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sinistra

Due pilastri della teoria marxista

di Eros Barone

La critica marxiana della struttura capitalistica si basa su due pilastri: la teoria del valore e la teoria del plusvalore e dello sfruttamento. Le critiche, dirette o indirette, a questi due pilastri, in sostanza il loro disconoscimento, contraddistinguono una elaborazione teorica, in tutto o in parte, antimarxista, anche se questa avanza la pretesa di aggiornare o di completare il marxismo, mentre in realtà mira a distruggerne i concetti fondamentali. Sennonché, quali che possano essere i mutamenti all’interno della struttura capitalistica, la teoria del valore e la teoria del plusvalore e dello sfruttamento restano, dal punto di vista della critica dell’economia politica, due pilastri ineliminabili di tale critica.

Orbene, quando si affronta il problema cruciale del valore e del plusvalore, e quindi della trasformazione dei valori in prezzi, è necessario, per l’appunto, partire da questo punto di vista, che è poi quello con cui Marx intende il processo economico. La prima cosa da notare è che si tratta sempre di rapporti sociali e non di rapporti tra l’uomo, astrattamente inteso, e la natura.

Sicché cercare delle determinazioni quantitative che astraggano da questi rapporti sociali, che siano categorie dell’“economia pura”, significa uscire completamente dal campo epistemologico entro cui si inscrive il marxismo, ed è chiaro che in questo modo non si può mai trovare una soluzione. Inoltre, bisogna tener presente che già quando si usa la parola ‘prezzo’ si deve intendere prima di tutto un vettore attraverso il quale si distribuisce il reddito sociale, talché quello che può essere un costo per me, è invece un guadagno per un altro.

Ora, il punto da cui parte Marx nella sua analisi della società capitalistica, ma anche di quella mercantile, è la merce, cioè il rapporto sociale in cui si esteriorizza un processo di produzione che può esplicarsi in condizioni diverse. Insomma, la merce è il primo grande rapporto sociale da cui derivano tutte le contraddizioni, ed è proprio da tale rapporto che scaturisce la teoria del valore, che se non fosse concretamente legata a questo rapporto della merce non avrebbe alcun significato.

Se invece l’ipotesi di partenza è quella di una economia diretta ad una produzione di autoconsumo, allora il rapporto è diverso, poiché se non c’è il mercato, se non c’è la merce, se non ci sono rapporti con altre persone, allora la distribuzione dell’energia lavorativa avviene con criteri completamente diversi. Che la prima funzione della teoria del valore sia questa, e sia anche quella di definire la dimensione del mercato e la stessa dimensione generale della produzione in base alla produttività del lavoro, vale a dire quella di indicare i limiti del sistema, risulta evidente soprattutto se si tiene presente che nella società capitalistica il limite è dato dalla produttività del lavoro che crea una determinata quantità di plusvalore e permette di ricostituire il capitale costante. Il concetto di prezzo di produzione, a sua volta, esprime un altro rapporto sociale che conferisce al concetto di valore il suo preciso significato in una società capitalistica. Ed è proprio in questo concetto che si concretizza la teoria del plusvalore quale si manifesta nella società capitalistica, ossia non in una società di semplice produzione di merci, ma in una società capitalistica divisa nelle sue classi fondamentali e che oppone il capitale al lavoro salariato.

Pertanto, da questa concatenazione di concetti – merce, forza-lavoro, prezzo di produzione, capitale variabile e capitale costante – deriva il concetto di plusvalore, che è un concetto essenziale, senza il quale non si ha una teoria dello sfruttamento, e senza il quale si cade, quando va bene, nella impostazione sraffiana. Quest’ultima non elabora una teoria dello sfruttamento, perché non parte da Marx, bensì da Ricardo; tuttavia, vede l’insieme della produzione composto da una parte che ricostituisce le merci necessarie alla riproduzione semplice, ovvero il costo puro, e che darebbe luogo ad un ciclo produttivo stazionario senza un di più, e una parte, che può esservi, che rappresenta un di più, ovvero un profitto.

Sennonché, astraendo dalla concreta situazione reale dei rapporti della produzione capitalistica, gli sraffiani non sanno dire come si divide questa parte in più che viene prodotta e quindi formulano le varie ipotesi, in base ai rapporti di forza, o che tutto vada ai salari e non vi sia profitto, o che tutto vada ai profitti e perciò, ovviamente in senso astratto, non vi siano salari. In buona sostanza, il modo come avviene la suddivisione di questo plusprodotto non è determinato. Il che è quanto dire che gli sraffiani non vedono - e qui è il loro limite – il rapporto sociale, che invece Marx individua chiaramente.

Per Marx il rapporto sociale è determinato dal capitale, che compra la merce forza-lavoro al suo costo di produzione: tutto il resto è plusvalore e se ne appropria il capitalista. Dunque, il capitalista si appropria di tutto il di più. Infatti, che cos’è il valore, il costo della forza-lavoro? Può il lavoratore assorbire in modo permanente una parte crescente di plusvalore? Non può: migliorerà, semmai, le sue condizioni di vita, perché storicamente sarà necessario che il costo di produzione della forza-lavoro abbia un pacchetto di consumi più ampio, ma non è possibile parlare di un’appropriazione di plusvalore da parte del lavoratore, e quindi la distribuzione tra profitti e salari è sempre determinata: non invece, come affermano gli sraffiani, indeterminata e regolata da forze esogene, cioè esterne rispetto alla struttura economica.

A questo proposito, soffermandosi sulla correlazione tra salario e profitto nell’economia capitalistica contemporanea, lo storico marxista Aurelio Macchioro ha giustamente osservato che «coloro che non hanno letto Marx possono credere… che per Marx fosse assiomatico che capitalismo = salario di fame. Nulla di tutto questo: esiste una logica della fame, nel capitalismo, ma esiste anche una logica della prosperità nel capitalismo; e, si badi, una logica della prosperità della classe operaia… sia pure a condizione che la prosperità operaia sia arra di prosperità maggiore pel capitale». L’autore citato pone quindi in luce il punto essenziale, per cui «al di là di ogni invettiva o deprecazione, sfruttamento significa in Marx capacità del capitale produttivo di legare la forza-lavoro in guisa che essa produca accumulazione capitalistica».

Teoria del valore e teoria del plusvalore e dello sfruttamento sono problemi molto importanti, ma sono anche princìpi fondamentali per definire ciò che è essenziale del pensiero marxista. È pur vero che quest’ultimo, come dimostra l’analisi dell’imperialismo condotta da Lenin, deve essere arricchito attraverso le analisi delle modificazioni che intervengono nella struttura, ma, se si vuole rimanere nell’àmbito del pensiero marxista, questi princìpi non possono essere né sfumati né accantonati, poiché permettono di porre in risalto i pilastri su cui si fonda tale struttura.

Così, anche la presunta contraddizione tra il I e il III volume del Capitale, cavallo di battaglia del revisionismo, si rivela priva di consistenza teorica, poiché Marx, passando dalla problematica del valore a livello del I volume alla problematica del valore del III volume del Capitale conduce, di fatto, una ricerca sul tessuto concreto della società capitalistica sviluppata. Le contraddizioni, la perdita di visibilità del valore non sono elementi che costituiscono una contraddizione nel senso che a Marx sarebbero sfuggiti i termini della questione. Marx, al contrario, ricostruisce il modo come nella situazione di capitalismo maturo si ripresenta la tematica del valore. E la sua conclusione è che è la concorrenza dei capitali, determinata dal fatto che essi possano essere investiti in una o altra branca della produzione, il fattore che riequilibra sul piano sociale e da un punto di vista complessivo quei prezzi e quei valori che nelle singole branche della produzione sono perennemente squilibrati dal modificarsi della composizione organica del capitale. Questo tipo di concorrenza provoca la reificazione del profitto nella forma del saggio medio. Marx è dunque consapevole del cambiamento della problematica nel momento in cui si passa dalla analisi della condizione del singolo capitalista a quella della complessiva società capitalistica matura.

La teoria, anche in questo caso, non è qualche cosa che vola in alto e al di sopra delle teste, giacché il suo significato precipuo sta nel rendere espliciti tutti i presupposti e le implicazioni della prassi del movimento di classe senza fermare l’analisi ad un suo risultato provvisorio e parziale. Ed è proprio in questo senso che essa, come hanno insegnato i maggiori esponenti del socialismo scientifico, costituisce il fronte strategico di una battaglia che ha come fine la trasformazione rivoluzionaria della società capitalistica.


Note
1 A. Macchioro, Keynes, Marx, l’Italia, a cura di L. Michelini, Carocci, Roma 2007, p. 43.

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