saldo migratorio netto con l’estero è invece pari a +142 mila unità, valore minimo degli ultimi cinque anni, in quanto bisogna considerare anche la forte emigrazione di giovani altamente istruiti che vanno all’estero (la famosa “fuga dei cervelli”). 10
A questo punto, si potrebbe pensare che uno sfoltimento della popolazione sia un fatto positivo, soprattutto per le classi subalterne, perché ciò dovrebbe portare ad una diminuzione dell’esercito industriale di riserva. Ma questo è completamente falso, perché con la diminuzione dei cittadini si verifica fatalmente anche quella dei consumatori e l’economia, almeno quella capitalistica, si restringe (con buona pace dei ‘decrescisti’): meno consumatori, meno prodotto, meno produttori necessari. Paradossalmente l’incremento di cittadini stranieri apporta più ricchezza al paese di quanta non ne sottragga. Il problema però, dal punto di vista della classe lavoratrice italiana, è che la debolezza del lavoro degli immigrati fatalmente indebolisce il lavoro dei proletari italiani, incrementando l’esercito industriale di riserva, aumentando i profitti e schiacciando tutti i lavoratori, immigrati e autoctoni.
Quindi ondeggiamo tra Scilla e Cariddi: se diminuisce l’immigrazione diminuisce la base produttiva del paese, ma se aumenta la base produttiva ad ottenere maggiormente lavoro sono gl’immigrati.
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Immigrati e lotta di classe
La premessa da cui occorre partire è che gli immigrati sono negli ambienti lavorativi la componente più penalizzata e sfruttata e che essi vivono un’oppressione che si prolunga ben oltre il luogo di lavoro. La condizione di subalternità degli immigrati è strettamente connessa, infatti, all’organizzazione socio-economica complessiva, alle divisioni che il sistema politico-giuridico dello Stato borghese instaura fra cittadini e non-cittadini, all’obbligo di lavorare per ottenere il permesso di soggiorno, al razzismo diffuso e a una generale emarginazione delle loro esigenze.
Assumere dunque, all’interno di un programma minimo, la questione degli immigrati vuol dire porre in evidenza un aspetto direttamente politico, che inerisce, cioè, alla costituzione materiale della nostra società. Ma qual è il percorso da seguire? Non certo la catabasi che discende dal cielo dei diritti civili e individuali, praticata con effetti politicamente grotteschi e socialmente controproducenti dalle forze opportuniste del PD e della cosiddetta “sinistra radicale”, ma semmai l’anabasi che muove dal basso, dal “concime delle contraddizioni” ìnsite nei rapporti materiali di produzione.
Gli immigrati sono presenti in molteplici settori dell’attività economica: porre in rilievo le loro esigenze non significa staccarli dal proletariato, a cui appartengono, per enfatizzare la loro identità, bensì fare in modo che attraverso la loro specificità la classe si ricomponga e tragga da questo processo di ricomposizione nuova forza. Un’ottica incentrata sulla ricomposizione della classe impone di sottolineare in ogni vertenza, lotta o rivendicazione la specificità degli immigrati, la loro subordinazione all’interno del sistema esistente, ma soprattutto il loro ruolo di protagonisti del conflitto sociale, ben diverso da quello di vittime da assistere, che vorrebbero affibbiargli i ‘buonisti’ o, peggio ancora, di corpi estranei da respingere, reprimere e isolare, a cui vorrebbero ridurli i ‘cattivisti’: in sostanza, le due frazioni della borghesia imperialista che, quali opposti correlativi simmetrici, puntano a governare il fenomeno dell’immigrazione depotenziandolo di ogni valenza conflittuale.
Ma la verità è che in questi anni gli immigrati hanno assolto in alcuni settori un ruolo di avanguardia, che non è stato determinato soltanto dalle peggiori condizioni di vita e di lavoro, ma è stato reso possibile da un minore condizionamento politico e sociale rispetto al ‘lavaggio del cervello’, alle compatibilità e alla tendenza alla rassegnazione che esprimono i lavoratori italiani fin dal loro primo giorno di lavoro. Questa parziale estraneità degli immigrati ai pregiudizi verso la lotta nelle sue forme più dure, questo internazionalismo istintivo sotteso ad ogni loro comportamento, insieme con la spinta alla ribellione che dalle piazze del Mashrek e del Maghreb è arrivata fino ai cancelli dei poli logistici del Nord Italia, sono importanti fattori di riaggregazione e di mobilitazione di una classe che tende ad essere sempre più omogenea nel suo profilo sempre più marcato di “lavoro astratto” e costituiscono una lezione fondamentale per gli stessi lavoratori italiani.
In realtà, per tornare al ‘circolo vizioso’ tra Scilla e Cariddi accennato in precedenza, l’unica soluzione di questa aporia è la fuoriuscita dal capitalismo, essendo questa l’unica scelta, per l’appunto euporetica, atta a creare le condizioni per una soluzione razionale del problema della convivenza tra i popoli e tra le diverse componenti etniche della classe operaia: un sistema di produzione e di scambio socialista che garantisca a tutti eguali condizioni di esistenza, di benessere, di sicurezza e di cultura.
Ma nella fase intermedia occorre individuare le giuste rivendicazioni della lotta popolare, che saranno tali solo se soddisferanno tre fondamentali requisiti: aumentare il benessere dei lavoratori, modificare a favore del proletariato i rapporti di forza tra questo e la borghesia, elevare la coscienza di classe del proletariato svelando a tutto il popolo l’insanabile contraddizione tra il sistema capitalistico e gli interessi materiali e morali dei lavoratori.
Queste sono dunque le giuste parole d’ordine: no alla ‘guerra tra i poveri’; non sono i proletari immigrati a rubare il lavoro ai proletari autoctoni, ma è il capitalista che lo ruba quando delocalizza la produzione: nazionalizzare le aziende che delocalizzano la produzione; non sono i proletari immigrati a fare concorrenza a quelli autoctoni e ad abbassare il loro salario, ma è il capitalista che scatena la concorrenza per abbassare i salari: salario minimo per tutti fissato per legge; non sono i proletari immigrati a fare la guerra, ma sono i capitalisti imperialisti che portano la guerra e la distruzione ai popoli del resto del mondo: fuori l’Italia dalla NATO e fine della partecipazione dell’Italia a tutte le guerre imperialiste; non sono i proletari immigrati a restringere le possibilità di sostegno al lavoro e ai servizi pubblici, ma i trattati europei che strangolano i popoli d’Europa: fuori l’Italia dall’Unione Europea e dall’euro.
Comments
il titolo dell'articolo è chiarissimo: «Immigrazione, gingoismo e esercito industriale di riserva».
Gli immigrati in questa fase storica finiscono nella nell'infame morsa del nazionalismo (gingoismo) perché fungono da esercito industriale di riserva. Ovvero siamo in presenza di una nuova tratta dei neri con due differenze rispetto alla prima: a) nella prima tratta il modo di produzione capitalistico si espandeva a macchia d'olio, mentre oggi si espande sì a macchia d'olio ma in Asia e in Africa e mette in crisi l'Occidente tutto; b) in questa seconda ondata storica di tratta dei neri l'Occidente non riesce a garantire neppure il minimo dignitoso al proletariato indigeno, mentre prima si.
A chi si professa marxista (mentre lo stesso Marx non si riteneva tale) vorrei ricordare che l’autore de Il capitale in una lettera a Sigfried Mayer e a August Vogt del 9 aprile 1870 scriveva: «In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili» si noti bene: ostili «proletari inglesi e proletari irlandesi […] Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo».
Diciamola tutta e fino in fondo: noi "marxisti" - in modo particolare quanti si richiamano a Lenin - non abbiamo il coraggio di dire una cosa molto semplice e cioè che Marx sul valore e ruolo del proletariato, dunque della classe operaia SI SBAGLIAVA.
Gli interventi che commentano questo articolo dimostrano esattamente questa difficoltà, perché si punta a interpretare questo o quel concetto, di Marx o altri autorevolissimi autori, senza prendere il toro per le corna: il proletariato non è una classe capace di fare la rivoluzione come non fu capace la borghesia. Il capitalismo è un MOVIMENTO storico le cui classi sono il risultato di esso e non viceversa.
Il paradosso è questo: quando il capitalismo cresceva i marxisti (Marx e Engels compresi) lo vedevano lì lì per finire; oggi che va completando il suo percorso e si avvia verso un caos generale, noi balbettiamo e siamo prigionieri di una gabbia ideologica che ci impedisce di capire la realtà.
L'aristocrazia operaia? è una espressione di Lenin priva di significato proprio perché i marxisti immaginavano la classe operaia secondo i propri desideri piuttosto che vederla per quello che è nei suoi processi oggettivi, cioè reali. Continuando in questo modo non daremo nessun contributo alla causa della rivoluzione. Ci sono ASSI TEORICI da mettere in discussione perché privi di qualsiasi valore materiale. La classe operaia, l'unica classe «autenticamente rivoluzionaria»? E perché mai? Perché il proletariato dovrebbe fare la rivoluzione contro la borghesia, abbattere il suo potere politico e instaurale la propria dittatura? In base a quale criterio materiale? Provino a rispondere i compagni piuttosto che cincischiare di astrazioni metafisiche. Oh poveri noi che non riusciamo a chiederci se tutto ciò sia materialismo o metafisica. Almeno i cristiani dicono: Mistero della fede! E noi?
Se gli operai votano - con la tessera della Cgil in tasca - Salvini perché lo fanno? Se gli operai americani votano Trump perché lo fanno? SVEGLIA COMPAGNI!!!!!
Michele Castaldo
La visione "pluralista" liberale che considera la società come una sommatoria di "individui" che entrano successivamente e volontariamente, contrattualmente, in relazione tra loro, non è che l'espressione della concezione "non totalitaria" dei liberali: le cose, gli individui, esistono in loro stesse come essenze preformate e poi, eventualmente, entrano in relazione tra loro, formando aggregati frutto di sommatoria. Il valore ideologico, illusorio e vero nel contempo, di questa forma di legame sociale della società "atomisticamente disgregata", ce l'ha insegnato Marx. Il concetto marxista di individuo come complesso di relazioni sociali è estraneo al liberalismo.
Il concetto di totalità sociale è proprio di eminenti marxisti (Labriola, Gramsci, Lukàcs, ...).
Gramsci sostiene che ogni società tende a organizzarsi in modo totalitario intorno al suo principio informatore. Quanto ciò sia vero lo constatiamo nella società capitalistica, che si organizza plasmando tutte le sfere della vita intorno al principio della merce e del suo "libero" scambio. Tutto ciò è ora anche teorizzato espressamente dalla dottrina ordoliberista. La nostra società "libera, aperta, non totalitaria, degli individui", manipolazione dell'informazione e propaganda a parte, è totalitaria sino al midollo. Il decantato suo "pluralismo" è proprio una manifestazione del suo totalitarismo fanatico.
Anche la futura società comunista si organizza necessariamente in modo totalitario intorno al suo principio informatore: non il libero scambio di merci ma la libera, e organizzata, associazione dei produttori coscienti, la sola che, superata la divisione in classi e la rigida divisione del lavoro classista, può formare individui onnilaterali, non disgregati e monchi.
A una determinata totalitá sociale se ne sostituisce un'altra.
Secondo Gramsci, la classe rivoluzionaria deve essere portatrice di una autonoma e "integrale" concezione del mondo, il materialismo storico, che è concezione "autosufficiente" (proprio così: integrale e autosufficiente. I liberali pluralisti si scandalizzino pure per il totalitarismo, l'integralismo e il dogmatismo di Gramsci).
Il partito ha il compito di elevare la classe a questa concezione "integrale" e "autosufficiente", unitaria e coerente. Ciò soltanto esprime l'autonomia della classe rivoluzionaria e la emancipa dalla soggezione ideologica alle concezioni eclettiche, disgregate, incoerenti, pluraliste, che le classi subalterne formano e assorbono sotto l'influenza ideologica delle classi dominanti (le quali, a modo loro, hanno una concezione unitaria e coerente funzionale all'assetto di dominio).
Cosa ha a che fare tutto ciò con il concetto liberale, banal-liberale, di "totalitarismo" della "libertaria" (anarco-liberale? Cosa significa "libertaria"?) Hannah Arendt? È un concetto riduttivo e mistificante che si limita ad evidenziare l'irregimentazione di massa e l'intensa attività propagandistica in tutti i settori della vita sociale, con richiesta di dedizione individuale al regime, propria delle "dittature" del '900. Essa pretende di accomunare ignobilmente e falsamente nazifascismo, tipica creatura della società e dell'ideologia liberale, e comunismo (prima solo nella versione "stalinista", poi il comunismo tout court), che ne è l'antitesi. In questa accezione solo politica, il concetto si cominciò ad usarlo negli anni '20, come dice Ermes, con riferimento ai "regimi reazionari di massa", i regimi fascisti (lo si trova anche in Togliatti).
Dopo la seconda guerra mondiale il termine viene mistificato, insieme alla storia e alla verità, nella categoria arendtiana come potente arma ideologica dell'ignobile propaganda anticomunista, per equiparare il comunismo al nazifascismo.
I liberali si sono appropriati di questa parola per la loro becera campagna anticomunista.
Svuotare una parola dell'avversario del suo senso e piegarla, mistificandola, al proprio fa parte della lotta di classe, sul piano ideologico. L'operazione si è dimostrata efficace, se è vero che tanti compagni, ignari o dimentichi del precedente significato, usano quella categoria nel senso voluto dagli avversari, assumendone l'ideologia veicolata.
L'altra forma della lotta ideologica sulla parola "totalitarismo" è di associarla all'organicismo e all'olismo. Per chi non fosse sufficientemente informato, comunico che per i liberali sono totalitari-organicisti-olisti Hegel, Rousseau, Marx. Nessuno escluso.
La cosa curiosa è che, a mio parere, nulla è più organicista e olista, anti individuale, della dottrina liberale, la quale afferma il bene collettivo essere il risultato non cercato e non voluto delle utilitaristiche azioni individuali. Gli individui come strumenti inconsapevoli e ciechi del mercato. Questa sarebbe libertà.
In conclusione, se Hegel, Rousseau, Marx, Labriola, Gramsci, Lukàcs, erano "totalitari", può la becera e ignobile propaganda ideologica anticomunista e liberale privarmi della parola e del pensiero che essa contiene?
è che a qualcuno piace confonderlo con Stalin..
PS: Hannah Arendt non era liberale; era libertaria e profonda lettrice e ammiratrice di Rosa Luxemburg.
Quanto alla lotta di classe sanmarinese, mi sembra di poter concordare con la tua precisazione che mette in risalto la divisione internazionale del lavoro. Se però da questa constatazione concludiamo che la struttura istituzionale, statale, e la nazionalità siano ininfluenti, traiamo una conseguenza sbagliata.
Quanto alla riorganizzazione del lavoro, alla questione del proletariato, dei salariati e del lavoro autonomo, ecc., t
fai osservazioni diverse da quelle illustrate con molta chiarezza e correttezza da Eros Barone nell'articolo e con le quali mi trovo d'accordo.
PS uso l'espressione "proletario marxiano" in senso generico : come noto i ricorsivi processi di informalizzazione del lavoro, sebbene non abbiano affatto moderato la polarizzazione sociale, hanno però non di meno tolto alla figura del "salariato" la centralità che essa ricopriva all'apice dello sviluppo industriale; e quelle che solo poco tempo fa erano considerate figure anomale ( lavoro riproduttivo, autonomo, gratuito o servile) hanno smesso di poter essere relegate ai margini.
Si può anche decidere di prescindere da certe forme di manifestazione del conflitto, ma ciò non le elimina.
In Cina e in India ( ormai anche in Sud America e Africa ) esistono "zone economiche speciali" ( dove lavorano milioni di salariati ) formalmente indipendenti dalla legislazione statale.
In breve, la categoria marxiana di classe è antinomica rispetto alla categoria reazionaria di nazione ; e ho il sospetto che chi, pur utilizzando un lessico marxista, non rompe con il suddetto nazionalismo metodologico.. non solo dovrebbero riuscire a spiegare (per non essere incoerenti e anche un po' rdicoli) che senso avrebbe invocare una lotta tra proletari e borghesi nel Lesotho o alle Bahamas ; ma anche che ha grosse possibilità (soprattutto se appartiene a paesi dell'ex Primo Mondo come l'Italia) , di diventare, consapevolmente o meno, un Bombacci dei nostri giorni, confermando appunto i timori espressi dal commento di Federico.
Cfr. il commento n. 2 all'articolo di Azzarà. Ma il problema che poni è di tale complessità e di tale importanza che dovrà essere ripreso, contestualizzato e approfondito in una sede specifica.
Quoting Eros Barone:
Personalmente, concordo sul fatto che la fase "transnazionale" e in particolare quella neo-liberale dell'imperialismo abbia mutato il "carattere" della classe lavoratrice, ma non certo la *natura* del *rapporto di classe*. All'interno di tale rapporto sociale, parte della classe lavoratrice, quella particolarmente istruita, tende a subire l'egemonia culturale delle frazioni dominanti; quella meno istruita e con salari più bassi tende a solidarizzare con le frazioni piccolo/medio borghesi "fascistizzanti". Occorrerebbe innanzitutto un attore "unificatore" dei "dominati", che avrebbe di fronte un compito immenso.
Resta però un problema, per illustrare il quale porterò un esempio. Mettiamo che si riesca in qualche modo a dar vita a un embrione di soggetto politico di classe in un paese industriale avanzato, poniamo in Italia. Ora, questo soggetto si troverebbe, nella fase attuale, ad avere, in modo contingente, almeno qualche interesse politico convergente con quello della piccolo-media borghesia (per comodità, chiamiamola pure "leghista") nel senso che le politiche dei paesi centrali dell'imperialismo in Europa, Germania in testa, mettono da un lato in grave difficoltà tali frazioni di borghesia italiana, e dall'altro peggiorano le condizioni dei lavoratori nei paesi semi-periferici o periferici. In Germania, tuttavia, (come in Olanda, in Austria, ecc.) la classe lavoratrice sembra ancora saldamente inserita nel compromesso neocorporativo che ben conosciamo. Quindi la classe lavoratrice al momento sembra divisa secondo linee "nazionali", ben più che 40/50 anni fa. Come si potrebbe agire per indebolire la frazione dominante, transnazionale e globalizzata della borghesia, senza farsi fagocitare dai "nazional populisti" et similia, e senza diventarne gli utili idioti? E se ciò non fosse possibile, quale altra strategia politica dovrebbe esser presa in considerazione?
Sennonché coloro che vorrebbero celebrare il funerale della classe operaia ed archiviare come obsoleto il termine di proletariato hanno attribuito grande importanza alla crescita impetuosa del terziario e delle TIC (tecnologie dell’informazione e della comunicazione). È vero che si tratta di cambiamenti importanti, che incidono sulla composizione di classe, ma è ancor più vero che nulla di tutto questo ha modificato la natura fondamentale dei rapporti di proprietà capitalistici. Insomma, la classe operaia è una parte immensa della popolazione mondiale (intorno ai tre miliardi di persone). D’altra parte, qualcosa va detto anche sulla scomparsa, non altrettanto decantata, dell’alta borghesia tradizionale, giacché anche la composizione di classe della borghesia cambia. Al posto dei vecchi capitalisti con la tuba e la marsina è infatti subentrato un universo monetario di manager, revisori dei conti, amministratori e speculatori del capitale contemporaneo. È tipico del capitalismo avanzato generare l’immagine ingannevole di una presunta assenza delle classi, e ciò fa parte della natura stessa del mostro. Lapo Elkann – un cocainomane frequentatore di transessuali -, John Elkann – un signorino azzimato con la erre moscia – e Sergio Marchionne – un manager che vestiva in modo informale, catasterizzato sia da vivo che ‘post mortem’ – sono tre icone di questa classe che mostrano, da un lato, una certa discontinuità con la tradizione dei “padroni delle ferriere” e, dall’altro, un’organica continuità con un sistema globale in cui le disparità di ricchezza e di potere si sono ampliate più che mai. Basti pensare che nel nostro paese, che può vantare il triste primato europeo di essere tra i più diseguali e con minore mobilità sociale, statistiche ISTAT alla mano, è praticamente impossibile che il figlio di un operaio possa diventare medico o magistrato.
I meccanismi dell'imbecillità gingoista, come anche quelli filantropici e dei bombardamenti etici e democratici del cattivo universalismo, hanno una solida base nell'aristocrazia coloniale, al cui mantenimento e consolidamento sono funzionali.
Ma non credo che questa resistenza colonialista durerà molto.
Tse-tung e in Che Guevara. Si deve soprattutto a Lenin la nozione di ‘pensiero strategico’, sintesi dialettica di pensiero politico e pensiero militare in cui si esprime un livello qualitativamente superiore della teoria politica, adeguato alla fase imperialista; ed è questo aspetto peculiarmente dialettico che trova una chiara formulazione, per l’appunto strategica e politico-militare, nel passo di Sun-Tzu che ho trascelto come epigrafe. 2) Secondo Arianna, io rischierei di “generalizzare una reazione sociale al fenomeno immigratorio”, che in realtà è “un po’ più articolata, dal momento che sia tra la borghesia sia tra gli strati proletari ci possono essere forme di coscienza civica tutt’altro che flebili, basti pensare alle forme di solidarietà di tipo laico (associazionismo) o religioso che...qualche volta coincidono con assistenzialismo semplice, ma altre volte no”. Dopodiché, Arianna osserva: “Si tratta di forme di solidarietà che attraversano ampi strati della società italiana e di cui la cronaca ogni tanto ricorda l’impegno. O magari anche queste forme di collaborazione sono da considerare come ‘Erscheinungsformen’?” Devo dire che, siccome il tema è la ‘solidarietà’, assai forte è la tentazione nichilistica di rinviare Arianna alla lettura di quel secondo paragrafo del terzo capitolo del “Manifesto del partito comunista”, concernente “Il socialismo conservatore o borghese”, in cui Marx ed Engels liquidano questa istanza e l’atteggiamento che ne consegue, rilevando che “parte della borghesia desidera porre rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese”, e proseguono enumerando le schiere dei ‘solidaristi’ (l’analisi, essendo tipologica, risulta perfettamente valida, con gli opportuni aggiornamenti, anche oggi): “Ne fanno parte gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni delle classi operaie, gli organizzatori della beneficenza, i membri delle società protettrici degli animali, i fondatori di società di temperanza e tutta la variopinta schiera dei minuti riformatori”. È difficile, quindi, non concordare con gli autori del “Manifesto”, i quali asseriscono che, “quando [questo genere di ‘socialismo’] invita il proletariato a mettere in pratica i suoi sistemi se vuole entrare nella nuova Gerusalemme, gli domanda, in fondo, soltanto di restare nella società presente, ma di rinunciare alla odiosa rappresentazione che si fa di essa”. Siccome il tema è il rapporto tra valori e interessi (di classe), bisogna precisare che, in questa società, i primi seguono i secondi e da essi sono plasmati, guidati, utilizzati. In altri termini, dobbiamo operare una sorta di rovesciamento, in modo da collocare nel giusto ordine le immagini capovolte dalla ‘camera oscura’ dell’ideologia. I valori (storicamente e socialmente determinati) sono il mezzo, gli interessi (socialmente e storicamente determinati) rappresentano il fine dell’azione sociale. Laddove questa natura di ‘mezzo’ dei valori riguarda anche quello che probabilmente è l’unico ‘valore’ correttamente attribuibile alle classi subalterne nella loro lotta per l’emancipazione: il valore della ‘solidarietà’ (di classe). Un valore che nella tradizione rivoluzionaria del movimento operaio non ha nulla a che fare con la ‘solidarietà’ di cui parla il cosiddetto pensiero sociale della Chiesa (ossia il solidarismo, la mano caritatevole tesa verso “i deboli”, verso “chi resta indietro” ecc.): la ‘solidarietà’, come dicono le parole di una delle più belle canzoni del movimento comunista (il 'Canto della solidarietà' di Brecht-Eisler), è invece semplicemente ciò “in cui risiede la nostra forza”, ossia l’unione fra eguali per conseguire un obiettivo comune. Nella dimensione mistificata del moralismo, invece, ha luogo una ‘petitio principii’, a causa della quale dalle proprie immancabili sconfitte e dall’inevitabile inanità dei propri sforzi si riceve conferma della propria bontà (ad esempio, nei confronti degli immigrati, concepiti come “gli ultimi”, “i deboli”, “i bisognosi”, e non, come sarebbe giusto, in quanto popoli sfruttati da ben individuabili meccanismi economici, in conformità a ben precisi interessi di classe). 3) Un qualificato germanista e marxista italiano, Cesare Cases, ha affermato giustamente che «grandezza e miseria del marxismo italiano si possono riassumere nella constatazione che esso non ha mai fatto uso del predicato ‘borghese’ aggiunto a parole come filosofia, storiografia, estetica ecc. Grandezza, perché si è così impedito di esaurire la critica in questo aggettivo, come avviene nel dogmatismo – miseria, perché ciò implicava la rinuncia ad affrontare di petto l’impostazione dei problemi in senso marxista». Circa l’uso di questo aggettivo, aggiungo soltanto che esso ha il valore concettuale, descrittivo e metodologico, di un’astrazione determinata con la quale viene individuata, a livello strutturale o sovrastrutturale, la genesi sociale (di classe) di un fenomeno storico, indipendentemente dal fatto che esso sia progressivo o regressivo (il capitalismo, ad esempio, è stato, nella sua nascita e nella sua ascesa, una forza “sommamente rivoluzionaria”, come si legge nel “Manifesto”; oppure, nella sua espansione e nel suo consolidamento, una forza reazionaria e controrivoluzionaria, come dimostra l’esperienza storica del XX secolo e di questo inizio del XXI secolo: individuarne la natura nelle differenti fasi storiche è il compito di "un'analisi concreta della situazione concreta"). Riguardo al rapporto tra diritti civili individuali, diritti politici e diritti economico-sociali, occorre tenere presente che oggi i primi e i secondi vengono sistematicamente contrapposti dalla dominante ideologia borghese agli ultimi, che, anche nella moderata versione dello Stato sociale, assomigliano fin troppo al socialismo. Dunque, l’ordine di precedenza, in un’ottica comunista e rivoluzionaria, va ribaltato, sostituendo alla concezione individualistica e piccolo-borghese incentrata sui diritti civili e politici (e sul correlativo universalismo politico-giuridico, giustamente sottolineato da Arianna, che però non sembra coglierne la natura mistificatoria) una concezione collettivistica e proletaria incentrata sui diritti economici e sociali (e sul correlativo universalismo, non più mistificatorio in quanto fondato sulla eguaglianza economica e sociale). Da questo punto di vista, va riproposta non solo la critica del ‘diritto eguale’ borghese sviluppata da Marx nella “Critica al programma di Gotha” (1875), ma anche l’alternativa tra ‘libertà formale’ e ‘libertà reale’ su cui ha energicamente insistito Lenin, quando ha posto la domanda chiave: “Libertà sì, ma per chi? Per fare che cosa?”. In conclusione, i classici del socialismo scientifico e l’esperienza storica dimostrano che non ci si deve illudere sulla possibilità, rivelatasi ormai del tutto chimerica, di fare buon uso dello Stato borghese esistente, mentre è una necessità vitale che si abbia la consapevolezza teorica e l’intelligenza politica di definire volta per volta le potenzialità e i limiti di un’azione antagonista concreta, la quale si esplichi anche all’interno degli apparati di Stato esistenti, creando le premesse per la conquista del potere politico da parte del proletariato e dei suoi alleati, dissaldando per questa via l’attuale formazione sociale e dando vita a spazi di organizzazione politica e di formazione ideologica delle masse popolari, atti a stimolare l’ulteriore prosecuzione della lotta di classe oltre quelle colonne d’Ercole della dominante ideologia democratico-borghese che, con il suo influsso narcotico e con qualche miserabile elemosina, impedisce alle classi sfruttate ed oppresse di riconoscere che «il male è nel capitalismo, non nella mancanza di diritti» (Lenin, "Una caricatura del marxismo e l’economismo imperialistico", pamphlet scritto nel 1916 e reperibile al seguente indirizzo: https://www.marxists.org/italiano/lenin/lenin-opere/lenin_opere_23.pdf).
Ad Arianna dico: l'articolazione contemporanea delle classi può aver bisogno di un nuovo lessico, ma occorre essere molto precisi. Effettivamente, finché non avremo raggiunto un "accordo" (scientifico) su come chiamare le varie frazioni di classe dominante e non-dominante, non vedo come ovviare all'uso di categorie "ottocentesche". Discorso comunque aperto, e concordo con te, Arianna, sul fatto che vada affrontato.
1. Ottima scelta l’introduzione tratta da “L’arte della guerra" di Sun Tzu. Il caos, e quindi la guerra, possono rivelarsi momenti determinanti nel riassestamento della società, e in un paese come l’Italia la guerra (tra poveri, come noti) è un pericolo che grava sulle nostre teste come la spada di Damocle;
2. Scrivi che c’è chi "arriva tranquillamente a negare che tale fenomeno costituisca un problema”, riferendoti in particolare all'"atteggiamento cosmopolita dei ceti
alto-borghesi e di una certa piccola borghesia intellettuale, per i quali la questione dell’immigrazione inizia e finisce al momento dell’ingresso degli stranieri nel nostro paese”. Al contrario, ci sono quegli "strati proletari e (…) quei settori della piccola borghesia tradizionale, per cui la questione dell’immigrazione inizia, sì, ma non finisce affatto in quel momento”. Non hai affatto torto, ma rischi di generalizzare una reazione sociale al fenomeno immigratorio un po’ più articolata, dal momento che sia tra la borghesia sia tra gli strati proletari ci possono essere forme di coscienza civica tutt’altro che flebili, basti pensare alle forme di solidarietà di tipo laico (associazionismo) o religioso che, come giustamente scrivi in seguito, qualche volta coincidono con assistenzialismo semplice, ma altre volte no. Si tratta di forme di solidarietà che attraversano ampi strati della società italiana e di cui la cronaca ogni tanto ricorda l’impegno. O magari anche queste forme di collaborazione sono da considerare come “Erscheinungsformen”?;
3. Non sono una studiosa marxiana del tuo livello, ma comincia a diventare stucchevole e a perdere pregnanza l’uso inflazionato di associazioni termine-aggettivo come diritti civili - piccolo-borghese; Costituzione - piccolo-borghese; legalità - borghese, ecc. ecc. Insomma, sappiamo che “borghese” e “borghesia” sono due termini di riferimento scientifici e con una loro ben precisa connotazione nello studio marxista e marxiano, ma sembra che li usi per aggiungere un significato “monolitico” e mummificato, solo ed esclusivamente negativo, a concetti o insiemi di concetti che sono fondanti non solo per la società italiana ma per tutta l’umanità (per esempio, i diritti civili, che non possono essere esclusivamente considerati come una semplice bandiera sventolata da alcuni Pidioti, o la Legge);
4. Cosa intendi con "realtà aumentata”? Attenzione: smartphone, pc, tablet e social networks (sono questi a cui fai riferimento quando scrivi di “ voluttà visiva” indotta dalle “più avanzate tecnologie audiovisive”?) possono offrire una “realtà distorta”, semmai. La realtà aumentata, oggi come oggi, è legata ad ambienti di alta tecnologia che non sono alla portata di tutti. V.: http://www.treccani.it/enciclopedia/realta-aumentata_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/;
5: L’aristocrazia operaia è motore principale delle tendenza gingoista nel periodo imperialista, secondo Lenin, esatto? In Italia, l’aristocrazia operaia quale sarebbe?
6: "La premessa da cui occorre partire è che gli immigrati sono negli ambienti lavorativi la componente più penalizzata e sfruttata e che essi vivono un’oppressione che si prolunga ben oltre il luogo di lavoro. La condizione di subalternità degli immigrati è strettamente connessa, infatti, all’organizzazione socio-economica complessiva, alle divisioni che il sistema politico-giuridico dello Stato borghese instaura fra cittadini e non-cittadini, all’obbligo di lavorare per ottenere il permesso di soggiorno, al razzismo diffuso e a una generale emarginazione delle loro esigenze”. Ottima sintesi/premessa: pulita, cristallina, veloce, efficace.
7: perché usare sempre il termine “immigrati”? “Cittadini stranieri” non va bene? o anche questo è “piccolo-borghese”?
8: "internazionalismo istintivo”: a mio parere, questa espressione ha un sapore un tantino colonialista (e noi non vogliamo aderire alla mentalità colonialista e imperialista, giusto?).